bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

martedì 29 gennaio 2013

HAIR

avevo 16 anni.
forse ero con mia madre.
anzi ne sono quasi certa. -certo che la memoria è infida, non mi appoggia totalmente nei ricordi.-
andavo al cinema, di pomeriggio, con lei e la sua amica, il mercoledì. ogni tanto.
mia madre faceva la pediatra e il mercoledì era il suo giorno libero.
giorno libero?
eppure era così, il mercoledì non visitava, e andava al cinema.
la mia mamma, che tipo. e se avevo studiato abbastanza per il giorno dopo (guai...un senso del dovere patologico a 16 anni, quando forse magari chissà bisognerebbe divertirsi, no dico, almeno un po') andavo con lei.
HAIR. di Milos Forman.
che fantastico film. 
l'ho rivisto ieri sera, e come in molte altre occasioni ultimamente, mi rendo conto di quanto fantasticavo da ragazza. che fossero le canzoni dei cantautori, Guccini, De Andrè, Bennato, Gaber, Branduardi, Claudio Lolli, Lucio Dalla, o fossero film, magari musicali come Hair,  Jesus Christ Superstar,  Cabaret o The Rocky Horror Picture Show, o commedie come Io e Annie, Provaci ancora Sam, Barry Lindon, I duellanti. Amadeus o Invito a Cena con Delitto, io mi ci infilavo come nella realtà, al posto della realtà, meglio che nella realtà. mi ricordo che le colonne sonore le ascoltavo fino allo sfinimento, mimando e ballando come i protagonisti.
figuriamoci HAIR. 
è stato un godimento pieno ieri sera in TV, una volta tanto mi hanno fatto un regalo vero.
pur stando ferma ho cantato e ballato.
mi ricordo che non sapevo decidere quale fosse il più figo tra i tre hippies cappelloni. ma forse Berger era il più più più di tutti. mi ricordo l'ansia provata nella scena finale, quella in cui al posto del suo amico, per una fatale sovrapposizione, cantando I believe in god, and I believe that god believes in Claude, that's me!!, that's ME!!, proprio lui, George Berger, pacifista convinto e praticante, entra nel buco nero dell'aereo che lo poterà in Vietnam, lo porterà alla morte. e anche ieri sera, che ansia, che pena, che ingiustizia.
sono elementare nei miei sentimenti, non c'è che dire.
e poi il film è un capolavoro di musica canto ballo movimento colori azioni spostamenti voli pindarici.
un capolavoro.
thank you mom, I had a nice time.

lunedì 28 gennaio 2013

centro di eccellenza

sono ormai sempre più convinta che chi invoca a voce alta la propria correttezza e assoluta integrità sia sempre di fatto sporco, un po' marcio, individualista e senza regole. opportunista. conformista. si urla forte quando non si ha voce, quando non si possiede la verità nella voce. quando la parola è vuota senza sostegno della fermezza.
assisto oggi davvero infastidita a una questione organizzativa all'interno del mio centro ospedaliero, mi rendo conto come per certe persone, psicologi psicoanalisti, mica gente così...alla fine la cadrega, il possesso dello studio, lo spazio ormai acquisito, il territorio segnato dal piscio come i cani, valga quanto un titolo nobiliare, figuriamoci se parliamo di un ospedale del centro di Milano. quale titolo d'onore!!
ripenso a un paziente al quale ho comunicato la mia intenzione di andarmene e che mi ha chiesto dove sarei andata. Cologno Monzese ho detto. che brutto mi ha risposto.
perdo il mio titolo nobiliare, ma resto un buon medico lo stesso, anzi, diciamolo, a Cologno Monzese la povertà politica civile lavorativa e sociale è molto più consistente che in zona Brera...sarà brutto chissà, ma di certo molto ma molto più utile.
non faccio che sentire 'sta boiata del "cento di eccellenza". ma che scemenza è? la nobiltà sta nella localizzazione? o nelle persone che ci lavorano? nell'appropriatezza della risposta alla domanda clinica? nella correttezza retributiva di chi ci lavora? nel riconoscimento del buon lavoro svolto? ecco, alcune persone che ci lavorano hanno la prosopopea e l'arroganza insopportabile di un acefalo attaccamento, di un possesso imbecille dello spazio, dello studiolo dalle 11.00 alle 15.00 e guai a chi lo tocca. quel posto è mio, ha tuonato la psicologa, e guai a chi lo tocca. anche se rimane vuoto per la maggior parte dei lunedì e qualcuno ne ha bisogno perché, al contrario, ha 5 pazienti da vedere,  ma è l'ultimo arrivato e non può. perché? perché lo spazio è SUO e non lo cede a nessuno nemmeno se non lo usa. qui nulla è di nessuno. siamo tutti precari, nessuno ha appartenenza di niente, se non al gruppo di lavoro, alla collaborazione e alla cooperazione, alla buona pratica clinica, all'interesse del paziente. 
ecco, bel centro di eccellenza, un gigante d'argilla dove tutti lavorano gratis, e dico gratis o per pochi euro all'ora che nemmeno una colf..., per buona gloria di un primario, che mostra appena può il suo fiore all'occhiello e scrive di continuo sui giornali, che tira la corda fin che può, che nel suo centro di eccellenza, che porta un indotto pazzesco all'azienda ospedaliera, non paga nessuno e si affida al volontariato. da anni. alla passione, un po' stupida e malata diciamolo, della gente. alla mia, per esempio.
bene, il gigante ora scricchiola da tutte le parti, il volontariato non paga, né per chi lo fa né per chi ci marcia sopra,  i medici se ne vanno e gli psicologi non possono più scrivere le cartelle cliniche, quindi non possono vedere pazienti.
in più ci sono esempi di eccellenza clinica e altruistica che, come dicevo, non mollano il metro quadrato nemmeno se cadaveri, come, di fatto, in verità, già sono.
vorrei andarmene, ci ho provato e non ci sono riuscita, riproverò.
questo non è un centro di eccellenza, è un luogo di sfruttamento e di soprusi, di malasanità italiana, è tempo che qualcuno se ne accorga, a grave discapito delle centinaia di pazienti che seguiamo. 

venerdì 25 gennaio 2013

Madame Bovary c'est moi

che libro sconcertante.
un mistero.
un intreccio di sensazioni osservazioni punti di vista giudizi sospensioni immedesimazioni e negazioni.
di identificazioni forti ma negate, camuffate, specchiate.
«Madame Bovary c'est moi», diceva Flaubert
c'è un intento un po' perverso in questa dichiarazione. ambiguo. spiazzante
Flaubert mette in mostra questa creatura così infelice ed incerta, così artefatta e fragile, così borghese anche se ribelle alle norme morali della borghesia, così, diciamocelo, povera di tutto.
esaltata da un'idea romantica di amore ma, di fatto, completamente totalmente radicalmente priva di capacità di amare.
Emma posa, finge le pose dell'amore, come davanti a un obiettivo, da bella isterica quale è.
Emma non è intelligente. Emma ha poche risorse personali, Emma sogna fuori dalla sua realtà, Emma si muove senza sapere quello che fa, come mossa dall'esterno, senza consapevolezza, mossa da fili sottili invisibili. mossa dal suo autore? la sua presentazione è, secondo me, spietata.
Emma è immersa in una cultura da rotocalco, misera e vuota di significati, ridondante di luoghi comuni e immagini scontate, potrebbe essere un personaggio televisivo di oggi, una partecipante del grande fratello, una fruitrice di tronisti, una consumatrice di oggetti vuoti ma immediati che rimandano al suo vuoto interiore.
anni fa, alla mia prima lettura di Madame Bovary, avevo poi letto Cercando Emma, di Dacia Maraini.
ne ritrovo ora alcune pagine e mi trovo d'accordo sulle sue considerazioni. 
nel libro di Flaubert c'è un incipit, un inizio che lascia senza parole. Flaubert inizia così: «Stavamo studiando quando entrò il rettore». Scrive la Maraini:
«Stavamo studiando quando entrò il rettore», frase che implica la scelta di un preciso punto di vista: un testimone, un ricordo, qualcuno che ci racconta di un suo compagno di scuola poi finito medico a Yonville eccetera. 
Ma questo io narrante lo perdiamo già alla fine del primo capitolo. Si tratta di una perdita volontaria, di un capriccio, di una dimenticanza, di un lapsus? 

Vista la pignoleria quasi maniacale dello scrittore, direi che si tratta piuttosto di una spia messa li a indicarci uno stato di incertezza prospettica che accompagnerà tutto il libro. Che il lettore si confonda pure, il romanzo è tutto impastato di questa incertezza dei punti di vista che ne costituiscono la sottile originalità. 

Emma è lo specchio di Flaubert, della sua sessualità incerta, era attratto in modo ambiguo dalle donne, legato in modo simbiotico alla madre, aveva avuto esperienze omosessuali. Emma è anche il riflesso della sua amante dell'epoca, Louise Colet,  una donna desiderata ma presto disprezzata e alla fine francamente detestata come la più perniciosa delle scocciature.
«La cosa di cui ci lamentiamo - scrive Henry James - è che Emma Bovary, nonostante la natura della sua coscienza e sebbene rifletta tanto quella del suo creatore, sia veramente qualcuno di troppo limitato». e si chiede, accorato: «Ma perché Flaubert scelse, come speciali veicoli della vita che si proponeva di dipingere, degli esemplari umani così inferiori?». 
Attraverso Emma Flaubert esprime il suo disprezzo per una diffusa cultura di cattivo gusto, la pigrizia dei sensi, la tendenza al feticismo, l'amore per la menzogna, di cui forse era affetto lui stesso? è uno specchio dietro al quale c'è un altro corpo ben più robusto e virile, che prova piacere a denigrarsi attraverso i tratti delicati di una donna inquieta e velleitaria. una piccola donna, l'emblema di un accanimento verso se stesso, verso qualcosa di fortemente detestato.
«Egli non può che sognare di essere l'altro -scrive JeanPaul Sartre nell'Idiot defamile -e recitare per la propria soddisfazione il ruolo dell'uomo d'azione».


Durante tutto l'inverno, tre o quattro volte la settimana, a notte fonda, Rodolphe entrava nel giardino. Emma aveva nascosto la chiave del cancello e Charles credeva che si fosse perduta.
Per avvertirla della sua presenza, Rodolphe lanciava una manciata di sabbia contro la persiana. A questo suono Emma si alzava di scatto, ma qualche volta doveva aspettare perché Charles aveva la mania di chiacchierare accanto al fuoco e non la finiva più.
Emma era divorata dall'impazienza: se avesse potuto, lo avrebbe gettato dalla finestra. Si preparava per andare a dormire, poi prendeva un libro e continuava a leggere tranquilla, come se la lettura la divertisse molto. Charles,
allora, che l'aveva preceduta di sopra ed era già a letto, la chiamava perché andasse a coricarsi.
«Vieni, insomma, Emma?» diceva «È tardi!»
«Sì, vengo» rispondeva lei.
Nel frattempo Charles, poiché gli dava fastidio la luce della candela, si girava verso il muro e si
addormentava. Allora Emma scappava in giardino, trattenendo il respiro affrettato, sorridente, palpitante e discinta.
Rodolphe aveva un gran mantello, l'avvolgeva tutta e, passandole un braccio intorno alla vita, la trascinava in silenzio fino in fondo al giardino.
Si fermavano sotto la pergola, sulla stessa panca di tronchi sottili e fradici, ove poco tempo prima, Léon l'aveva contemplata con tanto amore nelle sere d'estate. Emma però non pensava certo a lui in queste occasioni.
Le stelle brillavano attraverso i rami senza foglie del gelsomino. Sentivano dietro di sé il fiume scorrere e, di tanto in tanto, il crepitare delle canne secche. Cumuli d'ombre, qua e là, si gonfiavano nel buio, e a volte sembravano fremere con un unico moto, si alzavano e si abbassavano come immense once nere che avanzassero per sommergerli.
Il freddo della notte faceva sì che si tenessero stretti l'uno all'altra; il suono dei sospiri sembrava loro più forte, gli occhi riuscivano appena a intravedersi, più grandi; e, in tanto silenzio, v'erano parole pronunciate sottovoce che cadevano sulle loro anime con sonorità cristallina e con vibrazioni che si ripercuotevano all'infinito. Quando la notte era piovosa, andavano a rifugiarsi nello studio medico, fra la tettoia e la scuderia. Accendevano un candeliere di cucina che Emma teneva nascosto dietro i libri. Rodolphe si comportava come se fosse stato in casa sua. La vista della libreria, dello scrittoio, di tutta la stanza insomma, lo metteva di buon umore e non riusciva a trattenersi dal dire una quantità di spiritosaggini alle spalle di Charles, che lasciavano Emma interdetta. Avrebbe voluto vederlo più serio, addirittura drammatico, a volte, come quella sera in cui le era parso di sentire un rumore di passi avvicinarsi sul viale.
«Viene qualcuno» aveva sussurrato.
Rodolphe spense la luce.
«Hai la pistola?»
«Per farne che?»
«Ma... per difenderti!» rispose Emma
«Da tuo marito? Ah!, pover'uomo!»
E Rodolphe accompagnò la frase con un gesto che significava "lo schiaccerei con un buffetto".
Emma rimase sbalordita dal suo coraggio, sebbene vi percepisse un'indelicatezza e una grossolanità ingenue, che la scandalizzarono. Rodolphe ripensò molto a questa storia di pistole. Se ella aveva parlato seriamente, la cosa era molto comica, pensava, e forse addirittura odiosa perché lui non aveva nessuna ragione di detestare il buon Charles, dal momento che non si sentiva affatto divorato dalla gelosia; a questo proposito Emma gli aveva fatto fare un giuramento solenne che Rodolphe aveva trovato, come minimo, di dubbio gusto.
Da quel momento Emma era diventata eccessivamente sentimentale. Si erano scambiati ritratti, si erano tagliati ciocche di capelli e adesso voleva un anello, una vera matrimoniale, in segno di eterna fedeltà. Spesso gli parlava delle campane della sera, o della voce della natura, poi gli raccontava di sua madre e voleva sapere della madre di lui. Rodolphe l'aveva perduta da più di vent'anni, eppure Emma lo consolava con le frasi più leziose, come se avesse avuto a che fare con un marmocchio abbandonato, e talora, guardando la luna, gli diceva:
«Sono sicura che di lassù, insieme, approvano il nostro amore».
Ma era così carina! Ne aveva conosciute poche di un simile candore! Questo amore, non contaminato dal vizio, rappresentava per lui qualcosa di nuovo che, discostandosi dalle facili avventure cui era abituato, solleticava tanto il suo orgoglio quanto la sua sensualità. L'esaltazione di Emma, disprezzata dal suo buon senso borghese, in fondo al cuore gli sembrava incantevole perché era rivolta alla sua persona. Per cui, sicuro di essere amato, non si diede più la pena di controllarsi e a poco a poco i suoi modi cambiarono.
Non le diceva più, come un tempo, quelle parole dolci che la facevano piangere, né aveva per lei quelle travolgenti carezze che la facevano impazzire di passione. E tutto questo diede l'impressione a Emma che il loro grande amore, nel quale viveva immersa, stesse diminuendo sotto di lei come l'acqua di un fiume assorbita dal letto in cui scorre, ed ella cominciò a scorgere il fango. Non riusciva a credere una cosa simile; raddoppiò la sua tenerezza e
Rodolphe nascose sempre meno la propria indifferenza.


Emma, di fronte a lui (il marito), lo guardava; non condivideva la sua umiliazione, altri sentimenti la dominavano: si  
domandava come avesse potuto pensare che un uomo simile valesse qualcosa, quando già tante volte aveva avuto modo 
di rendersi conto della sua assoluta mediocrità. 
Charles adesso andava su e giù per la stanza, facendo scrocchiare le scarpe sul pavimento di legno. 
«Siediti» disse Emma. «Mi dai ai nervi.» 
Charles sedette. 
Ma come aveva potuto (lei che era così intelligente) ingannarsi ancora una volta? E poi, per quale 
deplorevole mania distruggeva così la propria esistenza con continui sacrifici? Rammentò tutte le sue aspirazioni a una vita lussuosa, le frustrazioni dell'anima sua, le meschinità del matrimonio, della vita di tutti i giorni, i sogni caduti nel fango come rondini ferite, i desideri, le rinunce, tutto quello che avrebbe potuto avere! E per che cosa? Per che cosa? 


Oltre al frustino dal pomo dorato, Rodolphe aveva ricevuto un sigillo con inciso il motto Amor nel cor; e poi una sciarpa invernale e un portasigarette identico a quello del Visconte, che Charles aveva raccolto quel giorno sulla strada e che Emma conservava ancora. Questi regali lo umiliavano e ne rifiutava molti: ma Emma insisteva e Rodolphe finiva per cedere, trovandola tirannica e troppo invadente. 
Ella aveva anche delle strane idee:  
«Quando suonerà mezzanotte,» gli diceva «penserai a me!» E se lui confessava di non essersene ricordato, lo rimproverava a lungo, terminando con l'eterna domanda: 
«Mi ami?» 
«Ma sì ti amo!» rispondeva Rodolphe. 
«Molto?» 
«Sicuro!» 
«E non hai amato mai nessun'altra?» 
«Pensi di avermi preso vergine?» esclamava lui, ridendo. 
Emma piangeva, Rodolphe cercava di consolarla infiorando di giochi di parole le sue proteste d'affetto: «Oh! Ma è perché ti amo!» insisteva lei «Ti amo tanto da non poter vivere senza di te, capisci? Certe volte provo un tale desiderio di vederti che mi sento lacerare da tutte le furie dell'amore. Mi domando: dov'è in questo momento? Forse con altre donne? Gli sorridono, lui si avvicina.. Oh, no, non è possibile, ce n'è qualcuna che ti piace? Lo so, ce ne sono di più belle di me; ma io so amarti meglio! Sono la tua serva e la tua concubina! Tu sei il mio re, il mio idolo! Sei buono sei bello, sei intelligente, sei forte!» 
Si era sentito dire tante volte tutte queste cose che ormai non avevano per lui più niente di originale. Emma non era diversa dalle altre amanti, e il fascino della novità, cadendo a poco a poco come un abito, metteva a nudo l'eterna monotonia della passione, che ha sempre le stesse forme e lo stesso linguaggio. Rodolphe non distingueva, da uomo pieno di senso pratico, la differenza dei sentimenti  celata dall'identità di espressione. Poiché labbra viziose o venali gli avevano mormorato frasi simili, non attribuiva molta importanza al candore di Emma. "È necessario" pensava "ridimensionare i discorsi esagerati che spesso nascondono sentimenti mediocri: come se talora la passione eccessiva 
non traboccasse dall'anima servendosi delle più vuote metafore, perché nessuno, mai, può dare l'esatta misura delle proprie necessità, delle proprie concezioni, o dei propri dolori, dato che la parola umana è simile a un calderone incrinato da cui è facile trarre una musica adatta per far ballare gli orsi quando vorremmo commuovere le stelle." 
Ma, da quella posizione privilegiata di critica nella quale viene a trovarsi colui che, in qualsiasi impegno, si tiene sempre indietro, Rodolphe scorse in quest'amore altri godimenti da sfruttare. Giudicava scomoda ogni forma di pudore. Trattava Emma senza riguardi. Ne fece qualcosa di duttile e corrotto. Il suo era una specie di attaccamento idiota, pieno di ammirazione per se stesso, di voluttà per Emma; era una beatitudine che l'intorpidiva; e la sua anima affondava in quell'ebbrezza, e vi annegava, raggrinzita come il duca di Clarence nella sua botte di malvasia. 
La signora Bovary cambiò i propri atteggiamenti soltanto per l'influenza esercitata dalle sue abitudini 
amorose. Gli sguardi di lei divennero più arditi, i discorsi più liberi, e commise perfino la sconvenienza di passeggiare con Rodolphe fumando una sigaretta, quasi a voler manifestare il proprio disprezzo per la gente, e alla fine anche coloro che ancora dubitavano finirono per non dubitare più quando la videro scendere dalla Rondine con la vita stretta da un 
panciotto, come un uomo.



http://www.liberliber.it/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/madame_p.pdf

martedì 22 gennaio 2013

se potessi mangiare un'idea avrei fatto la mia rivoluzione

l'idea di inglobarsi un'idea per farla propria ed efficace ha un non so che di cannibalico e psicoanalitico.
Mangiare Dio è un saggio di molti anni fa di Jan Kott sulla tragedia greca che girava in casa mia altrettanti moltissimi anni fa, sul comodino di mio padre. magari deliro, ma l'idea di inglobare il divino, la divinazione di un'idea è, appunto, un'idea folgorante di forza, di potenza, di incarnazione dell'idea. una rivoluzione.

ieri sera ho visto la trasmissione condotta da Fabio Fazio su RAI 3, su Giorgio Gaber.
è particolare la coincidenza di un commento a un mio post di Paolo de Il Giardino di Enzo sulla commozione provata cantando le canzoni di Gaber e la trasmissione andata in onda proprio ieri sera, a 10 anni dalla sua morte.
non mi sono resa conto fino a ieri come quelle canzoni siano inscritte in me, le so quasi tutte a memoria, le ho ascoltate per anni, gli anni della mia adolescenza, e le so. lo stupore è ancora più forte se penso al vuoto delle di oggi adolescenze, vuote di idee appunto, ma non entriamo in meandri dolorosissimi, lasciamo davvero stare.
Gaber l'ho visto, ascoltato a teatro, almeno due volte, al Lirico di Milano. ero una ragazza, veramente.
appassionata.
mi piaceva molto il suo comunismo critico, il suo non-comunismo di sinistra. era convincente proprio nel suo desiderio di non convincere assolutamente nessuno. di non appartenere a nessuno. ma era di appartenenza ciò di cui Gaber parlava. il distacco che glorifica il pensiero: era, è,  un vero maestro in questo.
quanto mi è sempre piaciuto. e mi rendo conto anche quanto le sue canzoni non sia esportabili altrove. mentre posso anche ascoltare De Andrè cantato da un altro, e apprezzarne comunque la forza comunicativa, mi sono resa conto ieri che nessuna canzone di Gaber possa essere cantata da un altro se non da Gaber. è il suo stile, distaccato, ironico, scanzonato (!), casuale (apparentemente), libero a essere inimitabile, a fare l'unicità delle sue canzoni, delle sue comunicazioni, delle sue IDEE.
per molti anni ho ascoltato molto anche la di lui moglie, Ombretta Colli, che faceva la femminista su testi, ovviamente, di Gaber e Luporini. mi piaceva anche lei, oggi è un mostro, un vero mostro plastificato e mortificato dalla seduzione berlusconiana, mammamia che tristezza. lei l'idea non l'ha mangiata, proprio no, l'ha vomitata.

L'illogica allegria 
Da solo lungo l'autostrada
alle prime luci del mattino...
a volte spengo anche la radio
e lascio il mio cuore incollato al finestrino...

Lo so del mondo e anche del resto,
lo so che tutto va in rovina...
ma di mattina, quando la gente dorme
col suo normale malumore,
può bastare un niente,
forse un piccolo bagliore,
un'aria già vissuta, un paesaggio, che ne so...

E sto bene...
sto bene come uno che si sogna...
non lo so se mi conviene
ma sto bene, che vergogna...
Io sto bene...
proprio ora, proprio qui...
non è mica colpa mia se mi capita così...

E' come un'illogica allegria
di cui non so il motivo, non so che cosa sia...
E' come se improvvisamente
mi fossi preso il diritto
di vivere il presente...

Io sto bene...
na na na na na na na
questa illogica allegria
proprio ora, proprio qui...


Da solo lungo l'autostrada
alle prime luci del mattino..


questa canzone è un capolavoro. avercela questa forza di dire...sto bene...
io non ce l'ho.
e sento miserabile per questa mia incapacità perenne.

e poi di Gaber mi piace l'esaltazione della differenza. ieri ho ascoltato questa bella canzone- recitata dalla Littizzetto che però non mi convince per niente-intitolata Secondo me una donna.
finisce così:
Sì, secondo me la donna e l’uomo, sono destinati a rimanere assolutamente differenti. 
E contrariamente a molti io credo che sia necessario mantenerle se non addirittura esaltarle queste differenze. Perché proprio da questo scontro incontro, tra un uomo e una donna, che si muove l’universo intero. All’ universo non gliene importa niente dei popoli e delle nazioni, l’universo sa soltanto che senza due corpi differenti, e due pensieri differenti, non c’è futuro.
come non credergli? come mi ritrovo tutta in questa IDEA.
la differenza ci salverà dall'omologazione, dall'appiattimento, dall'asessuazione, dall'aggressività, dall'odio, dalla mortificazione del desiderio, dal non amore. solo dall'esaltazione delle differenze tra uomo e donna può nascere la vita. detesto le donne che fanno gli uomini, in tutto, quando parlano, lavorano, aggrediscono, fanno l'amore, approcciano il maschio, conducono la vita e i rapporti. penso stiano estinguendo la specie umana. oltre che condannarsi all'infelicità più angosciosa e duratura senza speranza.
siamo diversi, viviamo la differenza.

e infine Patty Smith canta, teneramente forte (c'è qualcosa di assolutamente antitetico e compresente in questa donna), in una versione inglese tradotta da un nipote di Gaber, Io come persona (I, as a person).

Io come persona
In un tempo di rassegnata decadenza 
serpeggia la paura nascosta dall'indifferenza. 
In un tempo così caotico e corrotto
in cui da un giorno all'altro ci può succedere di tutto. 
In un tempo esasperato e incongruente 
con tanta, tanta informazione che alla fine 
uno non sa niente. 

In un tempo tremendo in ogni parte del mondo.

 In un tempo dove il mito occidentale 
nel momento in cui stravince è nella crisi più totale. 
In un tempo che è forse peggio di una guerra 
dove gli ordigni nucleari pian piano invadono la terra. 
In un tempo dove milioni di persone 
si massacrano tra loro 
e non sappiamo la ragione. 

Io come persona 
io come persona 
io come persona, completamente 
fuori dalla scena 
io come donna o uomo 
che non avverte più nessun richiamo 
io che non capisco 
e che non riesco a valutare e a credere 
io che osservo il tutto 
con il sospetto di non sceglier mai, di non sceglier mai, di non sceglier mai… 

In un tempo sempre più ostile allo straniero 
tutti i popoli del mondo stanno premendo sull'Impero. 
In un tempo indaffarato e inconcludente 
si alza minaccioso il sole rosso dell’oriente. 
In un tempo senza ideali né utopia 
dove l'unica salvezza è un'onorevole follia. 

In un tempo tremendo in ogni parte del mondo. 

In un tempo dove tutto ti sovrasta 
e qualsiasi decisione passa sopra la tua testa. 
In un tempo dove il nostro contributo 
la nostra vera colpa è solamente un voto. 
In un tempo che non ti lascia via d'uscita 
dove il destino o qualcuno ha nelle mani la tua vita… 

Io come persona, io come persona 
io coi miei sentimenti 
coi miei traguardi quasi mai raggiunti 
io con la mia fede che si disperde in infinite strade
 io, stordito e spento, con lo sgomento di dover assistere
 io, confuso e vuoto, e rassegnato a non schierarmi mai 
a non schierarmi mai, a non schierarmi mai 

[parlato:] In un tempo tremendo piano piano ti allontani dal mondo, ma con fatica, senza arroganza, come un uomo sconfitto che riesce a vivere solo rifugiandosi nel suo piccolo mondo. Ma la salvezza personale non basta a nessuno. E la sconfitta è proprio quella di avere ancora la voglia di fare qualcosa e di sapere con chiarezza che non puoi fare niente. È lì che si muore, fuori e dentro di noi. Seicome un individuo innocuo, senza giudizi e senza idee. E se non ti si ferma il cuore è perché il cuore non ha mai avuto la pretesa di pensare. Sei come un individuo impoverito e trasportato al capolinea, un individuo sempre più smarrito e più impotente, un uomo al termine del mondo, ai confini del più niente. 

Ma io ci sono, io ci sono 
io come persona ci sono, io come persona ci sono ancora 
io coi miei sentimenti ci sono, io coi miei sentimenti ci sono ancora 
io con la mia rabbia ci sono, io con la mia rabbia ci sono ancora 
io con la mia voglia di cambiare ci sono, io con la mia voglia di cambiare ci sono ancora. 

Io ci sono, io ci sono 
io come persona ci sono, io come persona ci sono ancora 
io con le mie forze ci sono, io con le mie forze ci sono ancora 
io con la mia fede, io con la mia fede ancora 
io come donna o uomo ci sono, io come donna o uomo ci sono ancora. 

Io ci sono, io ci sono 
io come persona ci sono, io come persona ci sono 
io come persona ci sono, io come persona ci sono ci sono, ci sono, ci sono.

E diciamolo forte, IO ci sono.
Diciamolo UNA DIECI CENTO MILLE VOLTE.
e poi mangiamolo, sarà una rivoluzione.

lunedì 21 gennaio 2013

Salani


A Milano, durante le feste di Natale, ho visto questa bellissima esposizione.
al Castello Sforzesco, che è una meraviglia milanese, stanno creando e promuovendo interessanti iniziative. lo vedo sano, pieno di vita, pulsante, energico. mi piace questa vitalità cittadina.

“Quanto ci hanno influenzato i romanzi della «Biblioteca dei miei ragazzi»? [...] Credo che per molti di noi sia stata all’origine della formazione del nostro immaginario”.Umberto Eco, L’Espresso, 13 novembre 1988

"In occasione dei 150 anni della casa editrice Salani, è stata inaugurata al Castello Sforzesco la mostra Da Pinocchio a Harry Potter. 150 anni di illustrazione italiana dall’Archivio Salani. 1862 - 2012, promossa e prodotta dal Comune Milano - Cultura, Castello Sforzesco e Palazzo Reale con Adriano Salani Editore. L’esposizione si è svolta nella Sala Viscontea e nella Sala dei Pilastri del Castello Sforzesco nelle quali sono state esposte 300 opere grafiche provenienti dall’Archivio Salani, dalla Raccolta delle Stampe “Achille Bertarelli”, dalla Biblioteca Centrale-Palazzo Sormani di Milano, e da altre importanti biblioteche e collezioni italiane. La rassegna ha consentito al pubblico di conoscere parte dello straordinario Archivio storico Salani, patrimonio unico in Italia e in Europa, che custodisce oltre 30.000 disegni e tavole originali realizzati dai maggiori illustratori italiani ed europei: da Carlo Chiostri ed Ezio Anichini a Luigi e Maria Augusta Cavalieri, da Carlo Vitoli Russo a Ugo Signorini, da Fiorenzo e Giovanni Faorzi a Gastone Rossini, per arrivare ad artisti contemporanei del calibro di Quentin Blake, Emanuele Luzzati, Mimmo Paladino, Tullio Pericoli, Sergio Staino e Altan. Nella Sala Viscontea è stato possibile ripercorrere la storia della casa editrice Salani attraverso un percorso visivo articolato in tre sezioni. Nella prima, gli esordi del periodo di Adriano Salani, dal 1862 al 1904, attraverso le prime pubblicazioni sotto forma di fogli volanti, libretti e importanti documenti d’archivio. I periodi di ascesa e declino della Salani sono stati documentati poi attraverso le collane a partire dal 1940 fino al 1964. Sono state messe in mostra l’editoria per bambini e ragazzi dai «Primi Amici del Bambino» ai «Grandi Piccoli Libri», il ‘giallo’ inglese de «I romanzi della Sfinge» e «I romanzi azzurri», «La Biblioteca dei Miei Ragazzi», la letteratura di largo consumo dalla «Popolarissima» alla «Biblioteca delle Signorine», la produzione per ragazzi e bambini da «Le Grandi Avventure» a «I Libri Meravigliosi».Si sono potuti infine ammirare i nuovi codici figurativi dal rilancio della letteratura “rosa” al successo mondiale della saga di Harry Potter (1964-2012)."

Al termine della mostra c'era anche una piccola sezione dedicata alla vendita dei libri, e devo dire che la casa editrice ha mantenuto intatta nel tempo il rigore, e l'amore, per la bella edizione, grafica e illustrativa. li avrei comprati tutti! ho visto, o meglio ammirato, illustrazioni meravigliose, ne riporto qui solo alcune, c'era una fata turchina -al di là delle allusioni- veramente di magica bellezza. mozzafiato, in stile liberty, affascinante. ho scoperto che esiste anche un'edizione Salani della Divina Commedia illustrata da Dalì, ma anche alla mostra non vi era traccia purtroppo, ma credo che sarei disposta a molto per averla. e probabilmente non deve essere così difficile procurarsela.






martedì 15 gennaio 2013

per l'urlo feroce del mare, per la paura che dietro le porte qualcuno ci rinchiuda, io ti rendo grazie, Signore

io non avrei mai pensato, stupidamente credo, che le poesie di David Maria Turoldo, sacerdote, uomo di fede,  potessero piacermi.
perchè?
perchè la fede, nella mia testa, appiattisce il dubbio?
perchè la fede risolve l'esistenza fornendo delle risposte?
perchè la fede delimita la libertà di concedersi il dolore, il pensiero, la frantumazione, la gelosia, la disperazione?
ecco, ho sbagliato. e di grosso.
sono ignorante e presuntuosa.
queste poesie sono così dense di dolore, di dubbio, di disperazione, di abbandono che mi hanno colta impreparata. mi colpisce l'affidamento tutt'altro che dogmatico, ma dubbioso e tormentato,  il dolore per una presenza così importante, dio e l'amore per dio, che si fa perennemente assente. è un tormento, amare chi non c'è, chi non si fa vedere, chi è inaccessibile, pur desiderandolo come reale. esplodono frustrazione, a volte rabbia, a volte gelosia, è un amore terreno, spasimante quello di Turoldo verso dio. lo sento vicino, lo sento possibile, lo sento complice proprio perchè io non credo ma comprendo questo amore che non si da pace, che non ha risposte, che chiede e non riceve, che da senza riserve ma non trova la sostanza che vorrebbe. l'esperienza dell'amore per dio è un vero dramma per quest'uomo, questo poeta, un paradosso scandaloso, una contraddizione irrisolvibile. non c'è pace nella sua poesia, non sa darsi spiegazione di un'incarnazione divina, di "un dio/ che muore". di un dio fattosi uomo che, però, si nega: "credere è entrare in conflitto", perchè significa anelare a una ricongiunzione, a un'unione, a una fusione impossibile. è un avvicinamento al mistero destinato a fallire, a far soffrire, a non trovare confronto in cui la poesia copre uno spazio, quello del "silenzio di dio".

Ora so perché 
Ora so perché altro tempo
 - dono che più ci invidiano gli angeli -
 benignamente mi concedesti:

 perché l'estenuante
 desiderio di te mi rendesse
 meno indegno

 e nell'attesa io cantassi
 - come non mai -
 all'amorosa pazzia:

                            ora
 che ad una ad una si spengono
 le fiamme e un pianto segreto
 mi ristora

e libera memoria dal rimorso
della colpa più grave
di non essermi lasciato amare.


Per la notte
Per la notte oscura
per il mare che all'improvviso
ha rotto la pace

per la pace frantumata sulle rocce
per il vento che libertà dà agli spiriti del male
sulle impaurite case

per l'urlo feroce del mare
e per la paura che dietro le porte
qualcuno ci rinchiuda

 io ti rendo grazie, Signore


Io faccio amara anche la tua morte
Mamma, hai la bocca piena di terra.
Radici ora ramificano dagli occhi
 dal cuore che ci offriva il pane in silenzio.
E tremavi tutta per la nostra pena
di fanciulli ormai adulti,
di fanciulli ancora soli e poveri.
La casa è deserta d'allora,
la corte tutta un disordine e nulla
è mutato dell'esistenza avara.

Mamma, ora neppure Iddio mi risponde,
Egli s'è chiuso dietro un portone di bronzo
cui picchio, soprattutto di notte,
ma nessuno viene il consolare
questo tuo ultimo figlio.
Solo il vento fischia e cavalca
su tutta la pianura.

Ho lasciato il gregge: ricordi
la pecora segnata di bianco in fronte,
la pecora vissuta con noi tanti anni,
la madre di tutti gli agnelli
che sapeva il tuo passo lieve
e ti chiamava con la voce di una creatura
e ti guardava con occhi così dolci
quando la mungevi a sera.
E io ero felice come una rondine
di ritorno dai campi col gregge sazio.

Ho lasciato i nostri campi, mamma,
quella pianura vasta e taciturna
dal colore dei tuoi capelli
biondi come le vigne all'autunno.
 Ho lasciato i compagni sul sagrato
a rincorrersi e la chiesa bianca:
ricordi quel giorno triste di settembre,
 tu mi salutavi dietro la porta e dicevi:
figlio, noi siamo poveri,
è un'avventura troppo grande!
È un'avventura troppo grande, Madre!
E il cielo non risparmia nessuno
e gli uomini non perdonano ai sacerdoti.

Ora torno dal deserto di mezza Europa
nella casa immensa. (Allora
ci pareva un nido di passeri.)
E mi pesi ancora sulle braccia
a nero vestita e serena.

D'allora mi pesi ogni giorno sulla patena
insieme a Cristo, mia dolce rovina,
come forse noi ti pesavamo nel grembo.
Prima tu piangevi sulla nostra sorte,
ora io faccio amara anche la tua morte.


Ballata della disperazione
...
VI.
"Io sono" è il mio nome:
oltre il dubbio e la fede
oltre le stesse immagini
oltre ogni previsione,
sono la voce di cieli nuovi
e di terre nuove.

E il silenzio
e il canto dentro il silenzio.

domenica 13 gennaio 2013

pause

le parole mi abbandonano.
vorrei trovare il modo per dirlo ma ora non ce l'ho.
annaspo, sempre più spesso, alla ricerca dei nomi delle cose.
balbetto, lunghe pause di silenzio, di non parola.
muta, in imbarazzo, in attesa della ripartenza.
la parola è la mia vita, il mio lavoro, il mio nome, la mia cifra.
afasia. il terrore di un ricordo.
scrivere mi salva, mi da il tempo di una ricerca che parlando non ho.

giovedì 10 gennaio 2013

via del campo

non lo so.
come mai?
l'ho ascoltata questa mattina, dopo Preghiera in  gennaio

Dio di misericordia

il tuo bel Paradiso
lo hai fatto soprattutto
per chi non ha sorriso
per quelli che han vissuto
con la coscienza pura
l'inferno esiste solo
per chi ne ha paura.

dopo La stagione del tuo amore

però il tempo non ha premura
piangi e ridi come allora
ridi e piangi e ridi ancora
ogni gioia ogni dolore
puoi ritrovarli nella luce di un'ora


ecco arriva e ascolto Via del campo, gli occhi grandi color di foglia, gli occhi grigi come la strada, ama e ridi se amor risponde, piangi forte se non ti sente... e mi viene da piangere.
uno struggimento, mi prende. un movimento viscerale. uno spostamento d'anima. sarà che de Andrè ha un potere comunicativo fuori della norma? sarà questo. ma è anche vero che se ci penso, questo testo, è sognante. non è che fare la puttana sia un mestiere che induca il sorriso o la presa per mano, non che che dal letame venga sempre il meglio. dai diciamolo, non è proprio così. ma c'è un lirismo che trasfigura la realtà, c'è una semplicità narrativa che commuove, c'è un canto, come quello delle sirene, un richiamo irresistibile a credere. 
a credergli. 
forse è questo che mi fa piangere, perché ci credo a questa favola, almeno per il tempo, brevissimo, della sua canzone. ci credo.

Via del Campo c'e' una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa


Via del Campo c'e' una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina


Via del Campo c'e' una puttana
gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano


e ti sembra 

di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo li' al primo piano.


Via del Campo ci va un illuso
a pregarla di maritare
a vederla salir le scale
fino a quando il balcone ha chiuso


Ama e ridi se amor risponde
piangi forte se non ti sente
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.

mercoledì 9 gennaio 2013

storia di un corpo: che mi sia restituita la mia dirata, che le mie cellule rallentino.

li scrivo?
li scrivo.

"...mi è tornato in mente l'aneddoto di quell'escursionista caduto da una falesia. fa un passo falso, precipita nel vuoto. gli amici terrorizzati, continuano a urlare quando lui ha già smesso di avere paura.sostiene che il terrore l'ha abbandonato nell'istante in cui ha capito di essere spacciato. per tutta la vita si è ricordato di questa perdita della speranza come dell'esperienza stessa della beatitudine. alla fine l'hanno salvato i rami di un albero. la paura è tornata insieme alla speranza che qualcuno venisse a tirarlo fuori di lì."

"Bruno passa parte della mattinata con la lingua mollemente penzoloni. quandogli chiedo perchè, lui risponde serissimo: la lingua dentro si annoia, allora ogni tanto la porto fuori. il bambino percepisce ancora se stesso come un puzzle con tutti gli elementi sparpagliati. fa conoscenza dei pezzi che lo costituiscono come con amici occasionali.sa benissimo che si tratta della sua lingua, non ne dubita neppure un secondo, ma può ancora giocare a crederla estranea, a portarla fuori come si porta fuori il cane. lui e la sua lingua, ma anche il suo braccio, i suoi piedi o il suo cervello -chiacchiera molto con il suo cervello, ultimamente: state zitti che sto parlando al mio cervello-, tutti quei pezzi di se stesso che possono ancora incantarlo."

"...e io sfrego con il guanto, con il sapone, ogni volta stupito della densità di quei piccoli corpi, come se maneggiassi energia allo stato puro, tutta l'esistenza di due esistenze a venire fantasticamente racchiusa in quella carne infantile così compatta, sotto quella pelle così delicata: non saranno mai più così densi, nè i lineamenti del viso saranno mai più così netti, nè così bianco il bianco dei loro occhi, nè le orecchie così perfettamente disegnate, nè così compatta la grana della pelle. l'uomo nasce nell'iperrealismo per dilatarsi pian piano fino a un puntinismo alquanto approssimativo per poi disperdersi in una polvere di astrattismo."

"ho verificato. Bruno ha detto: vai a cagarti....e? stato Josè. chi è Josè? un amico di scuola. (...) vai a cagarti ha comunque un'altra dimensione rispetto a "stronzo" o "vaffanculo". l'imperativo del verso cagare coniugato in senso riflessivo pronominale è un'arma assassina. l'avversario ridotto all'escremento di se stesso al quale ordiniamo di defecarsi da solo, cosa si può dire di peggio?
...
Altro insulto ultra fisico del piccolo Josè: che ti muoiano le ossa."

(parla una psichiatra)
"in realtà, caro signore, quel che oggi la disturba di più è la sorpresa, lei è terrorizzatodalla novità di questi acufeni e dal timore della loro permanenza ma, conclude, nessuno vive in uno stato di stupore permanente.
...
come aveva preannunciato la psichiatra, sono passati tre mesi e mi sono abituato al mio acufene. la maggior parte delle nostre paure fisiche è come i nostri miasmi: li dimentichiamo quando il vento è passato. pascoliamo nel praticello del nostro trantran e ci immobilizziamo come cerbiatti senza via di scampo non appena il corpo parla. quando l'allarme  è passato, ce ne torniamo al pascolo con arie da predatori."

"quando hai tenuto per tutta la vita un diario del corpo, un'agonia non puoi certo negartela."

trascrivendo questi passi mi sembrano meno significativi di quando li ho letti.
probabilmente isolati perdono il senso che acquisiscono nella completezza del discorso.
è spesso così, no?
posso certamente dire che il libro è abbastanza fedele a se stesso, al suo intento. ci sono poche tracce, se non necessarie, di tipo narrativo, ci sono pochi accenni ad anima e psiche, ma è anche vero che certamente emergono i sentimenti. allora non si può parlare di corpo, di corpo vivo, di corpo nel mondo, senza separarlo dall'affettività?
il corpo è il veicolo della nostra presenza, è il veicolo della nostra affettività e della sua espressione (voce, cuore, occhi, orecchie, mimica , batticuori, orgasmi e lacrime) e, quindi, la sua narrazione, la narrazione del corpo, non può che passare da un'esperienza affettiva.
forse devo chiarirmi le idee, e dico sciochezze.
di certo questo libro mi ha circoscritto.

lunedì 7 gennaio 2013

a Torino

museo del cinema!








un tempio all'interno della Mole Antonelliana.
uno spazio immenso nel cuore della torre e almeno tre piani che le girano attorno.
storia del cinema, costruzione dei film, effetti speciali, devozione ad attori registi e sceneggiatori,
piano dedicato ai poster dei film, e infine questo grande spazio interiore, un nucleo, un cuore.
di cinema.
pulsante.
il giorno della mia visita c'era una mostra specifica dedicata a Metropolis, capolavoro assoluto di Fritz Lang.
un film strepitoso. muto, potentisimo. del 1927.
e dico: avercene.
un film dell'archeologia del cinema costruito con un'arte visionaria, futuribile, narrativa e scenografica che ora...non ce n'è.
e dicono: tempo della visita 90 minuti.
ma dove, ma come, ma quando? quasi tre ore direi, e non un minuto di meno.

e poi da Baratti e Milano, elegante antico lussuoso caffè torinese,
bello nell'aspetto e buono nel gusto,
maleducato nei modi,
ma una cioccolata alla cannella con treccia di uvette era l'unica possibile conclusione a questa festa orgiastica di sensi ed emozioni.

giovedì 3 gennaio 2013

a Milano

in giro, giorni di festa.
vedo la nuova piazza Gae Aulenti (qualcuno protesta, doveva essere dedicata al Cardinale Martini) e, certamente mi piace, abitata dal grattacielo mio preferito e da molta nuova modernità.
sono a Milano? come cambia la mia città.





proseguo nei miei giri, in Corso Como finisco alla Galleria Sozzani e faccio un brevissimo incontro con una fotografa giapponese che mi stupisce.
Maiko Aruki.
molto giapponese, non c'è che dire.
effetti minimi, minime tracce dell'esistenza.
nessun ricorso alla tecnologia e al rimaneggiamento, pura artigianalità.
particolari, insignificanti?
contrasti estremi, sovra e sotto esposizione, i dettagli si colgono SOLO se si guarda bene.
l'attenzione è tutto.
luce buio e ombra, siamo dissolvenza?





mi sono goduta (anche) così, le mie brevi vacanze. milanesi.