bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 30 dicembre 2013

lisbon story


è un film delizioso, questo di Wenders.
ma delizioso forse è riduttivo.
è anche delizioso, è soprattutto pregevole.
ha tanti elementi che me lo rendono molto affine, che me lo fanno amare.
mi piace il viaggio con il quale si apre il film e  lo spazio nella mente di chi guarda, un lungo viaggio in macchina cha attraversa l'Europa, mi piace il protagonista, Philip Winter, che per mestiere si occupa di suoni, li cattura e poi li riproduce per i film, è simpatico, ironico, distratto, adattabile e innamorato, mi piace la presenza dei Madredeus, della sua cantante Teresa Salgueiro, da brivido incontrollabile lungo la schiena, bella e piena di fascino, mi piace Lisbona, è ovvio, la sua luce, le sue strade, la sua magia. è un omaggio al cinema, alla sua eterna bellezza, al pensiero che lo sottende, alla ricerca che lo vivifica, all'emozione che produce. 
e, sopra ogni cosa, mi piace la colonna sonora di Pessoa, continuamente citato nel film a sostegno del percorso dei due protagonisti, uno Philip presente, arguto, curioso e amabile, l'altro, Friedrich, assente per tutto i film, un nessuno, come Pessoa definiva se stesso, un niente che ha in sè tutti i sogni del mondo.
questo gioco di assenza, di nessuno, di essere niente senza amore, di amore nostalgico, per Lisbona, per la cinepresa a manovella e la pellicola in bianco e nero, per la voce di Teresa e la musica indescrivibile dei Madredeus, per le citazioni di Manoel De Oliveira in un'intervista in portoghese che ragiona di uomo e di universo...questo gioco è respiro senza fine.
omaggio a Fellini, omaggio al cinema, alla partecipazione emotiva.
una chicca.


Non c’era elettricità, così io leggevo alla fioca luce di una candela, aggomitolato nel letto, qualsiasi cosa trovassi da leggere.
Era la Bibbia in portoghese e nuovamente lessi la prima lettera ai Corinti.
Rileggendola alla luce di una candela mi ha sopraffatto.
Non sono nulla, una pura fantasia.
Cosa aspettarsi da me stesso e dalle cose di questo mondo?
E se non ho avuto amore…
E se non ho avuto amore?
Oh mio Dio, io non ho amore!
Oh mio Dio , io, non ho amore
.
Pessoa, dicembre ’34, poco prima della sua morte.
Philip prende la Bibbia, e legge:
E se pure ho il dono della profezia, e se pure posso penetrare tutti i misteri e tutte le dottrine, e se anche possiedo una fede tale da smuovere le montagne ma non ho avuto amore, io non sono nulla.





 Per quanto fosse nato cieco non si può immaginare ciò che poteva vedere.
 Ascolto senza guardare e così vedo


Nella luce del giorno anche i suoni brillano

io ho desiderato come i suoni non essere le cose
ma viverle ..

Quando ero bambino
vivevo inconsapevole
per raggiungere la memoria che oggi ho di allora.
Comprendo adesso
cosa io fossi un tempo.
La mia vita ora procede nutrita di finzione
ma in questa prigione,
mio solo libro
leggo il sorriso di qualcun altro
di colui che io ero allora



Ciao Federico.
Lisbon story, di Wim Venders, 1994.

lunedì 23 dicembre 2013

è questo che ti lascio

andate a una festa di natale.
e notate. le donne bevono, più degli uomini, e, spesso, si ubriacano.
belle e brutte, single e ammogliate, senza differenze.
fumano e bevono.
nelle adolescenti poi questo è un dato veramente allarmante. alcol fumo e distruttiva schiavitù -non libertà- sessuale.
uno spettacolo desolante, una parità che ci fa povere di mente.
infatti il primato della depressione non ce lo toglie nessuno.
buon natale.

 ...
Anch’io sono di quelli che dicono, di fuori,
il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro.
Il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sfòrzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.


Kriton Athanasulis
Brano dal mio testamento

sabato 21 dicembre 2013

WILDLIFE photographer of the year, 2012


la prima ha vinto il premio, in assoluto.
l'ultima l'ha scattata un ragazzino di 13 anni.
ho messo le migliori, ma nemmeno tutte.
una bella mostra quella del WILDLIFE PHOTOGRAPHER OF THE YEAR 2012- MUSEO MINGUZZI via Palermo 11, Milano. le foto sono bellissime, galattiche, eccezionali. la domanda, che mi faccio sempre è: ma quanto ritoccate? tutte e molto. ma godiamoci l'illusione.
In esposizione le ultime 100 immagini premiate al più prestigioso concorso di fotografia naturalistica, indetto dal Natural History Museum di Londra con il Bbc Wildlife Magazine e arrivate in Italia grazie all'esclusiva concessa dal Museo londinese alla PAS EVENTS di Torino. La mostra articolata su quattro piani, consente di immergersi in un viaggio affascinante negli aspetti più incontaminati e sorprendenti della natura che gli autori hanno “catturato” grazie alla loro conoscenza dell’ambiente, alla capacità di esprimersi con la macchina fotografica, alla creatività, alla pazienza e naturalmente alla passione.
ma si, un po' di vita, di natura buona.
quando è buona.

martedì 17 dicembre 2013

è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo

una macchina brucia, avvolta dalle fiamme, sul lato della tangenziale.
fumo, molta coda, tantissimo ritardo.
un segnale autostradale lampeggia 1 km prima e segnala: veicolo in fiamme.
lo vedo, il fumo, avvicinarsi nell'estenuante cambio tra prima e seconda che la coda impone.
tra ieri e oggi sarò stata in auto 3 ore, almeno. anche di più. gli audiolibri mi salvano la vita dall'inedia e dalla disperazione.
passo vicino, l'auto è completamente avvolta dal fuoco, il finestrino del guidatore è aperto, le fiamme escono voraci dallo scheletro della macchina, il mio pensiero va alla dinamica, non c'è incidente, solo una macchina a lato, quasi parcheggiata, e va a chi guidava: dov'è?
sono certamente sconvolta dalla lettura che mi salva la vita di questi tempi, da quell'uomo che si domanda della natura umana. sono certamente avvolta dalle fiamme, come quella macchina, sono tormentata da domande e immagini di repertorio, e da immagini che mi vengono dalle parole del libro.
l'ho finito proprio questa mattina, proprio mentre il fuoco saliva nero sul cielo terso gelido implacabile di queste mattine di dicembre.
leggo Saviano che commenta l'audiolibro da lui stesso raccontato in un opuscolo di accompagnamento, e mi trovo d'accordo su tutto, e scopro che anche Saviano legge audiolibri a manetta, parla dei lunghi viaggi in auto con la sua scorta accompagnati dalla lettura a voce alta, e questa sintonia mi riempie di un sentimento di vicinanza. assurdo, penso assurdo, vicina a un uomo che non conosco e lontana da persone che vedo tutti i giorni, un sentimento falso, una balla che mi racconto.
questo libro mi sgomenta: 
26 gennaio. 
Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiusti- zia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo.

nella visione di Primo Levi la condizione del lager in cui un uomo, un salvato, sopravviverà a un altro, un sommerso, sarà anche l'esito di una capacità di sopravvivenza, ma sarà anche inesorabilmente la condanna di un essere umano a sfavore di un altro. non c'è, di fatto, salvezza possibile sul piano morale, perchè la vicinanza con la morte, la strenua lotta per sopravvivere, la condivisione di fame, diperazione, sopruso, malattia, deprimento, abruttimento, percosse, condurrà un essere umano a privare un altro di un respiro, di una briciola, di una coperta seppure imbrattata di sangue, escrementi e pulci. il non-umano è un'esperienza di degradazione che colpisce tutti, senza speranza, e chi si sottrae, per scelta o incapacità di fare altrimenti, sarà il primo a morire. 

Qui è diverso. Di fronte alle ragazze del laboratorio, noi tre ci sentiamo sprofondare di vergogna e di imbarazzo. Noi sappiamo qual è il nostro aspetto: ci vediamo l’un l’altro, e talora ci accade di specchiarci in un vetro terso. Siamo ridicoli e ripugnanti. Il nostro cranio è calvo il lunedì, e coperto di una corta muffa brunastra il sa- bato. Abbiamo il viso gonfio e giallo, segnato in permanenza dai tagli del barbiere frettoloso, e spesso da lividure e piaghe torpide; abbiamo il collo lungo e nodoso come polli spennati. I nostri abiti sono incredibilmente sudici, macchiati di fango, sangue e untume; le brache di Kandel gli arrivano a metà polpacci, rivelando le caviglie ossute e pelose; la mia giacca mi spiove dalle spalle come da un attaccapanni di legno. Siamo pieni di pulci, e spesso ci grattiamo spudoratamente; siamo costretti a domandare di andare alla latrina con umiliante frequenza. I nostri zoccoli di legno sono insopportabilmente rumorosi, e incrostati di strati alterni di fango e del grasso regolamentare. E poi, al nostro odore noi siamo ormai avvezzi, ma le ragazze no, e non perdono occasione per manifestarcelo. 
Non è l’odore generico di mal lavato, ma l’odore di Häftling, scialbo e dolciastro, che ci ha accolti al nostro arrivo in Lager ed esala tenace dai dormitori, dalle cucine, dai lavatoi e dai cessi del Lager. Lo si acquista subito e non lo si perde più: «così giovane e già puzzi!», così si usa accogliere fra noi i nuovi arrivati. A noi queste ragazze sembrano creature ultraterrene. Sono tre giovani tedesche, più Fräulein Liczba, polacca, che è la magazziniera, e Frau Mayer che è la segretaria. Hanno la pelle liscia e rosea, begli abiti colorati, puliti e caldi, i capelli biondi, lunghi e ben ravviati; parlano con molta grazia e compostezza, e invece di tenere il labora- torio ordinato e pulito, come dovrebbero, fumano negli angoli, mangiano pubblicamente tartine di pane e marmellata, si limano le unghie, rompono molta vetreria e poi cercano di darne a noi la colpa; quando scopano ci scopano i piedi. Con noi non parlano, e arricciano il naso quando ci vedono trascinarci per il laboratorio, squallidi e sudici, disadatti e malfermi sugli zoccoli. Una volta ho chiesto una informazione a Fräulein Liczba, e lei non mi ha risposto, ma si è volta a Stawinoga con viso infastidito e gli ha parlato rapidamente. Non ho inteso la frase, ma «Stinkjude» l’ho percepito chiaramente, e mi si sono strette le vene. Stawinoga mi ha detto che, per ogni questione di lavoro, ci dobbiamo rivolgere a lui direttamente. Queste ragazze cantano10, come cantano tutte le ragazze di tutti i laboratori del mondo, e questo ci rende profondamente infelici. 
Discorrono fra loro: parlano del tesseramento, dei loro fidanzati, delle loro case, delle feste prossime... – Domenica vai a casa? Io no: è così scomodo viaggia- re! – Io andrò a Natale. Due settimane soltanto, e poi sarà ancora Natale: non sembra vero, quest’anno è passato così presto! ... Quest’anno è passato presto. L’anno scorso a quest’ora io ero un uomo libero: fuori legge ma libero, avevo un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. Pensavo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose e alle leggi che governano l’agire umano; e inoltre alle montagne, a cantare, all’amore, alla musica, alla poesia. Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi e positivi; l’avvenire mi stava davanti come una grande ricchezza. Della mia vita di allora non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono più abbastanza vivo per sapermi sopprimere.

ecco un accenno al suicidio, mai più trattato nel testo, ma quel che mi colpisce di questo brano sono le ragazze tedesche del laboratorio. mi sconvolge, ma non mi stupisce, la condivisione del popolo dell'idea di sterminio, la convivenza con i campi di annientamento a un passo dalle proprie case, l'assunzione del ruolo di crudeltà, l'adozione dell'attegiamento umiliante e denigratorio. quel che penso e non so pensare ad altro è che le tre ragazze del laboratorio sono diventate madri e nonne di uomini tedeschi teutonici contemparanei. quindi? hanno chiesto scusa? hanno rettificato l'educazione dei propri figli? hanno tramandato la disumanità della superiorità di razza? dove sono, ora quelle donne quei figli e quei nipoti? come vivono il loro passato?
questo libro mi insegna che che il primo passo per la sopravvivenza è l'annientamento del ricordo e della memoria, quindi l'annullamento della capacità di sentire e condividere. Primo levi rammenta spesso che la necessità di sopravvivere alla fame e al freddo, il bisogno di tenere insieme un corpo che si sfalda si ammala si deturpa e deperisce, annulla il ricordo del propro essere stato, altro, in un'altra storia di sè e del mondo. il momento più crudele della giornata, più insopportabile di tutto il male e lo stupro, è il ricordo, è il sogno collettivo di junghiana sapienza, di tornare a casa e di non essere ascoltati dalla propria famiglia, ormai annientati nell'essenza ancora prima che nel corpo.

questo libro è, per tutto questo,  testimonianza della militanza della memoria.

lunedì 16 dicembre 2013

Sarai scelto tu. Sarò escluso io.

come mai non si sono tutti e dico tutti buttati sul filo spinato elettrificato?
o sotto le rotaie dei treni che passavano presso il campo di lavoro?
o gettati a capofitto verso una zona di fuga in modo da essere ammazzati da una raffica di mitra?
come mai non si menzionano suicidi?
c'è da impazzire di domande dietro le parole di questo libro, dietro l'analisi tra sommersi e salvati, nell'osservare l'attaccamento alla vita, al tentativo, anche se disperato, di ripercorrere rituali vitali, commerci clandestini -seppure di bottoni, cucchiai e mezze razioni di pane- vicinanze e alleanze.
in questo brano del libro di Primo Levi, c'è una verità spietata sulla natura dell'uomo, la capacità innata di combattere e di mantenersi in vita opposta a un abbandono senza speranza, una differenza che anche il carnefice osserva e ripaga, con un rispetto che sarà salvifico nel primo caso e con una condanna poi ineludibile nel secondo. l'insegnamento più penetrante del libro rimane comunque, a prescindere dalla propria natura e dal caso che colpisce al di là delle tenacia, è l'importanza di rimanere uomini, saldi e fermi, e di non imputridire, nonostante l'aspetto abietto e bestiale, nella melma schifosa e senza scampo per l'anima della brutalità e del sopruso verso l'altro. si può, mi domando, si può preservare qualcosa di umano in un luogo, senza tempo e senza spazio, di un lager?


I SOMMERSI E I SALVATI  (da Se questo è un uomo, di Primo Levi)

Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria. 
A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da questo particolare mondo di cui narriamo. Vorremmo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale. 
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale- uomo di fronte alla lotta per la vita. 
Noi non crediamo alla più ovvia e facile deduzione: che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto come si comporta quando ogni sovrastruttura civile sia tolta, e che lo «Häftling» non sia dunque che l’uomo senza inibizioni. Noi pensiamo piuttosto che, quanto a questo, null’altro si può concludere, se non che di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio. 
Ci pare invece degno di attenzione questo fatto: viene in luce che esistono fra gli uomini due categorie particolarmente ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse. Questa divisione è molto meno evidente nella vita comune; in questa non accade spesso che un uomo si perda, perché normalmente l’uomo non è solo, e, nel suo salire e nel suo discendere, è legato al destino dei suoi vicini; per cui è eccezionale che qualcuno cresca senza limiti in potenza, o discenda con continuità di sconfitta in sconfitta fino alla rovina. Inoltre ognuno possiede di solito riserve tali, spirituali, fisiche e anche pecuniarie, che l’evento di un naufragio, di una insufficienza davanti alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga ancora che una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge, e dal senso morale, che è legge interna; viene infatti considerato tanto più civile un paese, quanto più savie ed efficienti vi sono quelle leggi che impediscono al misero di essere troppo misero, e al potente di essere troppo potente. 
Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente ferocemente solo. Se un qualunque Null Achtzehn vacilla, non troverà chi gli porga una mano; bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nessuno ha interesse a che un «mussulmano»* di più si trascini ogni giorno al lavoro; e se qualcuno, con un miracolo di selvaggia pazienza e astuzia, troverà una nuova combinazione per defilarsi dal lavoro più duro, una nuova arte che gli frutti qualche grammo di pane, cercherà di tenerne segreto il modo, e di questo sarà stimato e rispettato, e ne trarrà un suo esclusivo personale giovamento; diventerà più forte, e perciò sarà temuto, e chi è temuto è, ipso facto, un candidato a sopravvivere. 
*[in un altro libro di Primo Levi è descritta una categoria umana molto simile ai Muselmänner: «Nella nostra camerata, come pure in tutte le altre del reclusorio, c’erano sempre dei poveri, dei cenciosi, che avevano perduto e bevuto tutto, o poveri semplicemente così, per natura. Io dico “per natura” e insisto in modo particolare su questa espressione. Effettivamente, dappertutto nel popolo nostro, in qualsiasi congiuntura, in qualsiasi condizione, sempre ci sono e ci saranno certe strane persone, pacifiche e non di rado tutt’altro che indolenti, predestinate dalla sorte a rimanere eternamente povere. Costoro sono sempre dei tapini, sono sempre malmessi, hanno sempre un certo aspetto di gente abbattuta e oppressa da non so che cosa e si trovano in perpetuo alla mercé di qualcuno». ]
Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona «a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto». Nel Lager, dove l’uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti. Con gli adatti, con gli individui forti e astuti, i capi stessi mantengono volentieri contatti, talora quasi camerateschi, perché sperano di poterne trarre forse più tardi qualche utilità. Ma ai mussulmani, agli uomini in dissolvimento, non vale la pena di rivolgere la parola, poiché già si sa che si lamenterebbero, e racconterebbero quello che mangiavano a casa loro. Tanto meno vale la pena di farsene degli amici, perché non hanno in campo conoscenze illustri, non mangiano niente extra razione, non lavorano in Kommandos vantaggiosi e non conoscono nessun modo segreto di organizzare. E infine, si sa che sono qui di passaggio, e fra qualche settimana non ne rimarrà che un pugno di cenere in qualche campo non lontano, e su un registro un numero di matricola spuntato. Benché inglobati e trascinati senza requie dalla folla innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si trascinano in una opaca intima solitudine, e in solitudine muoiono o scompaiono, senza lasciar traccia nella memoria di nessuno. Il risultato di questo spietato processo di selezione naturale si sarebbe potuto leggere nelle statistiche del movimento dei Lager. 
Ad Auschwitz, nell’anno 1944, dei vecchi prigionieri ebrei (degli altri non diremo qui, ché altre erano le loro condizioni), «kleine Nummer», piccoli numeri inferiori al centocinquantamila, poche centinaia sopravvivevano; nessuno di questi era un comune Häftling, vegetante nei comuni Kommandos e pago della normale razione. Restavano solo i medici, i sarti, i ciabattini, i musicisti, i cuochi, i giovani attraenti omosessuali, gli amici o compaesani di qualche autorità del campo; inoltre individui particolarmente spietati, vigorosi e inumani, insediatisi (in seguito a investitura da parte del comando delle SS, che in tale scelta dimostravano di possedere una satanica conoscenza umana) nelle cariche di Kapo, di Blockältester, o altre; e infine coloro che, pur senza rivestire particolari funzioni, per la loro astuzia ed energia fossero sempre riusciti a organizzare con successo, ottenendo così, oltre al vantaggio materiale e alla reputazione, anche indulgenza e stima da parte dei potenti del campo. Chi non sa diventare un Organisator, Kombinator, Prominent (truce eloquenza dei termini!) finisce in breve mussulmano. 
Una terza via esiste nella vita, dove è anzi la norma; non esiste in campo di concentramento. Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi. Tutti i mussulmani che vanno in gas hanno la stessa storia, o, per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare. Entrati in campo, per loro essenziale incapacità, o per sventura, o per un qualsiasi banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono battuti sul tempo, non cominciano a imparare il tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e di divieti, che quando il loro corpo è già in sfacelo, e nulla li potrebbe più salvare dalla selezione o dalla morte per deperimento. La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono oro, i Muselmänner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, del non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi; si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero. 
Se i sommersi non hanno storia, e una sola e ampia è la via della perdizione, le vie della salvazione sono invece molte, aspre ed impensate. La via maestra, come abbiamo accennato, è la Prominenz. «Prominenten» si chiamano i funzionari del campo, a partire dal direttore-Häftling (Lagerältester) ai Kapos, ai cuochi, agli infermieri, alle guardie notturne, fino agli scopini delle baracche e agli Scheissminister e Bademeister (sovraintendenti alle latrine e alle docce). Più specialmente interessano qui i prominenti ebrei, poiché, mentre gli altri venivano investiti degli incarichi automaticamente, al loro ingresso in campo, in virtù della loro supremazia naturale, gli ebrei dovevano intrigare e lottare duramente per ottenerli. I prominenti ebrei costituiscono un triste e notevole fenomeno umano. In loro convergono le sofferenze presenti, passate e ataviche, e la tradizione e l’educazione di ostilità verso lo straniero, per farne mostri di asocialità e di insensibilità. Essi sono il tipico prodotto della struttura del Lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. Costui sarà sottratto alla legge comune, e diverrà intangibile; sarà perciò tanto più odioso e odiato, quanto maggior potere gli sarà stato concesso. Quando gli venga affidato il comando di un manipolo di sventurati, con diritto di vita o di morte su di essi, sarà crudele e tirannico, perché capirà che se non lo fosse abbastanza, un altro, giudicato più idoneo, subentrerebbe al suo posto. Inoltre avverrà che la sua capacità di odio, rimasta inappagata nella direzione degli oppressori, si riverserà, irragionevolmente, sugli oppressi: ed egli si troverà soddisfatto quando avrà scaricato sui suoi sottoposti l’offesa ricevuta dall’alto. 
Ci rendiamo conto che tutto questo è lontano dal quadro che ci si usa fare, degli oppressi che si uniscono, se non nel resistere, almeno nel sopportare. Non escludiamo che ciò possa avvenire quando l’oppressione non superi un certo limite, o forse quando l’oppressore, per inesperienza o per magnanimità, lo tolleri o lo favorisca. Ma constatiamo che ai nostri giorni, in tutti i paesi in cui un popolo straniero ha posto piede da invasore, si è stabilita una analoga situazione di rivalità e di odio fra gli assoggettati; e ciò, come molti altri fatti umani, si è potuto cogliere in Lager con particolare cruda evidenza. 
Sui prominenti non ebrei c’è meno da dire, benché fossero di gran lunga i più numerosi (nessuno Häftling «ariano» era privo di una carica, sia pure modesta). Che siano stati stolidi e bestiali è naturale, a chi pensi che per lo più erano criminali comuni, scelti dalle carceri tedesche in vista appunto del loro impiego come sovrintendenti nei campi per ebrei; e riteniamo che fosse questa una scelta ben accurata, perché ci rifiutiamo di credere che gli squallidi esemplari umani che noi vedemmo all’opera rappresentino un campione medio, non che dei tedeschi in genere, anche soltanto dei detenuti tedeschi in specie. 
È più difficile spiegarsi come in Auschwitz i prominenti politici tedeschi, polacchi e russi, rivaleggiassero in brutalità con i rei comuni. Ma è noto che in Germania la qualifica di reato politico si applicava anche ad atti quali il traffico clandestino, i rapporti illeciti con ebree, i furti a danno di funzionari del Partito. I politici «veri» vivevano e morivano in altri campi, dal nome ormai tristemente famoso, in condizioni notoriamente durissime, ma sotto molti aspetti diverse da quelle qui descritte. 
Ma oltre ai funzionari propriamente detti, vi è una vasta categoria di prigionieri che, non favoriti inizialmente dal destino, lottano con le sole loro forze per sopravvivere. Bisogna risalire la corrente; dare battaglia ogni giorno e ogni ora alla fatica, alla fame, al freddo, e alla inerzia che ne deriva; resistere ai nemici e non aver pietà per i rivali; aguzzare l’ingegno, indurare la pazienza, tendere la volontà. O anche, strozzare ogni dignità e spegnere ogni lume di coscienza, scendere in campo da bruti contro gli altri bruti, lasciarsi guidare dalle insospettate forze sotterranee che sorreggono le stirpi e gli individui nei tempi crudeli. Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni e di compromessi. Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.

venerdì 13 dicembre 2013

meditate che questo è stato

Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
 
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

questa poesia apre un libro che è un baratro d'angoscia, come immaginabile.
almeno se si sa di cosa parla Se questo è un uomo di Primo Levi.
penso che dovrebbe essere un libro di testo per le scuole superiori, al pari della Divina Commedia o dei Promessi Sposi, o forse anche di più.
al di là di certe affermazioni che sentro in giro di quanto non se ne possa più di sentir parlare di olocausto e di lager, al di là di questa pochezza che dimentica che i nostri figli non solo non ne possono più perchè non ne hanno sentito parlare abbastanza ma hanno il dovere di sapere e di leggere e di capire, questo libro tratta ed esprime un'analisi sull'uomo, sulla sua natura, sul suo lato aberrante, sul valore della vita e su come ognuno di noi sviluppi in condizioni estreme ben diverse capacità di adattamento o affondamento, capacità di tenere saldi principi umani di generosità a condivisione o, al contrario, slatentizzare una propensione bestiale e stolida che annienta l'altro senza tregua, che ha un valore assoluto e universale al di là della contingenza specifica -comunque di incommensurabile importanza- che lo ha causato e ispirato.
leggendo penso, tra le altre cose, che di hitler non ce n'era soltanto uno, che ogni uomo che abbia partecipato, qualsiasi fosse la sua posizione, a questa dissoluzione della qualità umana sia stato un hitler e, di più, penso che hitler sia dentro ognuno di noi. laddove una condizione storica unica e forse irripetibile ha concesso che i limiti imposti dal vivere civile siano venuti meno, qualcosa di cannibalico e spaventosamente vorace e violento è emerso dall'uomo, ed è qualcosa che permane nascosto, qualcosa che addomestichiamo, qualcosa cui rinunciamo per convivere con gli altri e per evitare che coinvolga noi stessi in una forma di reciproca distruzione, ma che alberga dentro di noi, che c'è. c'è, sicuramente c'è, in ogni uomo.

giovedì 12 dicembre 2013

luci nella città

è piccola questa mostra, ma mostra belle foto di Milano, di gente illustre e altra meno.
è alla Casa dell'Energia, sede AEM. curioso no?
eppure scopro che Gabriele Basilico ha fatto foto di Milano commissionate proprio dall'azienda AEM.
davvero curioso, almeno per me.
in realtà l'archivio fotografico di AEM è davvero notevole, di foto ne custodisce almeno 180.000 e, leggevo, è un archivio che può essere consultato dal pubblico, liberamente.
Quando nel gennaio 1881 alla Scala si inaugurò il Ballo Excelsior, "azione coreografica, storica, allegorica di Luigi Manzotti" che esaltava il trionfo del Progresso identificandolo con la Luce, pochi si aspettavano che lì vicino, in via Santa Radegonda, solo due anni dopo sarebbe sorta la prima centrale elettrica europea, capace di illuminare piazza Duomo, piazza della Scala e la Galleria. Milano andava fiera di quell'essere un po' ville lumiére, ma ben presto si accorse che i prezzi praticati da Edison erano eccessivi: ed ecco il progetto di una nuova centrale, municipale, inaugurata nel 1905 in piazza Trento e immortalata poi da Boccioni nel suo dipinto La città sale. 
Da qui parte una storia intrigante raccontata da una grande mostra fotografica prodotta dalla Fondazione Aem ed esposta da oggi alla Casa dell'Energia. Curata da Fabrizio Trisoglio, Luci nella città raccoglie in un'ottantina di fotografie, tutte provenienti dall'imponente archivio storico Aem. (La Repubblica, ottobre 2013)

fondazione aem mostra milano luci nella città 
Olivio Barbieri, piazzale duca d'Aosta nel 1989

fondazione aem mostra milano luci nella città
Il ponte di Paderno d'Adda, Gianni Berengo Gardin nel 1985
 
fondazione aem mostra milano luci nella città
Olivio Barbieri, piazza 24 maggio nel 1989

fondazione aem mostra milano luci nella città 
Le fontane di piazza Duomo nel 1934 viste da Antonio Paoletti

fondazione aem mostra milano luci nella città
Via Serbelloni nel 1989: foto di Gabriele Basilico


La giostra alle Varesine, Gianni Berengo Gardin 1986

fondazione aem mostra milano luci nella città
Gabriele Basilico: viale dei Missaglia nel 1982

Gabriele Basilico, il quartiere Isola nel 1982

 
Antonio Paoletti

Antonio Paoletti, piazza Duomo nel 1933

la fotografia è sempre un gran sollievo, per me.
per me e per Milano.
diceva Basilico in un'intervista del 2011: la fotografia mi ha insegnato, aiutato a guardare la città con affetto. sono trenta e rotti anni che ogni tanto fotografo Milano, e cerco di vederla in un certo modo. non smetterò mai di fotografare Milano. un giorno, spero, mi troveranno in cima al duomo rinsecchito in un angolo.

lunedì 9 dicembre 2013

terrore del mistero

al funerale del padre di una mia collega.
il prete legge una lettera indirizzata al nonno, presumibilmente da parte dei nipoti del defunto, più probabilmente da parte della nipote maggiore, la figlia della mia collega.
se ne dice bene, si dice abbia lottato fino in fondo, si dice non si sia lamentato mai, si dice abbia tenuto duro per stare in vita e sofferto in silenzio.
si dice anche che la famiglia si è trovata tenacemente unita nel dolore, capace di vicinanza amore dedizione responsabilità e armonia.  
perchè si dicono sempre queste cose ai funerali?
queste bugie grossolane?
queste menzogne pietose e penose, queste falsità nel tentativo di tenere in piedi il vacillante concetto cattolico dell'indissolubilità della famiglia distruggendo al contempo, e ben più gravemente, l'eterno altissimo valore della dignità umana, il valore immenso della verità?
per quello che so io, e l'ho saputo bene, durante la malattia del padre la mia collega ha affrontato, forse in modo ancora più doloroso rispetto all'attesa della morte, la perversione dell'istituzione familiare, la ragnatela di dinamiche relazionali malate che, anzi, si sono amplificate, enfatizzate nel corso della lunga agonia paterna: rapporti sbagliati, responsabilità squilibrate, egoismi, fatiche immani sostenute da una sorella nell'afa milanese di agosto contrapposte a fughe nella brezza marina in vacanza dell'altra. una madre incapace di tenere una posizione ferma che imponga giustizia, due sorelle contrapposte, l'una vittima e l'altra carnefice (e probabilmente viceversa), una dedita l'altra scaltra ed egoista, così tutta la vita, così in morte del padre.
perché dire bugie anche di fronte alla morte? non c'è mai speranza che la verità abbia una sua dignitosa posizione? una sua necessaria e ripettosa collocazione nelle coscienze sofferenti ma vigili di chi ha perso una persona cara? perché farsi portatori di un così grave e disgustoso peccato anche di fronte, in memoria di chi, ormai, non giudicherà né mai più sarà giudicato?

primi di settembre, a un funerale di una mia collega, mia coetanea, forse anche più giovane di qualche anno.
morte improvvisa, o qualcos'altro? gravemente depressa, la mia collega psichiatra, persona inavvicinabile, invivibile, a tratti solo bizzarra, a tratti gravemente disturbata. come i suoi pazienti.
al funerale ho ascoltato la sua descrizione da parte del prete officiante, e le testimonianze di colleghi e infermieri. del primario.
false, palesemente false, forzate per darne una visione fasulla, inventata, artefatta ma degna evidentemente di un apparato che in morte ci vuole tutti santi.
non si dice, a un funerale, che la collega aveva avuto episodi in vita di grave depressione, di deliri persecutori, di accessi maniacali con ricovero in SPDC? che lavorare con lei voleva dire mettersi in fuga per salvarsi dai suoi imprevedibili accessi di aggressività e prepotenza?
non si dice.
dirlo vuol dire sminuire il valore della perdita? dire che è morta una persona difficile e sgradevole -almeno lavorativamente parlando ma dubito che viverle accanto fosse una passeggiata- significa toglierle qualcosa? cos'è la morte? non è almeno la fine la pace il termine della sofferenza fisica o mentale? la fine del giudizio degli altri, la parificazione di tutto davanti all'annullamento della carne e della fisica presenza?
cosa si dice a un funerale, perché si fa un funerale, nemmeno in morte abbiamo diritto di dire, noi e gli altri per noi, senza vergogna, senza punizione, senza peccato, quel che siamo?
mai? proprio mai?
È difficile avere, in queste cose, certezze. Probabilmente abbiamo perso la familiarità con la morte che aveva la civiltà classica, il senso concreto di far parte del gran fiume delle cose, come dice l’espressione cinese, del ciclo di aurora e tramonto, fiorire e appassire, aggregazione e disgregazione degli elementi. Si è forse data troppa importanza alla morte, permettendole di fare troppo il gradasso e di presentarsi come il trionfo del nulla e dell’insensatezza di tutto. 
Forse bisognerebbe ritrovare concretamente, fisicamente il senso della morte quale sigillo della nostra appartenenza all’ordine naturale delle cose; viverla certo come mistero, ma senza la necessità di parlare troppo del mistero e delle cose nascoste e continuando, anche su quella soglia, a interessarsi delle cose relative ed effimere di cui ci si è interessati nella quotidianità. Un senso classico — romano più ancora che greco — invita a venerare l’imperscrutabile ma, proprio perché è imperscrutabile, a non angosciarsi nell’ossessivo tentativo di scrutarlo. Ciò non implica affatto necessariamente uno spirito irreligioso: le nostre contingenze colorano l’eternità di Dio; sono il nostro modo di vivere quella «inafferrabilità di Dio» che è proclamata con forza «martellante» nella Bibbia. 
così scrive Magris su La Lettura di ieri, ma sono proprio il mistero e il trionfo del nulla che sono inaccettabili in vita dall'uomo occidentale, cha trasforma il mistero della morte in farsa, nella prosecuzione del teatro della nostra vita, la falsifica solo perchè ha il terrore di ciò che non conosce.
in morte si mente come in vita, non c'è mai fine alla menzogna anche quando la fine ha polverizzato la materia per la quale si mente.

Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. 
Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri ora sono tutti uguali.
da Barry Lindon di Stanley Kubrik

venerdì 6 dicembre 2013

Dies Irae

tra le cose che non so c'è la musica.
c'è solo una cosa che so molto bene, e non so come mai la so così bene, ed è la Messa di Requiem in Re minore K 626, l'ultima composizione di Wolfgang Amadeus Mozart.
e quando dico che la so intendo solo dire che ne conosco le parti, il testo, la sequenza. solo questo.
forse non è sufficiente per dire che ne so, ma, per i miei standard, non c'è brano di musica classica che io conosca meglio di così.
e, come sempre accade quando si sa, non c'è brano di musica classica di cui possa godere di più.
occasione al volo, a Milano, Requiem di Mozart alla Basilica di San Marco eseguita dall'orchestra dell'Associazione Mozart Italia di Milano. esecuzione scadente, l'ho capito perfino io, orchestra e archi da buttare via, meglio il coro, la componente più scuotente della Messa, si sa.
la mia passione nasce moltissimi anni fa alla visione del film di Milos Forman, Amadeus.
un film adorato da mia madre e che io vidi al cinema con lei e mio padre, giovane, giovanissima!!, di cui mi colpì ferocemente la scena finale, appunto la scrittura in punto di morte del Requiem.
un lavoro funebre che è intrecciato alle vicende della morte dell’autore: non sappiamo se sia vero che, come affermarono a distanza di anni varie testimonianze riconducibili alla vedova, Mozart avesse detto di comporre questo Requiem per se stesso; di fatto è significativo che un frammento del Requiem venisse eseguito a una cerimonia funebre svoltasi a Vienna a distanza di pochi giorni dalla scomparsa del compositore. al di là di mito e verità, quest'opera incompiuta di Mozart, scritta al termine della sua vita, malato, in miseria, è e fu il suo Requiem.
è vero anche che è un'opera incompiuta, in parte porta a termine da Franz Xaver Süssmayer, allievo del compositore, ma prima di lui erano stati coinvolti altri due allievi sotto il probabile coordinamento di un altro musicista vicino alla famiglia Mozart, l’abate Maximilian Stadler. è quindi vero che è un'opera che manca di uniformità, inquinata da interventi esterni e non certo sostenuti da un'ispirazione nemmeno lontanamente paragonabile a quella di Mozart. ma non importa, li perdono tutti, la potenza di questa Messa mi ha colpito per qualcosa che non so spiegare, qualcosa che mi sembra l'espressione di un talento smisurato, immortale, immenso che non ebbe in vita il dovuto assoluto riconoscimento e che celebra la propria stessa morte con un'opera che ha un alone ultraterreno. 
non me ne vogliano quelli che di musica ci capiscono sul serio, ma io avverto un tensione interna quanto ascolto quest'opera che nessun'altra musica potrà mai darmi, forse per una suggestione che io le affido, una fantasia di un abbandono estremo e smisurato in fin di vita che probabilmente il film di Forman ha impresso nella mia memoria di post adolescente.
ebbi la fortuna, sempre giovane, giovanissima!, di ascoltare le prove del Requiem sotto la direzione di Muti, alla Scala. un pomeriggio indimenticabile. Muti dirige, interrompe, riprova e io imparo tratti e sfumature e le note si imprimono in me. altra direzione, altra orchestra, non posso dimenticare la bellezza di quella esecuzione.
ed eccomi, ieri sera, pietrificata, nonostante la modestia dell'orchestra, a impazzire per il Dies Irae. cosa c'è di più potente del Dies Irae?

DIES IRAE (Coro)
Dies irae, dies illa,
Solvet saeclum in favilla,
Teste David cum Sibylla.

Quantus tremor est futurus,
Quando Judex est venturus,
Cuncta stricte discussurus!



e il Rex Tramendae.

REX TREMENDAE (Coro)
Rex tremendae majestatis.
Qui salvandos salvas gratis.
Salva me, fons pietatis.

e il Confutatis.

CONFUTATIS (Coro)
Confutatis maledictis,
Flammis acribus addictis,
Voca me cum benedictis.

Oro supplex et acclinis,
Cor contritum quasi cinis,
Gere curam mei finis.

e sentire la luce eterna che tutto avvolge, e avvolge lui, il grande compositore, nel Communio finale.


LUX AETERNA (Soprano e Coro)
Lux aeterna luceat eis, Domine, cum sanctis tuis in
aeternum quia pius es. Requiem aeternam dona eis,
Domine, et lux perpetua luceat eis, cum sanctis tuis in
aeternum, quia pius es.

non credo, in dio, ma in qualcosa credo alla fine, all'eternità della bellezza.

giovedì 5 dicembre 2013

io sono Heathcliff

Virginia Woolf: 
“Il suo è il più raro dei poteri. Potrebbe liberare la vita dagli eventi; con pochi tocchi, tracciare lo spirito dietro un viso, così che non abbia più bisogno di un corpo; parlando della brughiera può fare soffiare il vento e roboare un tuono.”

Cime tempestose, Wuthering Heights, unico romanzo di Emily Bronte.
la sorella Charlotte scrisse Jane Eyre, il fratello, il primo a morire in giovane età seguito poi a raffica dalle tre sorelle, scriveva poesie anch'egli, poesie che ho scoperto da poco sulla rivista Poesia.
romanzo intenso, molto complesso, gotico e satanico, denso di male e di devozione vitale al male, ha uno sviluppo piuttosto particolare, spesso confuso nella sua costruzione a flash back. ci sono passaggi inconsueti, presentazione iniziale di personaggi che poi si dimostrano diversi, passaggi temporali inconcepibili, nascite di figli della cui gravidanza non si era fatta menzione, forzature diaboliche, sembra un libro scritto e non riletto. potrei dire che, dal punto di vista narrativo sembra ingenuo, ma questo contrasta con la rappresentazione della crudeltà, della cattiveria, della vendetta, del desiderio di fare male, della degradazione, in termini fisici e morale, che vi si legge.
l'Examiner riportò che Cime Tempestose: « ...è uno strano libro. Ci sono segni di un grande potere di scrittura, ma nell'insieme è violento, confuso, incoerente e improbabile ».
è una critica eccessiva forse ma in parte concordo, è inverosimile -ammesso che la verosimiglianza sia necessaria a un romanzo e forse non lo è- ma certamente espressivamente potente.
qualcuno sostiene si tratti di una grande storia d'amore, travolgente e distruttiva, tra Catherine e Heathcliff, ma anche di questo non sono così sicura. c'è una forza oscura, melmosa come la brughiera in cui vivono i personaggi, tempestosa come la forza della natura che aleggia, nella relazione tra i due protagonisti, ma di amore non si parla mai e di amore non si tratta. piuttosto, appunto, di un'attrazione malvagia, di un rapporto fusionale, di un'identificazione reciproca, di un'unicità, una simbiosi, che si spezza causa morte prematura di lei che si ricostituisce con la morte inspiegabile e misteriosa di lui.
un legame satanico, una passeggiata tra le tombe in compagnia di spiriti maligni, tra demoni e fantasmi.
siamo comunque nel regno del mito, questo libro ha una quota magica irresistibile, al di là di certe scompostezze, fa vibrare e leggere nell'attesa, l'attesa dell'ineludibile morte del protagonisita, la fatale ricongiunzione delle anime afflitte dalla forza malvagia della passione malata. non c'è sensualità nelle pagine di Emily, nessun accenno alla sessualità dei protagonisti, l'unione tra i due amanti non è carnale, mai, nemmeno accennata, nemmeno ipotizzata, solo spirituale e al di là della carne, al di là della morte.

dice Catherine lucida alla prima separazione da Heathcliff.
Non so spiegarmi: ma certamente tu pure hai un'idea; sai come chiunque altro, che c'è o ci dovrebbe essere un'esistenza al di là di noi stessi? A che scopo sarei io stata creata se fossi interamente contenuta in me stessa? Le mie grandi pene in questo mondo sono state le pene di Heathcliff, e io le ho conosciute e le ho sentite tutte una a una dal principio; la sola ragione di vivere per me è lui. Se tutto il resto perisse, e lui rimanesse, io continuerei a esistere; e, se tutto il resto rimanesse e lui fosse annientato, l'universo si cambierebbe per me in un'immensa cosa estranea; non mi parrebbe più di essere una parte di esso. Il mio amore per Linton è simile al fogliame del bosco; il tempo lo muterà, ne sono sicura, come l'inverno muta gli alberi; il mio amore per Heathcliff somiglia alle eterne rocce che stanno sottoterra: una sorgente di gioia poco visibile, ma necessaria. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre, sempre nella mia mente; non come un piacere, come neppur io sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere. Così non parlare più della nostra separazione: è impossibile, e...
dice Catherine nel delirio, nel deliquio dopo la seconda fatale, mortale separazione da lui:
«Guarda!» esclamò con calore, «quella col lume è la mia stanza, con gli alberi che ondeggiano davanti; l'altro lume è nell'abbaino di Giuseppe. Sta alzato sino a tardi? Aspetta che io ritorni a casa per poter chiudere il cancello. Ebbene, dovrà aspettare un bel po'. È un viaggio duro, penoso, ed il cuore è triste!... e per farlo dobbiamo passare davanti alla cappella di Gimmerton! Spesso abbiamo sfidato gli spiriti e ci siamo sfidati a stare fra le tombe, ad evocarli e dir loro di venire. Ma, Heathcliff, se ora ti sfidassi,ne avresti ancora il coraggio? Se vieni ti terrò con me; non voglio giacere sola. Se mi seppellissero a dodici piedi di profondità e la chiesa crollasse su di me, io non riposerò fin che tu non mi sarai vicino.»
dice Heathcliff nel disperato tentativo di rivederla prima della sua morte, della sua evanescenza:
«Credi proprio che mi abbia quasi dimenticato?» disse. «Oh, Nelly, sai bene che non è vero. Lo sai quanto me che per ogni pensiero che lei concede a Linton, ne ha mille per me. In un miserabile periodo della mia vita, mi ero anch'io formata tale idea, che mi ha perseguitato al mio ritorno in questi luoghi tutta la scorsa estate; ma soltanto una sua dichiarazione potrebbe farmi accettare di nuovo quell'orribile idea. E, allora, Linton non sarebbe più nulla, e neppure Hindley e neppure tutti i miei sogni. Il mio avvenire starebbe tutto in due parole: morte e inferno! l'esistenza senza di lei sarebbe l'inferno. Eppure sono stato tanto pazzo da credere per un istante che lei potesse apprezzare l'attaccamento di Edgard Linton più del mio. Ma, se lui amasse con tutte le forze del suo piccolo essere, non riuscirebbe nemmeno in ottant'anni ad amarla quanto io in un sol giorno. E Catherine ha il cuore profondo non meno del mio. Linton le è appena più caro del suo cane o del suo cavallo! Non è lui che possa essere amato come lo sono io!»

tratto da “Ovvero delle Cime Tempestose” di Margherita Giacobino, leggo una valutazione che mi sembra molto interessante, ispirata dal libro di Clarissa Pinkola, Donne che corrono con i lupi: Catherine «baratta» Heathcliff, ovvero la sua natura selvaggia, in cambio della ricchezza, del prestigio e della rispettabilità sociale che Linton le offre. Ma non fa i conti con la realtà, s’inganna, pensando di poter pagare il prezzo richiesto senza eccessivo sacrificio, di potere, addirittura, continuare ad amare Heathcliff senza incorrere nella condanna sociale e destreggiarsi fra i due uomini senza mettere gravemente in pericolo la propria identità personale. Il «baratto» è possibile proprio a causa dell’inesperienza della giovane donna, «tradita» dai genitori, che non sanno consigliarla. Il padre, ovvero quella funzione della psiche femminile che deve tutelare la donna nei suoi rapporti con l’esterno, e la madre, cioè la donna saggia che è dentro ciascuna di noi, «tradiscono» Catherine, vale a dire queste istanze non sono ancora così forti dentro di lei da darle buoni consigli: Catherine deve crescere, affrontare l’iniziazione e la morte per conquistarsi una sua saggezza, una conoscenza del mondo e di sé.Quindi, una storia d’amore ad un primo livello di lettura, e la storia di una psiche femminile ad un secondo livello. Catherine muore esattamente a metà del libro, e viene sotituita da sua figlia, che si chiama come lei, anche se il suo nome viene abbreviato Cathy per distinguerla dalla madre. Cathy è figlia della morte di sua madre, perché nasce nella notte in cui Catherine muore, ma anche perché ne raccoglie l’eredità, opera trasformazioni che sua madre non è riuscita a compiere. Insomma, Catherine/Cathy sono una sola donna, e Cime Tempestose è la storia del suo lacerarsi e ricomporsi con una parte di sé.
ho pensato leggendo il libro, proprio a un desiderio di riscatto della giovane Emily, a un desiderio di crescita, di rivalsa, di sollievo da una vita piuttosto infelice, anzi disperata, trascorsa nel lutto e nel disagio, un riscatto che mi sembra di leggere nella figura di Cathy, figlia di Catherine, stesso nome ma diverso apparente destino.

e chi la dimentica Kate Bush...

Wuthering Heights
Out on the winding, windy moors
We'd roll and fall in green
You had a temper, like my jealousy
Too hot, too greedy
How could you leave me?
When I needed to possess you?
I hated you, I loved you too

Bad dreams in the night
They told me I was going to lose the fight
Leave behind my wuthering, wuthering
Wuthering Heights

Heathcliff, it's me, Cathy, I've come home
I'm so cold, let me in-a-your window

Ooh it gets dark, it gets lonely
On the other side from you
I pine a lot, I find the lot
Falls through without you
I'm coming back love, cruel Heathcliff
My one dream, my only master

Too long I roam in the night
I'm coming back to his side to put it right
I'm coming home to wuthering, wuthering,
Wuthering Heights

Heathcliff, it's me, Cathy, I've come home
I'm so cold, let me in-a-your window

Oh let me have it, let me grab your soul away
Oh let me have it, let me grab your soul away
You know it's me, Cathy

Heathcliff, it's me, Cathy, I've come home
I'm so cold, let me in-a-your window



e anche la Plath, attratta dalla terra smossa, fredda, dal biancore delle ossa, dal destino senza scampo, ne scrisse una poesia.

Cime tempestose
Gli orizzonti mi circondano come fascine,
inclinati e diversi, e sempre instabili.
Toccati da un fiammifero, potrebbero scaldarmi,
e le loro linee sottili strinare
l’aria di arancione
prima che le distanze da loro trattenute evaporino,
appesantendo il pallido cielo di un colore più solido.
Invece, via via che avanzo, si dissolvono e dissolvono,
come una serie di promesse.

Non c’è vita più alta della cima dell’erba
o del cuore delle pecore, e il vento
si riversa come il destino, piegando
ogni cosa in una sola direzione.
Lo sento che cerca
di svuotarmi del calore.
Se presto loro troppa attenzione,
le radici dell’erica mi inviteranno
a imbiancare le mie ossa in mezzo a loro.

Le pecore sanno dove sono,
brucano avvolte in sporche nuvole di lana,
grigie come il tempo.
Sono accolta dalle nere fessure delle loro pupille.
E’ come essere spedita nello spazio,
messaggio esile e sciocco.
Loro se ne stanno là camuffate da nonne,
tutte riccioli posticci e denti gialli
e belati duri, di marmo.

Arrivo a solchi di ruote, e ad acqua
limpida come le solitudini
che mi sfuggono tra le dita.
Sulla soglia scalini incavati vanno di erba in erba;
architrave e davanzale si sono scardinati.
Delle persone l’aria ricorda solo
poche sillabe sparse.
Le ripete gemendo:
pietra nera, pietra nera.

Il cielo si appoggia su di me, l’unica eretta
tra tutti gli orizzontali
L’erba batte il capo forsennatamente.
E’ troppo delicata
per una vita in simile compagnia:
il buio l’atterrisce.
Ora, nelle valli strette
e nere come borsellini, le luci delle case
occhieggiano come piccole monete.

martedì 3 dicembre 2013

se potessi dare la colpa di tutto al tempo

per seguire le tracce di Anne sono anche finita in capo al mondo, un luogo, un circolo, chissà che cos'era, in una strada alla periferia milanese che aveva la numerazione più assurda che abbia mai visto, si passava dal 9 al 43/47.
beh era lì che dovevo andare.
la rassegna Autunno Americano- a Milano non ci facciamo mancare niente- che offre le mostre di Pollock e Warhol, e le manifestazioni culinarie di California Bakery (il 28 novembre c'era anche la cena del ringraziamento per chi la volesse provare) e il concerto di Bob Dylan, e un incontro con Steve McCurry (impossibile entrare, 200 persone rimaste fuori tra le quali anch'io), prevede anche queste 3 serate intitolate: Progetto Anne Sexton.
ne ho vista una e mi sono fatta ancora un po' di Anne, delle sue poesie, dei suoi deliri, delle sue macabre serenate, dai suoi inni al nulla e al dolore.
un'attrice di nome Milena Costanzo e un attore di nome Gianluca De Col, si muovono in una stanza e sono, fanno, mimano Anne nel suo carcere casalingo, schiava domestica ossessiva e creatura animalesca lussuriosa, piena di domande le cui risposte sono una strage, ammazzano le fiabe e appendono dio a un filo, sottile.


Se potessi dare la colpa di tutto al tempo.
La neve che sembra il tavolo dell'obitorio
gli alberi trasformati in ferri da calza
la terra dura come un merluzzo congelato
lo stagno che si è messo i baffi di ghiaccio.
Se potessi dare la colpa al cuore degli sconosciuti
che passano veloci e imbacuccati per la strada
o dare la colpa ai cani di tutti i colori
che si annusano tra di loro
e pisciano sulla soglia di casa.
Se potessi dare la colpa della guerra alla guerra
dove il fuoco mi brucia i capelli come una permanente/ venuta male.
Se potessi dare la colpa ai capi e ai presidenti per le loro imperdonabili canzoni.
Se potessi dare la colpa a tutte le madri e ai padri del mondo
quelli dei compiti, delle pallottole di potere,
quelli dell'amore che ti avvolge come pastella appiccicosa.
Dare la colpa a Dio forse?
Lui della prima uscita
che ci ha spinto tutti dentro ai primi errori?
No, io darò la colpa all'Uomo
perché l'uomo è Dio
e l'uomo si sta divorando la terra come uno snack
e nessuno di loro può essere lasciato solo con l'oceano
perché è risaputo che se lo tracannerà tutto.


Una volta soltanto
Una volta soltanto ho capito lo scopo della vita.
A Boston, all'improvviso, l'ho capito.
Camminavo là lungo il Charles River,
guardavo le luci mimare se stesse,
tutte neon dal cuore stroboscopico,
spalancare bocche come cantanti lirici;
contavo le stelle, mie piccole commilitone,
mie sfigurate margherite, e ho capito
che il mio amore vagava sulla sponda verde notte,
e piangendo esponevo il cuore alle auto che andavano a est,
piangendo esponevo il cuore alle auto che andavano a ovest
e la mia verità ha varcato un piccolo ponte ricurvo
e si è affrettata la mia verità, la sua malìa, verso casa
e ho tesaurizzato le costanti fino a mattina tarda
solo per poi vederle svanite.

Filo sottile
La mia fede
è un carico enorme

appeso a un filo sottile,
proprio come un ragno
appende i suoi piccoli a una tela fine,
proprio come dalla vite,
esile e rigida,
pendono grappoli
come occhi,
come molti angeli
danzano su una capocchia di spillo.

Dio non chiede troppo filo
per restare qui;
solo una venuzza
e sangue che vi scorra
e un po' d'amore.
Come qualcuno ha detto:
l'amore e la tosse
non si possono nascondere.
Neppure un colpetto di tosse
neppure un amore minimo.
Perciò se hai solo un filo sottile
a Dio non importa:
Lui te lo troverai tra le mani facilmente
proprio come una volta con dieci centesimi
ti potevi prendere una Coca.


Cenerentola
Cenerentola e il primcipe
vissero, si dice, felici e contenti,
come due bambole nella teca di un museo
senza mai preoccuparsi di pannolini o polvere,
senza mai discutere del tempo di cottura di un uovo,
senza mai raccontare la stessa storia due volte,
senza mai comprare un copriletto finto antico,
i loro amati sorrisi durarono per l'eternità.
Simmetrici gemelli siamesi.
Quella storia.

lunedì 2 dicembre 2013

padiglioni e giardini della Biennale di Venezia


L’ultimo contributo alla fotografia lo ha dato con un ciclo di scatti dei padiglioni e dei giardini della Biennale di Venezia. Gabriele Basilico, morto sessantanovenne, il 13 febbraio di quest’anno ha offerto allo sguardo i contenitori svuotati di opere, folla e visitatori, delle più grandi rassegne d’arte e d’architettura al mondo. Si assiste, così, nel libro curato da Adele Re Rebaudengo ed edito da Contrasto, alla Biennale senza Biennale, alla Biennale che non abbiamo mai visto, quella del silenzio. E si scopre un museo di architettura. A firmare i progetti di alcuni dei 31 padiglioni ai Giardini della Biennale, realizzati tra il 1895 e il 1995, sono stati infatti architetti quali Hoffmann, Rietveld, Aalto, Scarpa, Stirling e Bbpr. E poi il meno noto Sverre Fehn, autore di quel capolavoro che è il padiglione dei Paesi Nordici, con gli alberi innestati nel congegno architettonico, nel rispetto di un principio di armonia tra natura e architettura, che è un filo rosso del Giardino veneziano fotografato da Gabriele Basilico.





In questo libro sono raccolte le sue affascinanti fotografie che raccontano per la prima volta, in maniera completa, i Padiglioni e i Giardini della Biennale di Venezia, progettati dai più importanti architetti del XX secolo. Oltre alle immagini di Basilico, il volume presenta il contributo critico di architetti e storici dell’arte relativamente ai padiglioni presenti all’interno dei Giardini della Biennale d’Arte e della Biennale di Architettura di Venezia. Nel libro, infatti, i testi che accompagnano le immagini di Basilico descrivono le architetture dei trentuno padiglioni fotografati e guidano il lettore in un percorso incredibilmente ricco, in cui si ha la possibilità di fruire di una chiave di lettura esemplare con considerazioni di carattere storico-artistico, descrizioni tecniche e riflessioni sulle modalità con cui i padiglioni sono stati pensati e realizzati. Adele Re Rebaudengo, curatrice del volume, racconta così l’inizio del progetto: “Quando noi tre, Gabriele Basilico, la sua macchina fotografica e io, ci siamo inoltrati per la prima volta in questo luogo inattuale e in questi spazi sospesi, siamo stati pervasi da una sensazione di benessere. La successione dei vuoti e dei pieni, l’imponenza dei Padiglioni tra il verde, i vialetti leggermente in salita a ritardare la bramosia della curiosità d’essere esaudita, ci permettevano di inoltrarci in pensieri più alti che invitavano a guardare all’uomo come a un essere, in grado certo di realizzare opere grandiose, ma ora spesso smarrito, separato da quell’armonia capace di portarlo lontano”.

era il 21 Novembre, a Milano, allo Spazio Forma -prima della sua prossima scandalosa chiusura, una gran vergogna per una Milano che se la tira da gran signora della cultura e dell'arte- ed era anche la settimana di Bookcity a Milano. e quella era proprio la presentazione di un libro, quello di fotografie di Basilico.
ora, la sensazione è stata forte, per diversi motivi.
intanto arrivare in un luogo bello e conosciuto, come lo Spazio Forma, affidabile e ben organizzato, puntuale e ineccepibile dopo il gran casino, anche disorganizzativo, delle giornate convulse di Bookcity, è stata una sensazione di sollievo. sapevo di andare nel posto giusto.
poi però sono stata colta da un senso di perdita e di nostalgia. a gennaio lo Spazio chiuderà per impossibilità della fondazione di pagare i costi dell'affitto delle sale appartenenti all'ATM di Milano e senza che sia stato possibile arrivare ad un accordo con l'ATM stessa e con il comune di Milano. nessun aiuto, nessun contributo, nessuna alternativa: lo spazio CHIUDE, sarà pellegrino in città, un po' qua e un po' la con le sue mostre, ma senza un luogo di riferimento.
credono di convincermi che tanto è uguale, le mostre ci saranno lo stesso, ma è una pietosa e disonesta bugia. è uno scandalo culturale, una vergogna per Milano, la sua giunta comunale, per Pisapia e tutti i milanesi.
Roberto Koch, conferma quanto dichiarato in conferenza stampa: “La attività di Forma è sempre stata impostata con vocazione pubblica. Aver portato in oltre 8 anni le grandi mostre di fotografia a Milano è stata una scelta di forte interesse e passione per la città di Milano e per l'Italia. Dispiace a noi che il Comune di Milano e le altre istituzioni della città non ne abbiano saputo cogliere l'importanza. Forma è stato in questi anni l'unico luogo dedicato alla fotografia del nostro paese, ha collaborato con reciproco apprezzamento con le più importanti realtà analoghe europee con cui ha coprodotto mostre e continuerà la sua azione nei prossimi anni. Solo che dalle autorità cittadine e della Regione non è venuto mai in nessun momento il giusto riconoscimento della importanza del luogo. Ristrutturare un immobile di proprietà dell'ATM, renderlo agibile e funzionale secondo parametri espositivi di eccellenza internazionale, portare qui a Milano i grandi protagonisti della fotografia mondiale è stata una scelta di passione e di forte interesse per la città e per l'Italia, una scelta che avrebbe meritato un diverso apprezzamento. La ristrutturazione dell'immobile da noi operata è molto superiore alla richiesta, fatta nel corso degli ultimi due anni, soprattutto dopo l'avvento della giunta Pisapia, di poter avere un utilizzo in comodato gratuito dello spazio, e non in affitto oneroso come da contratto. Dal 2005 ad oggi abbiamo dialogato con tre diversi Presidenti della ATM, e con 4 diversi assessori alla cultura del Comune, riscontrando di fatto indifferenza ai nostri problemi, considerati - come conferma oggi l'Assessore Del Corno - come difficoltà di privati e non di interesse pubblico. La Fondazione Forma prosegue le proprie attività. Pubblicamente - durante gli incontri di fotografia organizzati dall'Assessorato - ho avuto modo di raccontare in dettaglio i nostri progetti, avvertendo che in caso di indifferenza, saremmo stati costretti a spostare in altri luoghi parte della nostra attività. Se non è interesse della città di Milano preservare per il proprio territorio una realtà unica, viva e importante come lo spazio espositivo di Forma che lì agisce, non possiamo che prenderne atto”.
infine, last but not least, le foto di Basilico sono struggenti.
mi colpisce la precisione, la perfezione, l'inquadratura impeccabile.
mi colpisce da sempre di Basilico, forse qui più probabile e concepibile, lo spazio vuoto, l'assenza di figure umane. non c'è mai nessuno nelle foto di Basilico, mai nessuno, come fa?, e tanto meno negli abbandonati giardini della Biennale di Venezia. il luogo in sè ha qualcosa di metafisico, di ultraterreno, di un'archeologia recente, dell'abbandono in vita, della bellezza senza sguardo. è un luogo malinconico per definizione, sembra appartenere a un altro pianeta, a un'altra epoca, a un tempo irreale immerso nel presente. è un paradosso.
il bianco e nero, il vuoto, il silenzio, la simmetria...sono la perfezione di una scelta fotografica.