bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

mercoledì 29 febbraio 2012

C’è nell’intimità degli uomini un confine

di Anna Achmatova

C’è nell’intimità degli uomini un confine
che né l’amore, né la passione possono osare:
le labbra si fondono nel terribile silenzio
e il cuore si spezza per amore.
Anche l’amicizia qui è impotente, e gli anni
pieni di felicità alta infiammata,
quando l’anima è libera e distratta
dal lento languore della voluttà.
Pazzo è colui che vi si appresta,
raggiungerlo è morire d’angoscia...
Ora puoi capire perché non batte
il mio cuore sotto la tua mano.
Pietroburgo, maggio 1915

 
è solo per cominciare.
Anna Achmatova.
estrema.
ma non folle, coma una Sexton o una Plath.
lucida.

lunedì 27 febbraio 2012

falla girare

Falla girare
Jovanotti

Lo sai che apparenze non ingannano
E i cigni dentro all' acqua non si bagnano
Lo sai c'è una febbre che ti fa guarire
E che ci sta un silenzio che si fa sentire
Lo sai che il dna è lungo più dell'equatore
Lo sai che c'è uno spirito anche dentro ad un motore
Lo sai che i grandi mistici hanno braccia forti
E i grandi calciatori c'hanno piedi storti
Lo sai che nella pancia puoi ascoltare i suoni
Lo sai che anche i malvagi fanno gesti buoni
Lo sai che ogni tramonto è l'alba di un vampiro
E che le idee future sono già in giro
Lo sai che proprio adesso un uomo sta morendo
Lo sai che proprio adesso un bimbo sta nascendo
Lo sai che proprio adesso noi stiamo vivendo e qualche cosa
proprio ora ci stiamo scambiando
Falla girare falla girare falla girare così che tutti la possano
vedere
Falla girare falla girare falla girare così che tutti la possano
sentire.

così canta quel bel tipo di Jovanotti, su un cd che mi ascolto in macchina guidando, un bel regalo di un paziente riconoscente.

la faccio spesso quell'autostrada, milano bolzano e ritorno, e ogni volta è un viaggio che mi dice qualcosa.
tornavo dal trentino e andavo verso casa, ieri.
l'anno scorso, stesso periodo, ero sconvolta, mi sono riletta, tornavo per un giorno a Milano dalla montagna per andare a fare un concorso, me la vivevo male, e me lo ricordo molto molto bene.
nel giro di sette giorni avevo scritto 4 post tra creature fatate di neve, roghi in autostrada che ricordavano il mio, foto di cortecce e una splendida visita al Mart di Rovereto. che movimenti di testa e di cuore. che razza di subbuglio ho dentro, a volte. spesso. troppo.
quest'estate era andata un pochino meglio, mi ero dilettata con Umberto Tozzi, che truzzo mai visto, che accozzaglia di parole, che confusione mentale, ma cantavo a squarciagola della sua donna che stira cantando, come non ricordarla.
quest'anno la faccenda è stata molto più tranquilla, fatto salvo che la settimana intera non sono riuscita a farla lo stesso, certe questioni sono geneticamente determinate e ingovernabili, secondo me, non si curano praticamente mai.
come genetica e incurabile è, a volte, la mia dedizione ai bisogni degli altri dimenticando i miei, per poi lamentarmene come tutti quelli che fanno le cose aspettandosi un riconoscimento e non per il gusto di farle e basta. motivo per cui, malata senza speranza, non mi sono fermata al Mart, ove quest'anno fresca fresca, aperta il 25 febbraio, c'è una mostra su ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE, e chi mi conosce  sa della mia attrazione fatale per questa favola di nonsense, specchi, enigmi e porcospini che giocano a croquet conversando con i fenicotteri. ah che mondo..
questo viaggio è stato pressochè sereno e mi dico che, Alice a parte, molte cose sono cambiate e cambiate bene.
non mi sento più su un rogo a lato della strada, non mi sento una strega, posso lavorare, e bene, e posso anche sbagliare, e molto, senza sentirmi morire ogni volta. ancora patisco, ma so passare oltre, senza perderci anni di vita.
mica poco, no?
il lavoro sa dare soddisfazione, finalmente, sa aprire nuove possibilità senza che io abbia il terrore del cambiamento, e sa aggiustare, rettificare, attutire la mia propensione, mortifera, alla perfezione. sono ancora precaria nel mio lavoro, ma è radicalmente cambiato il mio approccio, la mia libertà, la mia capacità di accettare l'imprevisto. pensavo che quando si ha tanta paura dell'imprevedibilità, quando tutto deve essere sotto controllo, quando si insegue il perfezionismo, quando si giudica severamente l'incertezza o scorrettezza degli altri, quello che stiamo facendo è solo di porre un rimedio, di limitare l'inquietudine rispetto alla più grande paura che abbiamo, la cosa più imprevedibile e imprendibile e incontrollabile della nostra vita: la morte. 
non sono guarita, sono solo migliorata...intanto al Mart mi tocca tornarci, per colpa della mia incapacità di tollerare un possibile ritardo, e farmi altre due ore di macchina, per andare, e due per tornare...Alice deve essere mia!

se "falla girare" di Jovanotti mi fa pensare ai punti di vista come una necessità,
"uno sguardo verso il cielo" delle Orme, sullo stesso cd, mi fa pensare alla speranza come un dovere.

Uno Sguardo Verso Il Cielo
Le orme
La gioia di cantare, la voglia di suonare
Il senso di raggiungere quello che non hai
Ecco un altro giorno come ieri,
Aspettare il mattino per ricominciare.
La forza di sorridere, la forza di lottare
La colpa d'esser vivo e non poter cambiare
Come un ramo secco, abbandonato
Che cerca inutilmente di fiorire.
La maschera di un clown in mezzo a un gran deserto
Un fuoco che si spegne, uno sguardo verso il cielo
Uno sguardo verso il cielo, dove il sole è meraviglia
Dove il nulla si fa mondo, dove brilla la tua luce.

mercoledì 22 febbraio 2012

chi mi parla non sa


giovedì sera.
ci arrivo strozzata dalla fretta e dallo stress.
si vive correndo, io certamente, e anche per arrivare qui ho corso, e con affanno.
ma poi grazieadio mi sono fermata ed è stata una bellissima sosta.
pacificante.
Antonia Pozzi è una creatura che mi commuove, mette in movimento un'onda dentro di me.
la serata al Franco Parenti di Milano era un omaggio per i cento anni dalla nascita, un buon pretetesto per cerebrarla.
la leggeva e interpretava Elisabetta Vergani. non so se sia stata brava o meno, di certo mi ha fatto arrivare la voce di Antonia e anche apprezzare la scelta delle poesie e delle lettere perchè ha saputo coglierne l'evoluzione psichica ed emotiva.
anche Marina Spada, regista milanese molto snobbata ma molto talentuosa, l'ha guardata da vicino in un bel film, "poesia che mi guardi", e ne ha colto l'anima candida, lo strazio dirompente, il destino impietoso.


questa donna, questa ragazza, è morta suicida a 26 anni, era fragile, così fragile, era tormentata dall'inadeguatezza, era mossa da desideri che non sapevano, e nemmeno potevano, trovare espressione.
soffocata prima dal padre, poi dalla durezza del fascismo e infine dal razionalismo freddo e spietato del suo mentore universitario, Antonia era troppo delicata perchè la sua vita sognata venisse vissuta.
in un mondo maschile fallico e prevaricante, il suo talento per la poesia e la sua elevazione spirituale verso il bello, erano giudicati come disturbi emotivi. c'è qualcosa di più spiazzante, dopo che il padre pone il veto sull'amore, che il suo professore la esorti ad abbandonare la poesia? "scrivi il meno possibile", le disse il prof. Banfi.
alla fine Antonia sceglierà di scrivere, comunque, di parlare attraverso la sua poesia, nonostante tutto, ma di questa negazione del suo sè, ne morirà.

Chi mi parla non sa
che io ho vissuto un’altra vita –

eppure era piena di occhi e di cuore, basta guardare le sue fotografie, meravigliose, e leggere le sue poesie, pure e cristalline come l'acqua di montagna.
la leggo, la rileggo, la guardo e la riguardo, la seguo ovunque ne parlano, sapesse quanto mi piace, e non solo a me, ne sopravviverebbe, forse.

Novembre

E poi – se accadrà ch’io me ne vada –
resterà qualchecosa
di me
nel mio mondo –
resterà un’esile scìa di silenzio
in mezzo alle voci –
un tenue fiato di bianco
in cuore all’azzurro –

Ed una sera di novembre
una bambina gracile
all’angolo d’una strada
venderà tanti crisantemi
e ci saranno le stelle
gelide verdi remote –
Qualcuno piangerà
chissà dove – chissà dove –
Qualcuno cercherà i crisantemi
per me
nel mondo
quando accadrà che senza ritorno
io me ne debba andare.

 

Preghiera

Oh, tu bene mi pesi
l’anima, poesia:
tu sai se io manco e mi perdo,
tu che allora ti neghi
e taci.
Poesia, mi confesso con te
che sei la mia voce profonda:
tu lo sai,
tu lo sai che ho tradito,
ho camminato sul prato d’oro
che fu mio cuore,
ho rotto l’erba,
rovinata la terra –
poesia – quella terra
dove tu mi dicesti il più dolce
di tutti i tuoi canti,
dove un mattino per la prima volta
vidi volar nel sereno l’allodola
e con gli occhi cercai di salire –
Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,
poesia che mi guardi.



domenica 19 febbraio 2012

le conversazioni di Innsbruck dell'Opera al Nero.


sto leggendo, o meglio me lo sta leggendo Maddalena Crippa, algida ed enigmatica come il libro che interpreta, "L'opera al nero", della Yourcenar.
è un libro pazzesco.
pazzesco.
intanto è un libro sulla morte.
e la morte ai tempi del medio evo, cioè una morte putrida, infestata, macellata, impestata, giustiziata sui roghi delle streghe o immolata nel nome di dio, un nome fanatico e assassino.
un libro pazzesco, denso, odoroso di densità direi
mi impressiona.
il suo cuore, il cuore nel corpo di questo libro, è Zenone.
di corpo in questo libro, di corpo che vive che suda che soffre che gode che cambia che si nutre, torturato, assassinato, maltrattato, gonfio, putrefatto, puzzolente, travestito, damascato, profumato, indagato, curato spurgato, trafitto, impiccato, bruciato, di corpo...si parla moltissimo. e' la materia del corpo che da il ritmo al nostro vivere, e morire.
è' Zenone che parla, medico alchimista e filosofo, nato bastardo nell'epoca di transizione dall'oscurantismo impregnato di superstizione e morte del medio evo, all'illuminazione foriera di speranza e nuove scoperte del rinascimento. Zenone è colto, è ardito, è controcorrente rispetto alla sua epoca e in anticipo rispetto a quella che verrà, è libero di pensiero, eretico quindi, è spinto dal sapere e dall'arte medica, studia pubblica ragiona e cura in clandestinità, osteggiato dal suo tempo.
questo libro trabocca di sapienza e di cultura, di storia e di conoscenza, di filosofia e di scienza.
è un libro complesso e impegnativo, è intriso di morte e solitudine, è, ancora una volta, un'incredibile esperienza.

sul corpo:
Nella stanza impregnata di aceto in cui sezionammo quel morto che non era più né il figlio né l'amico, ma soltanto un bell'esemplare della macchina umana, ebbi per la prima volta la sensazione che la meccanica da un lato e la Grande Arte dall'altro non fanno che applicare allo studio dell'universo la verità che ci insegnano i nostri corpi, nei quali si replica la struttura del Tutto. Non bastava una vita intera per confrontare tra loro il mondo in cui siamo e il mondo che è noi. I polmoni erano il mantice che ravviva la brace, la verga un'arma da lancio, il sanguenei meandri del corpo l'acqua dei rivoli in un giardino d'Oriente, il cuore, secondoche si adotti una teoria anziché l'altra, la pompa o il braciere, il cervello l'alambicco ove si distilla un'anima...""E rieccoci all'allegoria," osservò il capitano. "Se con questo intendi affermareche il corpo è la più solida delle realtà, dillo chiaro e tondo.""Ma nient'affatto," replicò Zénon. "Questo corpo, il nostro reame, mi sembra avolte fatto di un tessuto impalpabile e sfuggente quanto un'ombra. Non mi sorprenderebbe di non rivedere mia madre, la quale è morta, più che di ritrovare all'angolo di una strada il tuo volto invecchiato la cui bocca sa ancora il mio nome, ma la cui sostanza si è ricostituita più volte nel corso di vent'anni, e di cui il tempo ha mutato il colore e ritoccato la forma. Quanto grano è spuntato, quanti animali sono vissuti e morti per sostentare questo Henri che non è quello che ho conosciuto a vent'anni.

sulla medicina e la morte:
Non era la prima volta che le mie pozioni si rivelavano inutili, ma fino a quel momento ogni decesso non era stato che una pedina perduta nella mia partita di medico. Anzi, a furia di combattere Sua Maestà nera, tra essa e noi si instaura una sorta di oscura complicità; allo stesso modo, un capitano finisce per conoscere e ammirare la tattica del nemico. Arriva sempre un momento in cui i nostri malati s'avvedono che noi la conosciamo troppo bene per non rassegnarci in loro nome all'inevitabile; essi continuano a supplicare e a dibattersi, ma nei nostri occhi leggono un verdetto che non vogliono vedere. Bisogna amare qualcuno, per rendersi conto che è scandaloso che la creatura muoia... Mi venne meno il coraggio, o per lo meno l'impassibilità che ci è tanto necessaria. Il mio mestiere mi parve vano, cosa quasi altrettanto assurda quanto crederlo sublime. Non è che soffrissi: al contrario, mi sapevo assolutamente incapace di raffigurarmi il dolore di quel corpo che si torceva sotto il mio sguardo; il mio domestico moriva come in fondo a un altro regno. Chiamai, ma l'oste si guardò bene dal venirmi in aiuto. Sollevai il cadavere per deporlo sul piancito in attesa dell'arrivo dei becchini che sarei andato a chiamare alla prim'alba; una manciata dopo l'altra, bruciai il pagliericcio nella stufa della camera. Il mondo di dentro e il mondo di fuori, il macrocosmo e il microcosmo, erano ancora gli stessi del tempo delle dissezioni di Montpellier, ma quelle grandi ruote ingranate l'una nell'altra giravano nel vuoto assoluto; quei fragili meccanismi più non mi stupivano. Mi vergogno di confessare che la morte di un domestico bastò a produrre in me una così negra rivoluzione, ma ci si stanca, fratel Henri, e non sono più giovane: ho più di quarant'anni. Ne avevo abbastanza del mestiere di rabberciatore di corpi; fui colto dal disgusto all'idea di tornare la mattina a tastare il polso del signor scabino, rassicurare la consorte del balivo, scrutare controluce l'orinale del signor pastore. Quella notte mi ripromisi di non curar più nessuno.

sul passaggio dalla superstizione alla scienza:
Tastavo polsi, esaminavo lingue, studiavo urine, non certo anime... Non spetta a me decidere se un avaro colpito da colicameriti di campare altri dieci anni, e se è bene che il tiranno muoia. Anche il peggiore o il più sciocco dei nostri pazienti ci insegna qualcosa, e la sua sanie non è più infetta di quella di un sagace o di un giusto. Ogni notte trascorsa al capezzale di un malato qualsiasi tornava a pormi davanti a interrogativi sempre senza risposta: il dolore e lesue finalità, la benignità della natura o la sua indifferenza, e se l'anima sopravviva alnaufragio del corpo. Le spiegazioni analogiche, che un tempo m'era parso delucidassero i segreti dell'universo, mi sembrava che a loro volta pullulassero di nuove possibilità d'errore in quanto tendenti ad attribuire a questa buia natura quel disegno preordinato che altri attribuiscono a Dio. Non dico che dubitassi: dubitare è diverso; proseguivo l'indagine fino al punto in cui ogni nozione mi scattava da sotto le mani come una molla forzata; non appena salivo al livello di un'ipotesi, sentivo andare in pezzi sotto il mio peso l'indispensabile se... M'ero illuso che Paracelso e il suo sistema di segnature spalancassero alla nostra arte una via trionfale, in pratica rimenavano a superstizioni da villaggio. Lo studio degli oroscopi non mi sembrava più proficuo come una volta per la scelta delle medicine e la predizione degli incidenti mortali; ammettiamo pure di esser fatti della stessa materia degli astri: non ne consegue che essi ci determinino o che possano dirigerci. Più ci pensavo, più le nostre idee, i nostri idoli, le nostre costumanze presuntamente sante, e le nostre visioni che passano per ineffabili, mi sembravano generati senz'altro dai sussulti della macchina umana, al pari del soffio delle narici o delle parti basse, del sudore e dell'acqua salata delle lacrime, del sangue bianco dell'amore, dei liquami e degli escrementi del corpo. Mi irritava che l'uomo sprecasse così la propria sostanza in costruzioni quasi sempre nefaste, parlasse di castità prima di aver smontato la macchina del sesso, disputasse di libero arbitrio invece di soppesare le mille oscure ragioni che ti fanno battere le ciglia se improvvisamente avvicino ai tuoi occhi un legno, o di inferno prima di aver interrogato più dappresso la morte.

sulla verita' dell'errore:
Non cesserò mai di stupirmi che questa carne sostenuta dalle vertebre, questo tronco congiunto alla testa dall'istmo del collo, con le sue membra simmetricamente tutt'attorno, contengano, e forse producano, uno spirito che trae partito dai miei occhi per vedere e dai miei movimenti per palpare.. Ne conosco i limiti, e so che gli mancherà il tempo di spingersi oltre, e la forza, caso mai il tempo gli fosse concesso. Ma esso è e in questo istante, è Colui che E'. So che sbaglia, erra,che spesso equivoca le lezioni che gli impartisce il mondo, ma so anche che ha in sé di che scoprire e talvolta rettificare i propri errori. Ho percorso almeno una parte di questo globo su cui stiamo; ho studiato il punto di fusione dei metalli e la generazione delle piante; ho osservato gli astri ed esaminato l'interno dei corpi. Sono in grado di estrarre da questo tizzone che sollevo la nozione di peso, e da queste fiamme la nozione di calore. So che non so quel che non so; invidio coloro che ne sapranno di più, ma so che al pari di me dovranno misurare, pesare, dedurre e diffidare delle deduzioni ricavate, stabilire la parte del vero nell'errore e tener conto dell'eterna intrusione del falso nel vero. Non mi sono mai incaponito in un'idea per timore dello smarrimento in cui cadrei senza di essa. Non ho mai condito con la salsa della menzogna un fatto vero per rendermene più facile la digestione. Non ho mai deformato le opinioni di un avversario per averne più facilmente ragione. O forse sì: io mi son sorpreso a farlo, e ogni volta mi sono rimproverato come si sgrida un domestico disonesto, ritrovando la fiducia in me stesso solo col ripromettermi di far meglio. Ho avuto anch'io i miei sogni; e non li considero altro che sogni. Mi sono guardato dal fare della verità un idolo, preferendo lasciarle il nome più umile, di esattezza. I miei trionfi e i miei repentagli non sono quelli che la gente s'immagina; ci sono altre glorie oltre la gloria, e altri roghi oltre il rogo. Sono quasi riuscito a diffidare delle parole. Morirò un po' meno sciocco di nato.


martedì 14 febbraio 2012

Hugo Cabret

volete sognare?
volete volare?
volete immaginare?
commuovervi?
guardare il mondo dall'alto di un orologio della stazione di Parigi? appesi nel tempo e nello spazio?
entrare nei meccanismi perfetti e lubrificati di orologi, dispositivi meccanici, e automi che disegnano?
volete perdervi negli occhi azzurri infinitamente grandi di un bambino solo e coraggioso?
volete vivere l'emozione del cinema alla sua nascita?
volete sentire il cuore che si muove e batte e ribatte come quello di un bambino?
ecco il film:
Hugo Cabret.
io mi sono persa ho pianto ho sperato ho vissuto questo mondo magico che esplora, oggi, il 3D parlando del cinema quando la cinepresa si muoveva, allora, con la manovella. un artificio tecnico avanzato per parlare di un mondo fatto di tagli a mano sulla pellicola, di maschere e costumi, di travestimenti e sparizioni, di rotaie che trasportano lune gigantesche e briganti che si vanificano con lo scoppio di un petardo.
è un grandissimo omaggio alla meraviglia e allo stupore, della  vita e della sua rappresentazione, da parte di uno Scorsese che mi è piaciuto come forse non mai.
Hugo è orfano, si occupa di far funzionare i tanti orologi della stazione e coltiva il sogno di aggiustare l'uomo meccanico che conserva nel suo nascondiglio, luogo magico e prezioso tra gli ingranaggi perfetti della misurazione del tempo, e che rappresenta tutto ciò che gli è rimasto del padre. per farlo, ruba attrezzi dal negozio del giocattolaio, un uomo triste e burbero, ma viene colto in flagrante dal vecchio che gli sequestra un prezioso taccuino di suo padre con i disegni dell'automa. quel vecchio sarà la figura chiave della sua riappropriazione del tempo, della sua storia, della sua origine. quel vecchio era un mago e poi un grande cineasta, un uomo colmo di fantasia e passione che aveva saputo dare vita ai sogni con il cinema, la grande  meravigliosa scatola magica che tutto può contenere.
quel vecchio, Georges Melies, non vuole ricordare, per questo gli sequestra il taccuino di appunti che scopre in possesso di Hugo, deciso a seppellire per sempre un passato il cui ricordo gli procura solo dolore; ma Hugo vuole al contrario ricostruire la sua storia, trovare il suo scopo e il suo posto nel mondo, proprio attraverso quel silenzioso testimone meccanico, che forse può finalmente riuscire a far parlare. è stato questo pensiero a consentire a Hugo di resistere all'abbandono, alla morte, alla solitudine, alla sofferenza, l'idea che come in un mondo meccanico ogni pezzo è specifico e contato, ogni pezzo ha il suo posto preciso, così nel mondo degli uomini, per quanto crudele e imprevedibile, anche lui avrà un suo posto, un suo luogo, un suo tempo e una sua funzione. anche Hugo ha diritto alla sua vita.
Hugo vive nella torre dell’orologio da cui può godere di un'osservazione privilegiata sulla città e sulla vita, in compagnia di grandi ingranaggi e meccanismi che girano guarda il mondo come da dentro la cabina di proiezione, osserva la vita scorrere come se fosse un’unica lunga, immensa pellicola, guarda il mondo che gira e che palpita: la fioraia, il giornalaio, il negozio dei giocattoli e quello dei libri, i treni che arrivano e che partono, le persone che ballano, si baciano o si salutano. è quel suo occhio azzuro, curioso mai pago e sempre vivo, che lo tiene in vita, che lo alimenta, che lo spinge.
ma sarà solo la magia, pur nell'esatezza salvifica del suo pensiero di pogni cosa al suo posto, a restutirgli la vita.
la magia di un disegno ritrovato dopo aver aggiustato il suo automa.
la magia di una grande luna colpita in un occhio da un missile, come suo padre gli aveva fantasticamente raccontato di aver visto la prima volta al cinema.
la magia di un sogno che diventa realtà nelle immagini strepitose dei primi film e della loro enorme portata di creatività e forza espressiva.
è la magia la chiave (non solo simbolica) di accesso alla storia, quella magia ricreata artigianalmente, con infinita pazienza, dalle mani di Méliès coi suoi trucchi e i suoi macchinari, quella che lo stesso Hugo vuole caparbiamente far rivivere nell'automa lasciatogli da suo padre, quella che, alla fine dell'Ottocento, ammaliava gli spettatori e li rendeva testimoni di uno spettacolo che era la versione moderna della lanterna magica.

questo film è il luogo della curiosità, del coraggio e della passione del desiderio che ci permetteranno di sopravvivere, sempre.

lunedì 13 febbraio 2012

rendimi gli occhi sperduti


Rendimi gli occhi sperduti,
oh troppo a lungo hanno sostato su di te;
ma poichè tanto appresero di male,
di modi affettati,
di false passioni,
così che
fatti da te
ciechi alla bella vista,
tienili tu, presso di te.

Rendimi il cuore inerme
che non un pensiero indegno potè macchiare;
ma se edotto da te
alla derisione
di ogni dichiarazione,
al tradimento
di parola e giuramento,
tienilo tu,
chè più non mi appartiene.

Rivoglio i miei occhi.
Rivoglio il mio cuore.
Che le tue bugie possa conoscere e vedere
e riso e gioia provare, quando tu
in angoscia dimorerai
e languirai
per qualcuno che si negherà
o si mostrerà infedele,
come te, ora.

Il messaggio, di Jhon Donne.
qualcuno, che mi sembra un tipo intelligente, dice che John Donne (1572-1631) è il più grande poeta d'amore.
io non so se sia così, come non so chi sia il più grande scrittore o quale sia la più bella poesia.
quando leggo certe interviste in cui si citano la canzone più amata, il piatto preferito, il profumo più suadente, il film più bello, l'attore più cool, mi domando come sia possibile effettuare una scelta e renderla assoluta, conferirle il potere di riassumere tutto il bello che c'è. di poesie d'amore ne ho lette moltissime, non potrei dire che Neruda, Lorca, Pozzi, Lasker-Schüler, Sexton, Plath, Hesse, Hikmet, Achmatova siano da meno rispetto a Jhon Donne, abbiano avuto meno idee in tema d'amore o le abbiano espresse con minore intensità.
come dice la prefazione di Virgina Wolf -effettivamente una delle scrittrici più affascinanti io abbia mai letto!- al libro che ho comprato, questo poeta ha la dote dell'immediatezza, irrompe nel discorso in modo esplosivo, senza mediazioni. e questo è un concetto lacaniano direi, che mi prende moltissimo, quello del discorso in cui siamo immersi, dell'inconscio strutturato come un linguaggio, del mondo simbolico in cui nasciamo, predeterminato dall'Altro.
le parole mi affascinano, mi attraggono, posso dire che non c'è nulla che mi colpisca, mi prenda e mi dia il senso dell'altro più del sentirlo parlare, scrivere, usare le parole.
"è luce stabile, ferma l'amore, o luce che cresce.
è notte il primo attimo dopo mezzogiorno."
sapersi inscrivere così nel discorso, è un bel sapere.

questa poesia mi piace e mi ha attratto per il titolo: il messaggio. leggendola mi sono domandata come potrebbe essere oggi, un discorso così, un augurio così, una rivendicazione così, un imperativo simbolico così, in un messaggio, un sms, nel nostro attuale linguaggio di anafabeti virtuali.

giovedì 2 febbraio 2012

devo molto a quelli che non amo

 by s-guazz

sono a casa malata. la neve, che in citta' detesto, mi ha stroncata.
sono vittima di un virus malefico e cattivo come una tarantola che martedi' pomeriggio mi ha azzannata violentemente alla gola prima e alle fosse nasali dopo, nel giro di due ore, a tradimento, da donna sana mi sono trasformata in un soggetto da sanatorio. non respiravo piu'.
mi e' insopportabile essere malata, faccio una fatica mondiale a prendermi un giorno di malattia. mi sento in colpa e continuo a pensare, sotto le coperte, che non sto piu' cosi' male, potevo andare a lavorare. ma con il teletrasporto. ieri spalando la neve dalla macchina mi sono bagnata completamente e dopo una giornata in studio sono tornata a casa tremando. lacrimavo con gli occhi gonfi, a casa mi domandavano chi fossi, perche' chiedevo asilo proprio presso quella magione, se potevo fornire la mia carta d'identita'...
penso che la neve abbia diritto di vivere, in montagna e' magica, anche nell'interland milanese  probabilmente, ma sotto casa mia, no!
solo martedi' sera, andando a yoga, ho avuto una bella percezione, ma la neve, quella li', aveva appena cominciato a fioccare, era ancora innocua e non la odiavo, per il momento. anzi mi ha fatto pensare che quel bianco per terra delimitava nuovi confini, ridisegnava gli spazi, rimpiccioliva le strade e allargava i maciapiedi, la gente camminava in mezzo alla strada come fosse normale...il segno delle macchine e' molto piu' in la, scusi eh...
oggi ho tempo e guardo in giro, ho scoperto, solo ora che vergogna, che S. ha un blog e ho scoperto che e' morta la grandissima Wislawa Szymborska, maestra di leggerezza e ironia con chirurgica sapienza del saper vivere, e mi sono vista un delizioso video di Pilar, una simpatica francese che gioca a fare la sposa e mostra una bocca voragine, un modo molto accattivante e spiritoso di fare la femmina (http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=BZ6p0XCWqtQ). grazie S.
in compenso da li' sono finita su un altro blog che presentava tra le altre cose, incitando alla lotta -?- , un video sulla "donna dell'Ariston" andato in onda sul TG1 a gennaio, diretto da Vincenzo Mollica, l'intervista, non il TG, per la presentazione della nuova valletta di Sanremo, tra due Morandi e Papaleo, stupidi e bamboccioni come due pensionati al tramonto. leggo di una petizione indignata rivolta alla direttrice, del TG1 non dell'intervista, gia' raccolte 1500 firme, con la richiesta di un risarcimento morale e di pubbliche scuse a tutte le donne italiane umiliate davanti al mondo.
autogol signore, siamo ridicole, senza senso dell'ironia, fragili come cocci rotti. a me viene da sorridere per quei due vecchietti imbambolati davanti a una ventenne cavallona impacciata. al limite trovo il tutto banale e stantio ma nemmeno per questo mi avventurerei in una petizione, mi prendo solo il diritto dovere di guardare quel che mi va. le donne hanno perso ironia, spirito, leggerezza, sono autoreferenziali in tutto, tutto le offende e le umilia, sempre a piangersi addosso, con tutto quello che ho fatto per te, io cosi' sensibile tu cosi' bastardo, come hai potuto farmi questo. l'autostima e l'indipendenza di pensiero sono cosi' esaurite e impoverite che si sentono umiliate, quindi si immedesimano mioddio ma vi sembra il caso?, da una ventenne straniera che cavalca la sua inutile occasione per farsi vedere. ma state serene, abbiate pena e pieta' e procedete per la vostra strada, avete abbastanza stima di voi stesse per sapere quanto valete e quanto avete lavorato e conquistato e del vostro peso specifico dentro e fuori dal letto, o andate in mille pezzi e piangete l'umiliazione subita a ogni cartellone pubblicitario?
io non mi sento ferita, non sono alta due metri e non ho vent'anni ma mi sento figa lo stesso, e mi viene francamente da ridere con un po' di imbarazzo per quel po' po' di petizione da leonesse agguerrite.
ridiamo ragazze, ridiamo un po' di piu' e tutto andra' meglio, anche l'irritazione pulsionale da umiliazione, anche l'incontro con il maschio fallico dominatore. perdoniamo le umane debolezze altrimenti sorgera' il dubbio, almeno a me, che non sapppiamo nemmeno lontanamente vedere le nostre.
leggiamo Wislawa Szymborska, avra' qualcosa da insegnarci sull'impagabile leggerezza dell'essere.

Ringraziamento 
(Wislawa Szymborska)

Devo molto
a quelli che non amo.

Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.

La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.

Mi sento in pace con loro
e in libertà con loro,
e questo l'amore non può darlo,
né riesce a toglierlo.

Non li aspetto
dalla porta alla finestra.
Paziente
quasi come una meridiana,
capisco
ciò che l'amore non capisce,
perdono
ciò che l'amore non perdonerebbe mai.

Da un incontro a una lettera
passa non un'eternità,
ma solo qualche giorno o settimana.

I viaggi con loro vanno sempre bene,
i concerti sono ascoltati fino in fondo,
le cattedrali visitate,
i paesaggi nitidi.

E quando ci separano
sette monti e fiumi,
sono monti e fiumi
che trovi su ogni atlante.

È merito loro
se vivo in tre dimensioni,
in uno spazio non lirico e non retorico,
con un orizzonte vero, perché mobile.

Loro stessi non sanno
quanto portano nelle mani vuote.

«Non devo loro nulla» -
direbbe l'amore
su questa questione aperta.