bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

mercoledì 30 marzo 2011

de andre' e la sua mostra: consegnare alla morte una goccia di splendore

"Cioran, uomo di grande lucidità, diceva che la vita , più che una corsa verso la morte, è una disperata fuga dalla nascita. Quando veniamo al mondo affrontiamo una sofferenza e un disagio che ci portiamo avanti tutta la vita, quelli di un passaggio traumatico da una situazione conosciuta all' ignoto. Questo è il primo grande disagio. Il secondo, non meno traumatico, è quando ci rendiamo conto che dovremo morire. Per me questa spaventosa consapevolezza è arrivata verso i quattro anni. L'uomo diventa "grande", diventa spirituale o altro, quando riesce a superare questi disagi senza ignorarli. Ora, se a essi si aggiunge anche l' esercizio della solitudine, ecco che allora forse, a differenza di altri che vivono protetti dal branco, alla fine della tua vita riesci a "consegnare alla morte una goccia di splendore", come recita quel grande poeta colombiano che è Alvaro Mutis. Se ti opponi, se ti rifiuti di attraversare e superare questi disagi, per sopravvivere ti organizzi affinchè siano altri ad occuparsene e deleghi. Questa rinuncia ti toglie la dignità, ti toglie la vita. Credo che l' uomo, per salvarsi, debba sperimentare l' angoscia della solitudine e dell'emarginazione. La solitudine, come scelta o come costrizione, è un aiuto: ti obbliga a crescere. Questa è la salvezza."
Fabrizio De Andrè

mi piacciono le parole di De Andrè, mi piacciono le sue citazioni, mi piace il percorso di vita così come lo ha tracciato.
mi è piaciuta molto la mostra a lui dedicata a Milano, mi è piaciuto l'uso sapiente e funzionale della tecnologia che la rende speciale e futurista, mi è piaciuto sentirlo ancora parlare, leggere e ascoltare di nuovo le sue canzoni, fruire della sua poetica, sapere della sua vita.




mi piace De Andrè. lo ascolto parlare e condivido molto, tutto?, di quello che dice. mi piace come lo dice, mi piace cosa dice, mi piace quanto dice, mi piace quando dice:

"Ho sempre pensato che la musica debba avere un contenuto, un significato catartico : tutti gli sciamani, gli stregoni di tutti i popoli, che ben conosciamo, usavano il canto come medicina. Credo che la musica debba essere balsamo, riposo, rilassamento, liberazione, catarsi. Più semplicemente la musica, il canto, sono espressione dei propri sentimenti, della propria gioia, del proprio dolore. A volte addirittura un tentativo di autoanalisi e, anallizzando te stesso, offri una via agli altri per analizzare se stessi. Le canzoni quindi servono a formare una coscienza. Sono una piccola goccia dove servirebbero secchi d'acqua. Cantare, credo che sia un ultimo grido di libertà. Forse il più serio. Scrivere canzoni sta diventando una responsabilità sociale, ma se ne sono accorti in pochi. Esse entrano a far parte del patrimonio culturale di un popolo, sono parte della coscienza. Sentii fin da subito che il mio lavoro doveva camminare su due binari : l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l'illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. Quest'ultima si è sbriciolata presto, la prima, invece, rimane"



mi colpisce la sua trasformazione fisica, lo vedo giovane, e molto agiato, di una bellezza confortante e luminosa, con quei capelli irresistibili, con un sorriso da buttarcisi dentro e lo vedo, in ogni singolo video e fotogramma, con la sigaretta in mano e in bocca, è impressionante. lo vedo diventare gonfio in faccia, lo vedo trasformato dall'abuso, lo vedo con identi ingialliti e con la faccia che si deforma. anche lui, come molti, si è suicidato di sigarette e cancro al polmone, la morte ce la portiamo dentro, la coltiviamo in vita..
"Lessi Croce, l'Estetica, dove dice che tutti gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante."



sarà facile avere affinità con uno che scrive canzoni, sarà facile e banale perchè con me molti altri si sentono affini, oppure sarà un'operazione necessaria e inevitabile sentirsi parte di qualcosa di ampiamente condiviso.
alla mostra  c'erano giovani, molto giovani, chissà come hanno conosciuto De Andrè, magari dai genitori, e anziani molto ma molto anziani, chissà se hanno parlato di De Andrè ai loro figli.
una signora anziana, che cammina vicino al marito, anziano piu' di lei, legge e parla sottovoce condividendo con lui ciò che vede e ascolta, tiene in mano una delle copertine in vinile che, appoggiate su un tavolo magico, consentono di visualizzare video, interviste, concerti e opinioni dei collaboratori di quel disco, e poi si mette in fila ad aspettare il suo turno con una lastra che, infilata in un apposito sostegno, proietta stralci della vita del cantautore, quella signora anziana mi ha dato il senso di una continuità importante e doverosa. il senso di una passione condivisa che mantiene viva la memoria e la voglia di andare a una mostra, e che si passa idealmente a un giovane che, forse, vivo nemmeno se lo ricorda ma ne ha conosciuto i testi e l'ideale e ora è qui per approfondirlo o avere lo spunto giusto per cominciare a conoscerlo.
sono canzoni, sono poesia, è de andrè un cantauatore o un poeta, non mi importa è un pensatore, una persona cha ha avuto molto e molto da dire e io quello che ha avuto da dire ho molta voglia di ascoltarlo.
anche questa è memoria storica del nostro paese.




Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano | cosa importa se sono caduto se sono lontano | perché domani sarà un giorno lungo e senza parole | perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole. (da Hotel Supramonte)

sabato 26 marzo 2011

Lolita

Iris, ore 23.00. è finito alle 2.00 di mattina.
Lolita, di Stanley Kubrick, un film geniale.
geniale, vi dico geniale.
film di Kubrick ne ho visti alcuni, non tutti, questo è straordinario, il migliore.
bianco e nero, vecchio film in cui i montaggi sanno di  cartone. sono in macchina e si capisce che dietro è tutto finto, che l'abitacolo è fermo e che gira solo il volante.
se volete in un film la cui costruzione teatrale è così meticolosa sorprendente e ipnotizzante tutto questo aggiunge fascino alla pellicola.
non ho letto il libro di Nabokov e, come mi accade sempre, o uno o l'altro. ora ho visto il film e le immagini non sono sostituibili dalla parola - viceversa quando un libro che ho letto diventa un film- anche perchè queste immagini hanno conquistato la mia curiosità e il mio immaginario in modo definitivo e insostituibile.
un maturo professore, Humbert Humbert, perde la testa per un'acerba Lolita. prima sposa la madre, che muore in un tragico quanto enigmatico incidente, successivamente va a vivere con lei in veste di patrigno e lentamente matura un delirio di possesso e gelosia verso la giovane e apparentemente innocente "ninfetta", che, dopo essere fuggita con un ambiguo personaggio, il commediografo Clare Quilty, finirà sposa e incinta di un altro ancora, alla fine del film.
la rappresentazione dei personaggi rasenta la perfezione stilistica e descrittiva.
oltre alla Lolita diabolicamente ambigua sotto le vesti dell'innocenza candida e della malizia inconsapevole, la contrapposizione tra il professor Humbert e l'amante Quilty, interpretato da un incredibile Peter Sellers, è una rappresentazione senza pari della follia, dell'alienazione, dello sdoppiamento della coscienza. la narrazione del film è sottile e si gioca su allusioni mai esplicitate fino in fondo, su ambiguità supposte, su una passione erotica divorante mai rappresentata e solo sussurrata all'orecchio, sullo sviluppo della follia lungo l'invisibile corrosione di una voce fuori campo. l'aspetto più sorprendente è la presenza di questo secondo pretendente alle attenzioni di Lolita, che si presenta in forma strisciante nel personaggio di Quilty-Peter Sellers. Sappiamo che c'è, sappiamo che esiste, sappiamo che è "l'altro", sappiamo che è l'autore delle telefonate anonime a contenuto sessuale e provocatorio, il destinatario delle telefonate segrete di Lolita, l'oggetto delle sue ripetute bugie al professore, il soggetto di travestimenti burleschi e francamente umilianti, lo zio presunto che consente la fuga di Lolita, il pedinatore nascosto, lo sappiamo ma non si vede praticamente mai. non lo vediamo mai in presenza di Lolita, sono due soggetti separati sulla scena ma complici a spese del professore.
di fatto Quilty non parla mai direttamente con Humbert, ma sempre per interposta persona, attraverso segnali, dimenticanze, mediante il telefono, travestito con i baffi da psicologo scolastico o di spalle mentre parla con accento straniero. il professore percorre la strada della sua perdizione travolto dalla sessualità perversa di Lolita, che si percepisce con forza ma non si concretizza mai,  e dalla presenza persecutoria perturbante di Quilty, che segna tutto il percorso ma non si sostanzia mai.
questa è maestria, questa è capacità narrativa senza eguali.
leggo che la censura impedì a Kubrick di esplicitare le scene di sesso costringendolo ad aggirare l'ostacolo con allusioni e sottintesi e penso, al contrario delle opinioni che ho letto, che questa sia stata la fortuna di questo film. il desiderio e la sua perversione si insinuano in tutto il film proprio in virtù della proibizione, ed è la proibizione, la censura, che determinano lo sdoppiamento di Humbert Humbert -insito nel suo nome- destinato alla follia da una parte e alla consegna della realizzazione del suo desiderio alla figura fantasmatica di Quilty.
il film è intriso di erotismo che non si esprime, ovviamente, mai, nelle scene di sesso esplicito, ma nella costruzione narrativa della storia, nella dinamica e nelle relazioni dei personaggi, nella potenza del non detto, nella verità di ciò che solo viene supposto ma mai realmente visualizzato.
un capolavoro, secondo me.

mercoledì 23 marzo 2011

dies irae

INDONESIA. Sumatra island. Banda Aceh. After the tsunami. 2005.
 LEBANON. Qana. 56 civilians were killed during an Israeli air strike in the early hours of July 30th, 2006.
CISGIORDANIA. due bambine fanno il bagno nel mar morto. 2010
AFGHANISTAN. Nangahar province. May 2006. A helicopter used by Afghan interdiction to move from Kabul to team up with DEA agents to assault on compounds in a village hiding chemicals and drugs.
Kosovar refugees who have just crossed the border into Albania at Morina on their tractor.
ISRAEL. The blood stains on the bed where a mother and child were assasinated by Palestinian gunmen in a settlement near Hebron. 2002
HAITI. A homeless woman limps through the streets of Port au Prince, Haiti after an earthquake devastated the country. 2010

SUDAN. South Darfur. Dying child with his mother in MSF feeding center in Kass.

INDONESIA. Sumatra island. Banda Aceh. After the tsunami. 2005.

lo vorrei un talento così.
le ho ammirate a bocca aperta, tra stupore e sconcerto, venerdì scorso allo Spazio Forma. le foto di Paolo Pellegrin. "Dies Irae".
il talento satura il vivere? il talento favorisce la felicità? il talento limita le potenzialità?  il talento è una responsabilità?
una responsabilità senz'altro. parlavo con qualcuno che, come me, ha visto la mostra e mi ha dato informazioni su questo autore, e si discuteva del fotogiornalismo in tempo di digitalizzazione delle immagini. ai tempi di una pellicola la possibilità di manipolazione e mistificazione di un'immagine era irrisoria e forse nemmeno considerata come un'opzione interessante. il fotogramma era quell'istante, certo nello sguardo e nell'inclinazione di chi fotografa, quindi un'opinione di chi fotografa, ma privo di operazioni aggiuntive dettate dall'intenzionalita' e non dalla realtà del momento. Pellegrin aderisce a un gruppo di fotografi che hanno deciso di mantenere un'aderenza alla foto originale, una forma di onestà di contenuto che non preveda uno stravolgimento dell'immagine in previsione di una volontà di convincimento.
delle sue foto apprezzo la crudezza senza ostinazione. senza  ostentazione del marcio del maciullamento e dell'orrore che a volte finisce per rappresentare se stesso e non il momento nella sua interezza. Pellegrin usa filtri, sfuocamenti, vetri, annebbiamenti per ridurre l'impatto, per angolarlo, per circostanziarlo all'ambientazione più che allo stravolgimento emotivo. 
vincitore di otto World Press, è il fotografo italiano più premiato di sempre con quasi vent'anni di avventurosa carriera, dalla Cambogia al Kosovo, dal Darfur ad Haiti, passando per Iran, Iraq, Palestina e Indonesia, Pellegrin ha raccontato la vita senza ricercare l'efficacia impattante dell'immagine privilegiando il valore storico della fotografia.
un'onestà di documentazione che mi ha molto colpito in alcuni ritratti di star holliwoodiane davvero belle e sorprendenti, dove il divismo lascia spazio alle persone, dove la posa abbandona i volti, dove lo sguardo passa oltre la recitazione.





mi piace. e molto.

e questa, secondo me, è LA FOTO.

CAMBODIA, Phnom Penh, 1998. Phanna, 24 lives in a shanty town on the outskirts of town she has AIDS.

domenica 20 marzo 2011

di uomini e di dei


ha ragione Rofrano (http://maxrofrano.blogspot.com/2011/03/tchaikovsky-in-monastero.html), è diversa la traduzione italiana dall'originale francese.
ma andrebbe rispettata.
des hommes e dex dieu. di uomini e di dei.
in questo film sono molti gli dei, quello cristiano, quello musulmano e gli dei della spada e della morte.
i musulmani del villaggio dividono il loro cibo con i monaci, questi leggono e citano il corano e partecipanno attivamente alla vita della comunità. persino un fondamentalista islamico minaccioso, con turbante e seguaci aggressivi, si placa dopo un' irruzione al monastero, quando il priore chiama gesù con il nome Isa ibn Maria, l'appellativo che gli spetta con reverenza nella tradizione coranica. gli dei della morte sono fino all'ultimo dietro le nuvole e alla fine dietro la nebbia si perderanno, ma sembrano, per un attimo, condividere il rispetto della diversità quando la diversità non giudica ma condivide l'esperienza della fede.
traduzione italiana: uomini di dio.
 “Gli uomini non fanno mai male, così completamente e allegramente- dice Luc, il frate medico della comunità- come quando lo fanno per convinzione religiosa”, citando Pascal.
questi uomini, cristiani cistercensi in nome delle fede possono andare ben oltre la loro stessa natura. quello che ho visto io e’ che gli uomini di dio hanno paura. e anche senza bisogno delle scene che lo esplicitano, questo sentimento si coglie, molto bene, in molti di loro. ho sempre pensato che la fede consenta di andare oltre la paura della morte che, poi, io credo, sia il punto nodale della vita di tutti noi, paradossalmente, forse. ogni percorso analitico finisce per andare dritto su questo punto, l’angoscia di morte, la pulsione di morte, la paura della morte. gli uomini di dio hanno paura. ne parlano tra loro, ne parlano con il priore, ne parlano. hanno paura ma restano. in questa piccola comunita’ che racchiude in se’ tutti gli elementi di qualsiasi convivenza, la forza della coesione, in nome della fede o dell’amore o dell’amicizia o del senso civico umanitario  o della condivisione democratica di ruoli diritti e doveri, qualcosa, consente di superare la paura e di restare. tutto, come dice Rofrano, dice nel film che quella e’ la meta, tutto nel discorso dell’analisi, dice che quello è il luogo del parlare. tutto dirige verso quel punto, il punto del non senso. vedo questa storia come la storia di un’analisi, di un discorso sulla paura e della motivazione a restare oltre se stessi e i propri limiti. è l'immanenza che conduce alla trascendenza, senza la superbia del martirio, con la consapevolezza di non avere altra scelta se non quella dell'aderenza al proprio credo quotidiano.
la scena della musica, del lago dei cigni a sottofondo dell'ultima cena, non e’ la mia preferita. rispetto al pudore dei sentimenti, e all’umilta’, al decoro e al garbo delle emozioni, questa scena e’ quasi scomposta. l’irruenza di una musica cosi’ spudoratamente romantica e irresistibilmente sentimentale come si giustifica in un mondo di microspostamenti dell’anima, di contenimento di ogni eccesso, di giustificazione di ogni esistenza, anche la piu’ violenta? la mia scena preferita e’ l’ultima. accompagnata dalla lettera di testamento morale e civile del priore, di accoglimento delle differenze, di compenetrazione delle fedi e di accettazione dell’ineluttabile, la scena si sposta dalle fotografie del monastero dell’Atlante –luogo di incommensurabile bellezza, almeno questo l’ho visto di persona- ormai abbandonato e abitato e invaso solo dalla neve e dal vuoto dell’assenza del canto liturgico, al cammino lento faticoso asmatico e inesorabile verso un punto lontano. tutti camminano sotto le neve, immersi dalla neve, ammutoliti dalla neve, uomini di dio, uomini cristiani e uomini musulmani, verso un punto indefinito ma centrato fissato fino all’ultimo, fino alla scomparsa di ogni elemento umano, fino alla permanenza dell’unico elemento di continuita’ della vita, l’amore e il suo indelebile ricordo.

Grazie Rofrano.

giovedì 17 marzo 2011

Croma - VERDE

il verde evoca la natura, la campagna, l'ecologia. ma pare non sia sempre stato cosi', prima del settecento la natura non veniva definita come vegetazione ma come l'insieme di quattro elementi: aria, terra, acqua e fuoco. per questo la natura possedeva quattro colori, il bianco dell'aria, il nero della terra, il verde dell'acqua e il rosso del fuoco. quindi il verde della natura si confondeva tra gli altri, apparteneva all'acqua, percepita come verde per millenni. poi, straordinariamente, l'acqua e' diventata blu.
l'aspetto piu' interessante del verde e' la difficolta' di reperire in natura i coloranti verdi. allora l'uomo, per tingere o pitturare di verde, si e' adoperarato nella mescolanza di due colori, il blu e il giallo. il colore della natura, in natura, non si trova.
le difficolta' per creare il verde, e ancor piu' per fissarlo, spiegano perche' questo colore e' stato spesso attribuito, sul piano simbolico, a cio' che e' mutevole: la gioventu', la fortuna, l'amore, la speranza, il gioco, il caso e anche i soldi.
verde e' mancanza di stabilita'. e, a me, non piace, ma queste fotografie si anche se alcune di quelle che avrei voluto postare non le ho trovate...

 Paulo Whitaker
 Harry Gruyaert
 Steve McCurry
 Steve McCurry
 Paolo Pellegrin

per me il verde e' un colore esterno, ambientale, non mi appartiene, non lo vesto e non lo sogno.
di verde io ricordo il raggio, da un film di Eric Rohmer che mi colpi' molto, molti anni fa.

 Il raggio verde
di Lucio Piccolo
Da torri e balconi protesi
incontro alle brezze vedemmo
l'ultimo sguardo del sole
farsi cristallo marino
d'abissi... poi venne la notte
sfiorarono immense ali
di farfalle: senso dell'ombra.
Ma il raggio che sembrò perduto
nel turbinio della terra
accese di verde il profondo
di noi dove canta perenne
una favola, fu voce
che sentimmo nei giorni, fiorì
di selve tremanti il mattino.

martedì 15 marzo 2011

Mart, Modigliani e Mountains…e Molte Parole

 
“Quasi tutte le parole scritte, dette, ascoltate, udite per caso dal 1989. ”
Douglas Gordon.
parole scritte ovunque. mi piace da matti questa cosa, ma proprio tanto.
sali per le scale di questo luogo d’arte contemporanea chiamato MART (Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto), strutturalmente interessante, culturalmente densissimo, e leggi.
parole e frasi, testi murali in caratteri tipografici bembo, futura bold, palatino, times italic, lunghezze e colori diversi.
sono attraenti questi richiami al discorso della vita.
“So cosa vuoi”
“C’è qualcosa che dovresti sapere”
“Sei cambiato”
“Andra’ tutto bene”
“Apri la bocca, chiudi gli occhi”
“Ogni volta che mi pensi, muori un poco”
“Ho scoperto la verita'”
“Ti perdono”
“Le cose semplici che vedi sono tutte complicate”
“Tu ricordi piu’ di quello che io so”
a volte la frasi sono d'angolo, iniziano su un lato, finisco sull'altro. quante frasi nella vita, sono costruite sugli spigoli!?
era da tempo che volevo venire in questo posto, ci sono passata rientrando a Milano.
 
ho visto le sculture di Modigliani e sono rimasta fredda come le facce tribali delle sue donne. dopo la potenza espressiva di Rodin, che ho appena avuto la fortuna di vedere a  Legnano, capisco la differenza tra il desiderio di penetrare la mente con un oggetto il cui movimento sfonda il tempo e lo spazio e la costruzione di un oggetto puramente plastico, architettonico, isolato nell’ossessione di un artista, come Modigliani, appunto.
questi volti sono divinizzati, niente di umano, sono maschere primitive.

ho visto il Dolomites Project di Olivo Barbieri e sono uscita calda come le sue fotografie. queste immagini delle dolomiti sono incandescenti. bruciano. mi danno un senso di vertigine, solitudine e potenza. accanto alla mostra fotografica gira un video, con un rumore continuo di sottofondo, un rumore inquietante, di silenzio e di vuoto che rimbomba nell’universo.
sono uscita ipnotizzata, barcollando, piccola piccola.
e' onnipotente la natura, e spesso torna a ricordarcelo.

domenica 13 marzo 2011

cortecce

Cavalese.
Cermis.
Trentino.
in un bosco di betulle. 10 marzo 2011.