bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

sabato 20 dicembre 2008

ANCHE DARIA BIGNARDI E' MIA SORELLA


certe donne mi fanno felice.
Daria Bignardi e' una di queste.
magari a casa sua e fuori dallo schermo e senza una pagina da scrivere e' una donna normale, di pessimo umore, a tratti antipatica, pesante e che si incazza anche per poco.
ma mi sta bene. lo sono anch'io.
questo articolo, come molti altri, mi trovano in una sintonia assoluta.
non solo per quello che dice.
per come lo dice.
per l'ironia, il sarcasmo e la non troppo celata rottura di palle che si percepisce.
anche lei, come Lella Costa -peraltro intervistata nell'ultima puntata delle invasioni barbariche, un tripudio di sorellanza- e' mia sorella. ma di piu', se si puo' di piu'.
LEGGETE. punto.


mercoledì, 17 dicembre 2008
Lavorare fino a 65 anni? Anche più, se ci fosse parità vera

Brunetta lo conosce il «pacchetto» che tocca quotidianamente a noi donne?


"Facciamo finta che quella del ministro Brunetta sull’equiparare l’età della pensione di uomini e donne non sia una cosa seria, che sia solo una provocazione, una battuta, o una distorsione dei media.
Facciamo finta che non ci siano lavori che spezzano la schiena e risucchiano l’anima, e facciamo anche finta che, se decidessimo di equiparare i diritti di uomini e donne, dovremmo cominciare dai salari e dall’accesso al lavoro e non dall’età della pensione. Facciamo finta che la Corte europea, che chiede l’equiparazione, non abbia chiesto anche un sacco di altre cose delle quali il governo se ne infischia.
Facciamo finta che in Italia non ci sia un’ostinata mancanza di attenzione ai problemi delle donne, che non manchino gli asili nido, che non ci siano mariti separati che non mantengono i figli, facciamo finta soprattutto, anche se per farlo dobbiamo prendere psicofarmaci o farci ipnotizzare, che in Italia la cura della famiglia sia equamente divisa tra maschi e femmine.
Facciamo finta, ma solo finta, che quello del lavoro non sia un problema troppo serio per scherzarci sopra, e gridiamo a Brunetta il nostro: «Magari!».
Magari, caro ministro, le donne potessero andare in pensione non a sessantacinque ma a cento anni. Trenta milioni di Rite Levi Montalcini, fresche di parrucchiere, sorridenti e innamorate del proprio lavoro. Per la maggior parte delle donne, tranne quelle che fanno lavori orrendi o usuranti, tranne quelle che sono sfruttate, lavorare è una vacanza, un diversivo, una passeggiata rispetto al pacchetto all inclusive che tocca loro dal momento in cui decidono di farsi una famiglia (ma anche alle single incallite tocca prima o poi, perché prima o poi i genitori anziani li hanno tutti, o almeno lo si spera, e di uomini che si prendono cura quotidianamente dei bisogni dei genitori ce ne sono in giro pochi).
Se non arrivassero al lavoro già mezzo morte per essersi alzate prestissimo a fare un po’ di lavori di casa, passare dal supermercato e accompagnare i figli a scuola prima di andare in ufficio, se durante la giornata non dovessero tenere un compartimento di attenzione sempre acceso sugli orari di scuola dei figli, chi li va a prendere, chi li porta in piscina, se hanno preso la medicina, che cosa si mangia stasera, chi va a ritirare i maglioni in tintoria, quante ore ha fatto questo mese la baby-sitter e quante la badante del nonno, e devo fare il bancomat perché la baby-sitter non prende gli assegni, e la donna a ore ha le vampate della menopausa e i figli che la fanno dannare e non stira più, e bisogna comprare la sabbia del gatto, e sono finiti i succhi di pera per la colazione di Ciccio, e Ciccia che è in prima media alle due che cosa mangia, e sarà asciutta la tuta che domani è già giovedì e ha ginnastica?
Ma, anche con una porzione di cervello sempre rivolta agli esseri adorati ai quali vorremmo dare il meglio di noi, e ai quali a volte diamo il peggio tanto siamo frantumate, lavorare ci piace un sacco, e ci viene anche molto bene. Non dico meglio, caro ministro, perché sembro di parte. Però lo penso. Ma questa è un’altra storia."




Lella Costa inizia l'intervista parlando di Alice, nome probabile ma poi non scelto per una delle sue tre figlie, nome possibile immaginario della mia ipotetica figlia, quella dei miei sogni, quella che ancora oggi mi capita di sognare.
Lella Costa conclude l'intervista salvando tre cose:
-il valore dell'intelligenza abbinata alla leggerezza e all'ironia
-il valore di alcune parole, da conservare per sempre
-il valore di non dare ai propri figli il nome Chanel, anzi chanel. perche' i nomi sono importanti, come le parole.
eccomi, sua sorella.
ASCOLTATE. punto
http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=re pliche&video=20250

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