bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 4 febbraio 2013

Una convulsione l'abbatté sul letto, tutti le si fecero vicini. Emma aveva cessato di esistere.

Emma ancora Emma.
ma.
Emma è morta.
il suo destino si è compiuto e, dopo di lei, quello tragico di tutti gli altri a lei legati.
la sua corruzione, la sua rovina, la sua perdizione hanno trascinato il marito e la figlia dopo di lei, qualcosa di dannato e colpevole è andato oltre, oltre la sua persona, oltre la sua morte, oltre.
la parte finale del libro è trascinante, drammatica, inquietante. 
un senso di ineluttabilità e di morte aleggiano pesantissimi, si respirano, si inoculano. si solidificano. 
Emma vive sul desiderio degli altri rivendicandone di continuo la mancanza, non sa vivere di un senso che venga da se stessa, lo deve continuamente rivendicare nell'altro, accusandolo e colpevolizzandolo di non essere mai abbastanza. si può chiedere agli altri di vivere per noi? di darci un senso? di trasfonderci vita?
Emma è una figura tragica nella sua immensa carenza che chiede costantemente all'Altro di sostentarla in vita. è pervasa da un senso di morte, sottilmente sempre presente che, verso il finale, la travolge, infelice, tragicamente sola, cieca e senza futuro, verso il suicidio.
Emma non vede la vita, la sua consistenza, la sua presa di realtà, la sua quotidiana portanza. Emma persegue solo e unicamente il suo godimento, in termini psicoanalitici non solamente fisici, che è quello di invitare l'Altro a negarla pur chiedendo apparentemente il contrario, di presentificarla.
Emma non c'è.
Emma non esiste.
"Cercando Emma" scriveva Dacia Maraini.
E' un buon titolo, perchè Emma non è reperibile.
per esistere chiede all'altro di darle un nome, risucchiandolo in un vortice di pretese e richieste, di amplessi e approvazioni, di gesti estremi in crescendo, fino a trovarsi vuota e senza amore. l'amore lo inventa, gli da parvenza fisica, gli da forma di eccitazione e di prestazione, ma alla fine rimane sempre sguarnita, annoiata,  delusa, immaginante altro, sempre oltre e diverso da quel che è, da quello che ha e che da. l'Altro è sempre insufficiente, l'Altro non basta mai, l'Altro è inesistente, quanto lei, non è oggetto di amore, è solo reificazione della sua negazione ad essere.
Flaubert è un genio della scrittura, Madame Bovary è uno di quel libri indimenticabili, di quelle pagine di lettura eterni, di descrizione attenta e magica del reale, di intuizione simbolica altissima. pagine di bellezza memorabile.

ed eccola Emma, incamminata verso il nulla, nel buco nero che la risucchia: 

Alla fine il giovane riuscì a liberarsi e corse a perdifiato all'albergo. Emma non c'era più. 
Se n'era andata, esasperata. Adesso detestava Léon.  Questa mancanza di parola all'appuntamento le era sembrata un oltraggio, e cercava altri motivi per abbandonarlo: era incapace di eroismo, debole, banale, più effeminato di una donna, avaro anche, e pusillanime. 
Poi, una volta calmatasi, finì col convincersi di averlo soltanto calunniato. Ma il denigrare quelli che amiamo ci allontana sempre un poco da loro. Non bisogna toccare gli idoli: la polvere d'oro che li ricopre  potrebbe restarci attaccata alle dita. 
Emma e Léon cominciarono a parlare più frequentemente di argomenti estranei al loro amore; e, nelle lettere che Emma gli scriveva, si parlava di fiori, di poesia, delle stelle e della luna, ingenui surrogati della passione che andava indebolendosi, e che cercava di ravvivarsi con appigli esteriori. La signora Bovary si riprometteva di continuo, per il suo prossimo viaggio, una felicità profonda, e poi era costretta a confessare di non provare niente di straordinario. Quella delusione veniva ben presto cancellata da una sempre nuova speranza; Emma tornava da Léon più ardente, più avida. Si spogliava con veemenza strappando le stringhe sottili del busto, che sibilavano intorno ai suoi fianchi come serpi striscianti. Si avvicinava, sulle punte dei piedi nudi, per assicurarsi una volta di più se la porta fosse chiusa, poi, con un solo gesto, faceva cadere tutti gli abiti in una sola volta, e pallida, senza dire nulla, seria si lasciava cadere sul suo petto con un lungo brivido. 
V'era in quella fronte coperta da un sudore freddo sulle labbra balbettanti, nelle pupille smarrite, nella stretta delle braccia di Emma, qualcosa di estremo, di vago e di lugubre, che Léon sentiva insinuarsi fra loro, sottilmente, come se volesse separarli. 
Non osava porle domande; ma, vedendola così esperta, si era convinto che fosse dovuta passare attraverso tutte le prove della sofferenza e del piacere. Quello che un tempo lo aveva affascinato, adesso lo spaventava un poco. E si ribellava contro l'annullamento ogni giorno più grande della propria personalità. Nutriva rancore contro Emma per quella continua supremazia. Si sforzava addirittura di non amarla; poi, soltanto sentendo scricchiolare le sue scarpette, si sentiva privo di volontà, come un alcoolizzato alla vista dei liquori forti.  
Emma non si lasciava sfuggire occasione, questo è vero, di prodigargli tutte le  possibili attenzioni, dalle squisitezze della tavola, alla civetteria nel vestire e agli sguardi languidi. Portava da Yonville delle rose in seno, e gliele sfogliava sul viso, mostrava di preoccuparsi della sua salute, gli dava consigli pratici e, per legarlo più strettamente a sé, sperando che il Cielo potesse in qualche modo intervenire, gli mise al collo una medaglia della Vergine. Si informava, come una madre sollecita, dei suoi colleghi. Gli diceva: 
«Non cercare di vederli, non uscire, pensa soltanto a noi, amami!» 
Avrebbe voluto sorvegliare la sua vita, e le venne l'idea di farlo pedinare. C'era sempre, vicino all'albergo, un vagabondo che abbordava i viaggiatori e che non avrebbe certo rifiutato... Ma il suo orgoglio si ribellò. 
"Eh! Tanto peggio! Mi tradisca pure, che m'importa! Mi preme poi così tanto?" 
Un giorno si erano lasciati presto ed Emma se ne tornava sola per il corso, quando vide i muri del suo collegio; si sedette su una panchina, all'ombra degli olmi. Che tempi sereni quelli! Come rimpiangeva gli ineffabili sentimenti d'amore che cercava di immaginare, dopo averli letti nei libri! 
I primi mesi del matrimonio, le passeggiate a cavallo nella foresta, il Visconte che ballava il valzer, Legardy che cantava, tutto le passava davanti agli occhi... E Léon le parve all'improvviso lontano come tutto il resto. 
"Eppure lo amo" si diceva. Non importava! Non era felice e non lo era mai stata. Da cosa dipendeva questo vuoto che esisteva nella sua vita, questa putrescenza istantanea delle cose che le stavano più a cuore?... Ma se esisteva in qualche luogo un essere forte e bello, un cuore valoroso, nello stesso tempo pieno di entusiasmi e di raffinatezza, un animo di poeta sotto le spoglie di un angelo, lira dalle corde di bronzo, capace di far giungere fino in cielo i suoni di epitalami elegiaci, perché proprio lei non avrebbe potuto per caso incontrarlo? Oh! Che sogno impossibile! Nulla valeva la pena di una ricerca, tutto era menzognero. Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, tutti i piaceri, il disgusto, e i baci più appassionati lasciavano sulla bocca soltanto l'irrealizzabile desiderio di una voluttà più grande. 
Un rantolo metallico si trascinò nell'aria e la campana del convento batté quattro rintocchi. Le quattro! E le 
sembrò di essere rimasta a sedere su quella panchina per tutta l'eternità. Un infinito di passione può concentrarsi in un minuto, come una folla può raccogliersi in un modesto spazio. 
Emma viveva preoccupandosi di se stessa, senza affannarsi per il denaro più di un'arciduchessa.

...


Emma se ne andò. I muri vacillavano, il soffitto la opprimeva, percorse di nuovo il lungo viale, inciampando 
fra i mucchi di foglie che il vento disperdeva. Giunse infine al cancello vicino al fossato. Si ruppe le unghie con il 
chiavistello nella fretta di aprirlo. Poi, fatti cento passi, ansimante, prossima a cadere, si fermò. E, voltandosi, scorse 
ancora una volta il castello, impassibile, con il parco, i giardini, i tre cortili e le finestre della facciata. 

Rimase perduta nel suo stupore, cosciente di sé soltanto per il battito delle arterie; lo udiva come una musica 
assordante che riempisse tutta la campagna. Il terreno sotto i piedi era più molle di un'onda, e i solchi le parevano 
immensi flutti bruni che si frangessero. Tutto quello che esisteva nella sua mente, le reminiscenze, le idee, svaniva tutto 
in una volta, di colpo, come le mille luci di un fuoco d'artificio. Vide suo padre, l'ufficio di Lheureux, la loro camera 
laggiù, un altro paesaggio. La follia si impadroniva di lei, ebbe paura, e riuscì allora a riprendersi, in maniera confusa 
però, perché aveva dimenticato il motivo delle condizioni orribili in cui si trovava, e cioè tutte le questioni di interesse. 

Ora soffriva solamente per il suo amore, e sentiva l'anima abbandonarla attraverso quel ricordo, come i feriti in agonia 
sentono la vita sfuggire attraverso la piaga sanguinante. 

Scendeva la notte, e le cornacchie si alzavano in volo.
A un tratto parve a Emma che piccole sfere di fuoco scoppiassero nell'aria, come pallottole esplosive
appiattendosi, e girassero, girassero per andare a fondersi nella neve, fra i rami degli alberi. Al centro di ciascuna di esse 
appariva il volto di Rodolphe. Si moltiplicavano, le si avvicinavano, penetravano in lei, e tutto scomparve. Riconobbe le 
luci delle case che brillavano lontane in mezzo alla nebbia. 

Allora la situazione le si presentò chiara, come un  abisso spalancato. Ansimava così forte che sembrava 
dovesse spaccarlesi il petto. Poi, con uno slancio d'eroismo che la rese quasi felice, corse per la discesa, attraversò la 
passerella del bestiame, il sentiero, il viale, il mercato e arrivò davanti alla bottega del farmacista. 

Non c'era nessuno. Stava per entrare, ma al suono del campanello sarebbe arrivato qualcuno. Scivolò attraverso 
il cancello, allora, trattenendo gli ansiti, a tentoni lungo il muro, procedette fino alla porta della cucina nella quale 
ardeva una candela posta sui fornelli. Justin, in maniche di camicia, reggeva un piatto. 

«Ah! Stanno cenando. Aspettiamo.»
Justin tornò. Emma bussò al vetro. Il ragazzo uscì.
«La chiave! Quella del solaio, dove ci sono...»
«Come!»
E la guardava, sbigottito dal pallore del viso di lei, che spiccava bianco sullo sfondo nero della notte. Gli parve 
straordinariamente bella, senza capire quello che Emma desiderava, aveva il presentimento di qualcosa di terribile. 

Ma la signora Bovary riprese a parlare in fretta, con la voce bassa, con un tono dolce e struggente:
«La voglio! Dammela!»
Poiché la parete era sottile, si udiva il tintinnio delle forchette sui piatti nella stanza da pranzo.
Emma voleva far credere di voler uccidere i topi che non la lasciavano dormire.
«Bisogna che avverta il signor Homais.»
«No, resta qui!»
Poi soggiunse, con aria indifferente:
«Eh! Non ne vale la pena, glielo dirò io fra poco. Andiamo, fammi lume!»
Entrò nel corridoio cui si apriva la porta del laboratorio. V'era, appesa al muro, una chiave con l'indicazione 
Cafarnao. 

«Justin!» gridò il farmacista spazientito.
«Andiamo di sopra!»
E lui la seguì.
La chiave girò nella serratura, ed Emma andò diritta al terzo scaffale, tanto rammentava bene, afferrò il boccale 
blu, gli strappò il tappo, vi ficcò la mano e, ritirandola piena di una polvere bianca, prese a mangiarla. 

«Si fermi!» gridò il ragazzo gettandosi su di lei.
«Taci! Verrà qualcuno...»
Justin si disperava, voleva chiamare aiuto.
«Non dire nulla, tutta la colpa ricadrebbe sul tuo padrone!»
Poi tornò subito calma, quasi nella serenità di un dovere compiuto.



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