bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

martedì 27 dicembre 2011

il processo, la colpa senza nome


ho letto Il processo di Kafka.
erano anni che mi dicevo: DEVI leggerlo.
qualcosa mi diceva che dovevo forse perchè in fondo non volevo?
ho letto La metamorfosi, anni fa, e mi era piaciuto.
una metamorfosi metaforica. l'uomo scarafaggio la dice tutta sulla mostruosità che alberga in noi e che ci coglie, all'improvviso, una mattina, trasformando la nostra vita. 
come per il Josef K., il protagonista de Il processo.
Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.
K. mi attendeva in tutta la sua cupa notorietà.
va bene, non mi è piaciuto, se non, alla fine, gli ultimissimi capitoli, in buona sostanza l'ultimo.
è fatto apposta? Kafka mi ha tenuta in ballo annoiandomi per poi folgorarmi alla fine?
si mi sono annoiata. e poi alla fine sono rimasta spiazzata.
mi sono assuefatta alla convivenza con la colpa, la colpa senza nome del signor K., la colpa muta e infangante che all'inizio squarcia nella vita ma poi ne diventa parte sintomatica, la colpa dettata dalla legge senza volto, la colpa che cerca un apparato di giustiza ma non lo trova, la colpa che rimane interiorizzata e schiacciante, e, caspita, alla fine la colpa uccide. di colpa si muore.
la colpa uccide K., l'uomo, immergendo il coltello nel cuore e guardandolo negli occhi, ma la colpa sopravvive a ogni esistenza.
Con gli occhi esterrefatti egli vide ancora il viso dei due al di sopra del suo, guancia contro guancia, che spiavano la fine. «Come un cane!» mormorò, e gli parve che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta.
uno dei passi più interessanti è quello della parabola che gli racconta il prete, cappellano delle prigioni, anch'egli mandante e incaricato dell'apparato di giustizia del tribunale (c'è forse qualcuno che non ne fa parte? c'è forse qualcuno che non ha a che fare con LA LEGGE?, non ne dipende e non ne risponde?), durante la sua visita nel duomo, nel penultimo capitolo.


Davanti alla porta della Legge sta un guardiano. Gli viene davanti un uomo dalla campagna, e chiede di essere ammesso alla Legge, ma il guardiano dice che per il momento non gli può concedere l’ingresso. L’uomo ci pensa su, e chiede se allora non potrà entrare più tardi. “Può darsi – dice il guardiano – ma adesso no”. Poichè il portone che conduce alla Legge è aperto come di consueto, e il guardiano si è scostato, l’uomo si china per dare un’occhiata all’interno attraverso il portone. Il guardiano se ne accorge, ride e dice: “Se ti attira tanto, prova un po’ a entrare a dispetto del mio divieto. Ma bada bene: io sono potente. E sono solo il guardiano di grado più basso. Di sala in sala però ce ne sono altri, ognuno più potente di quello che lo precede. E nemmeno io so sopportare anche solo lo sguardo del terzo guardiano”. L’uomo della campagna non si aspettava simili difficoltà : pensa che la Legge dovrebbe essere accessibile a tutti e in ogni momento, ma poi osserva meglio il guardiano nella sua pelliccia, col suo gran naso a punta, la barba tartara nera, lunga e sottile, e si rassegna; meglio aspettare finchè non gli venga concessa la licenza di entrare. Il guardiano gli da uno sgabello e gli permette di sedersi a lato della porta. Ci resta giorni ed anni. ... Maledice il suo caso sfortunato, nei primi anni ad alta voce, poi, a mano a mano che invecchia, solo ormai brontolando fra sè. Rimbambisce; e siccome studiando per anni ed anni il guardiano ha finito col riconoscere persino le pulci del suo bavero di pelliccia, supplica anche le pulci di aiutarlo a convincere il guardiano. Infine gli si annebbia la vista, e non sa più davvero se gli si è fatto buio intorno o se solo gli occhi lo ingannano. Ma nel buio distingue un bagliore che riluce ininterrotto attraverso la porta della Legge. Non ha più molta vista davanti a sè, e prima di morire tutte le cose che ha viste si condensano nel suo capo in una sola domanda, che fino allora non aveva mai rivolto al guardiano. Gli fa cenno di avvicinarsi, perchè non sa più raddrizzare il suo corpo che si sta facendo rigido. Il guardiano deve chinarsi su lui molto in basso, perchè la differenza di statura si assai spostata a sfavore dell’uomo. “Che cos’altro mi chiedi ancora? – domanda il guardiano – sei incontentabile”. L’uomo dice: “Tutti si vogliono avvicinare alla Legge; come mai, in tutti questi anni, nessuno ha chiesto di entrare oltre a me?”. Il guardiano si è accorto che l’uomo è agli estremi, e per superare la sua sordità gli urla all’orecchio: “Qui, nessun altro poteva ottenere il permesso: questa entrata era riservata solo a te. Adesso vado a chiuderla”.

l'uomo davanti alla legge e il guardiano davanti all'uomo. due vite trascorse nell'attesa, l'uno dello scioglimento dell'enigma, l'altro della sua perpetuazione. quell'attesa dell'uomo davanti alla legge è senza domanda e senza risposta, è solo una supplica muta, è un terrore senza nome, è un legame inscindibile che si fonda sull'equivoco del silenzio. ed è così che può trascorrere un'esistenza,  vincolata dalla colpa che non ha una collocazione, che non ha un confine, che chiede solo il sacrificio della sofferenza. la vita si svuota e la colpa si rinforza, la vita se na va e la colpa rimane, ci sopravvive dopo aver divorato tutta la nostra forza vitale, inchiodandoci davanti a una soglia, ovvero a una scelta.
Josef K. non sa di cosa muore, ma sa che è stato molto più forte di lui.

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