bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

sabato 30 marzo 2013

Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è composta d'ombra e di luce

forse ci sono esigenze ovvero scelte obbligate di produzione delle grandi case filmografiche, immagino sia così perchè la scelta di Keira Knightley nel ruolo di Anna Karenina nell'omonimo film di Joe Wright è un'autentica voragine, un buco nella pellicola, in un film altrimenti ideato con garbo. 
è proprio vero che di un libro già letto, seppure molti anni fa, ci facciamo il nostro di film, la nostra personalissima messa in scena.
sarà per questo che l'immagine scheletrica e contro ogni tentazione della sopracitata attrice inglese mi sembra tutto tranne che la possibile rappresentazione di una donna russa, madre, moglie, amante folle e suicida.
Anna è piena, ha forme, è florida: è una donna. non un'adolescente in fase di recupero post anoressico. la mascella forte della Knightley, per non dire della dentatura storta, non corrispondono alla mia immagine di bellezza. le due chance espressive a disposizione di questa attrice vanno bene per un teen movie, non per l'icona più rappresentata e rappresentativa al mondo della donna che incarna (carne, appunto)  la passione mortifera dell'amore folle.
la scena più raccapricciante è quella del ballo. non ho potuto sopportare la vista di questo ramo secco senza forme con le ossa clavicolari sporgenti e le nervature malate e malsane delle scapole e della spina dorsale in evidente stato di carenza alimentare. la passione deve avere corpo, deve parlare attraverso il corpo, e il corpo deve avere qualcosa da dire, non da sottrarre all'immaginario.
una scena paragonabile a un supplizio.
una stonatura spiacevole in un film che vede bene invece la figura nobile sofferente e austera dell'uomo giusto, moralmente giusto a tutti i costi, di Alexei Karenin interpretato da un buon Jude Law. un film che vede un po' meno bene, e non la sa raccontare, la figura alla fine sofferente e insofferente di Vronskij, un uomo che non sa più tollerare la passione malata della sua Anna, un uomo che aspetta solo che qualcosa succeda, ma che non sia lui a dover far accadere, per interrompere la spirale malata di un dipendenza divorante.
un film che sa bene del valore rappresentativo classico e intramontabile della messa in scena per eccellenza della pulsione d'amore tragico e senza scampo che è in Anna Karenina e decide di rappresentarla a teatro, dentro, fuori, in scena e fuori scena, autentica vita o la sua sola rappresentazione. il treno parte il treno arriva, a volte così di cartapesta coperto di una neve di cotone bianco, a volte così piccolo e finto come il trenino del gioco elettrico del figlio Serëža, un gioco che sembra tale all'inizio ma si rivela mortale e tagliente alla fine. il treno pilota il destino, il treno conduce all'amore, il treno consegna la morte.
un gioco raffinato, ma più nell'idea che nel racconto di una tragica passione che sfida le convenzioni.

giovedì 28 marzo 2013

Il libro degli eventi è sempre aperto a metà

poesia in musica.
Parole Note. prima edizione nel 2010
Parole Note. seconda edizione nel 2012
Parole Note. terza edizione nel 2013 (si dice seconda metà di marzo, cioè: ora)
della prima ho già detto e scritto: belle poesie, alcune folgoranti.
ma quel che ha funzionato bene una volta non mi sembra abbia funzionato la seconda. 
intanto percepisco che la musica incide troppo. è troppo per la poesia che deve sostenere, in realtà la sovrasta, la falsifica o la enfatizza. la musica rende alcuni brani solo più seducenti ma i testi rimangono a volte veramente avvilenti. suoni echi rimandi sovrapposizioni, è un gioco anche troppo ridondante, ma è un gioco commerciale, vendere ha un costo. qualcosa, e di prezioso, si perde.
ci sono poesie, che non sono poesie, di una banalità sconcertante, una lettura di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Pavese, letta di Filippo Timi, che mi ha inorridito: una lettura macabra, sardonica, vampiresca...una bufala mai vista, penso che Pavese avesse solo in mente la disperazione muta e cieca della morte non l'eco horror delle risate oltretomba.
una dedica di un padre a una figlia, Lettera di un padre alla figlia di Riccardo Rossi, che potrebbe essere tratto, per infantile banalità, dal corriere dei piccoli; un pezzo di Terzani misticheggiante ma senza sostanza, un "forza ragazzi" da stadio, il mondo è vostro urlato come uno slogan; un richiamo alla forza di rinascita delle donne, Donne in rinascita di Jack Folla, che sa di piaggeria e manifesto post femminista.
robaccia.
si salva qualcosa: 
Passione di Totò e Se tu mi dimentichi di Pablo Neruda.
leggono, nella prima, Fiorello (con John Turturro...ma perchè???), nella seconda, Alessandro Gassman.
le due poesie sono diverse e si somigliano, l'amore lega, governa, vincola, rende schiavi e dipendenti. ci sono ed esisto solo se soffro d'amore per te, ci sono ed esisto, solo tu ci sei ed esisti per me.
Totò sembra più adulto, Neruda un eterno adolescente, entrambi spogliati di tutto, in domanda, in richiesta, in perenne assenza di soddisfazione. a volte sembra che l'amore anche quando c'è, manchi. eppure, come mi insegnava ieri sera Recalcati a una sapiente lezione di psicoanalisi, solo l'amore ci salva dall'universo dell'anonimato, solo l'amore ci consegna a un altro che ci riconosce, che ci da senso, che ci dice "tu non sei qui per caso, tu sei qui per me", solo l'amore ci fa ritrovare, con il nostro nome proprio, nel desiderio dell'altro. 

Passione
Sulla mia bocca ancora c'è il sapore
delle tue labbra come un fiore rosso,
l'alito profumato, il tuo calore
di questa febbre che mi hai messo addosso:mi brucia questa febbre nelle vene
e sol per te questo mio cuore duole,
duole d'amor perché ti vuole bene:
morir d'amor per te, sol questo vuole.
Bella superba come un'orchidea,
creatura concepita in una serra,
nata dal folle amore d'una Dea
con tutti i più bei fiori della terra.
Dal fascino del mare misterioso
che hai negli occhi come calamita
vorrei fuggir lontano, ma non oso,
signora ormai tu sei della mia vita.
Come uno schiavo sono incatenato
alle catene della tua malia
e mai vorrei che fosse ahimè
spezzato il dolce incanto della mia follia.

Se tu mi dimentichi 
Voglio che tu sappia
una cosa.
Tu sai com'è questa cosa:
se guardo
la luna di cristallo, il ramo rosso
del lento autunno alla mia finestra,
se tocco
vicino al fuoco
l'impalpabile cenere
o il rugoso corpo della legna,
tutto mi conduce a te,
come se ciò che esiste,
aromi, luce, metalli,
fossero piccole navi che vanno
verso le tue isole che m'attendono.

Orbene,
se a poco a poco cessi di amarmi
cesserò d'amarti a poco a poco.
Se d'improvviso
mi dimentichi,
non cercarmi,
ché già ti avrò dimenticata.

Se consideri lungo e pazzo
il vento di bandiere
che passa per la mia vita
e ti decidi
a lasciarmi alla riva
del cuore in cui ho le radici,
pensa
che in quel giorno,
in quell'ora,
leverò in alto le braccia
e le mie radici usciranno
a cercare altra terra.

Ma
se ogni giorno,
ogni ora
senti che a me sei destinata
con dolcezza implacabile.
Se ogni giorno sale
alle tue labbra un fiore a cercarmi,
ahi, amor mio, ahi mia,
in me tutto quel fuoco si ripete,
in me nulla si spegne né si dimentica,
il mio amore si nutre del tuo amore, amata,
e finché tu vivrai starà tra le tue braccia
senza uscire dalle mie.
 
ma sopra tutti, outstanding, la meravigliosa Amore a prima vista di Wislawa Szymborska, latta da una bella voce cristallina di Claudia Gerini, che mi insegna che nulla è da prendere sul serio, nemmeno la poesia, tanto meno l'amore, ancora meno Lacan.
mi insegna, come me lo insegnava ieri sera Recalcati a quella illuminante lezione di psicoanalisi, che l'amore oltre alla necessità, al tatuaggio che portiamo impressi, al solco segnato dall'amore materno, risponde anche all'occasionalità. alla contingenza, al caso che diventa destino.


Amore a prima vista
Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
E' bella una tale certezza
ma l'incertezza è più bella.

Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano -
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno "scusi" nella ressa?
un "ha sbagliato numero" nella cornetta?
- ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.

Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all'altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell'infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.
  

domenica 24 marzo 2013

fashion

 Jeanne Eagels fotografata dal Barone Adolf de Meyer, Vogue 1921
ovvero la prima e  la foto in assoluto più bella di tutta la mostra.

“Dobbiamo fare di Vogue un Louvre” 
Edward Steichen a Edna Woodman Chase, anni ‘20 

Le parole di Edward Steichen alla prima capo redattrice di Vogue America sono il miglior riassunto per spiegare la rivoluzione impressa da Condé Nast e dal suo gruppo di lavoro non solo alla moda ma nella fotografia in generale, quando nel 1909 acquista la prestigiosa testata di Vogue. Da ora in poi, raccontare la moda in immagini non vorrà solo dire delicate illustrazioni ottocentesche ma impiegare e dare spazio ai grandi autori della fotografia internazionali e alle loro libere interpretazioni. Edward Steichen è stato uno dei primi grandi autori a scattare per Vogue, ad accettare la sfida e a non curarsi di chi lo accusava di essersi svenduto per la moda. Da quei primi intrepidi passi, tante cose sono cambiate e ora la fotografia di moda non deve più dimostrare il suo valore ma grazie al talento e alla tecnica dei suoi rappresentanti, oggi è un linguaggio artistico di formidabile forza ed influenza visiva.

questa è la presentazione ufficiale della mostra: Fashion, Spazio Forma di Milano.
le foto di moda non mi fanno impazzire di gaudio, le guardo come begli oggetti di consumo. e il mio sguardo non va oltre. finisce nell'istante in cui si posa.
ma le prime sale della mostra sono dedicate alle foto di moda tra gli anni 20 e 30, e sono veramente belle. seriamente affascinanti: poca moda, molti sguardi, luce lunga, occhi belli.

Edward Steichen, Vogue 1923

Cecil Beaton, Vogue 1930

Erwin Blumenfeld, Vogue 1939 

Horst P.Horst, Vogue 1935 


tre le altre salvo Walter Chiari. by Bert Stern, 1962

giovedì 21 marzo 2013

sono nata il ventuno a primavera

Sono nata il ventuno a primavera

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera. 

 Alda Merini (da Vuoto d'amore, Einaudi 1991)

oggi oltre che il primo giorno di primavera o forse proprio per questo è la giornata mondiale della poesia non sono originale questa poesia è già postata ovunque sabato e domenica c'è una rappresentazione di poesie della merini al teatro atir ringhiera di milano magari ci vado oggi non sono viva anzi sono morta della morte che qualcuno mi augura se arrivo a sera vado a vedere foto di cicatrici sulla terra e cercherò di svegliarmi domani mattina. ancora.

lunedì 18 marzo 2013

e voilà Doisneau!!

un giorno qualcuno, proprio qui sul mio blog, parlando di fotografia -di cui peraltro non so niente-, ha tenuto molto a farmi sapere che le foto di Doisneau sono tutte costruite a tavolino: mettiti lì, passa così, guarda qui, posa colì, fai finta di essere naturale. un bacio, per favore, tra la folla che passa, veloce e distratta, davanti a un bistrot.
e vabbè, mi sono detta, stavo meglio prima, quando non lo sapevo.
probabilmente la questione non mi interessa. non mi fa alcuna differenza.
d'altronde non amo nemmeno quel fotogiornalismo in cui i corpi trapassati dalle corna di un toro o il cervello esploso in una miscela orrifica di neuroni sangue e teca cranica dopo un colpo alla tempia -certamente autentiche e verisssime- non mi piacciono. 
la fotografia è un gran bel mondo e non penso che sia godibile solo quando è autentica, naif, pura natura e non cultura. la fotografia è sempre una scelta dell'occhio che guarda, non coglie mai l'insieme ma solo il dettaglio, non il tempo nella sua interezza ma un istante, non la luce nel suo insieme ma un lampo temporaneo, è uno sguardo e non esiste un solo sguardo al mondo che non compia una scelta di parte. 
non mi aspetto nulla di "vero" dalla fotografia, solo che mi dica qualcosa in attesa di una mia domanda e quando invece si iperesprime mi coglie la nausea, come sempre quando sono violentata da una volontà e una prepotenza di espressione, di comunicazione,  che non mi lascia libera di scegliere e di riflettere.
detto questo, vere o no, le foto di Doisneau che ho visto alla Spazio Oberdan di Milano, mi sono piaciute molto. sono spiritose, divertenti, ironiche, spassose, leggere, allegre, superficiali e profonde.
vanno bene per me, per il mio spirito. sono comme il faut.
siamo a Parigi, "Paris en liberté", in un arco di tempo tra il '34 e il '91, c'è gente e mondo e strade e caricature e moda e macchine e mercati e strade e fotografi e giardini e Senna e bistrot e molte interessantissime facce.
c'è l'eterno bianco e nero, e a volte mi dico che il colore nella fotografia non serve proprio a niente, è stata un'invenzione assolutamente inutile. non so se lo penso veramente, ma ora penso che sia così.








venerdì 15 marzo 2013

Tancredi e Angelica

è chiaro che questo lunghissimo estratto da Il Gattopardo che religiosamente ripongo qui è per la mia gioia di lettrice, per la mia estasi letteraria, per il mio totale assoluto compiacimento di una lettura che ritengo superba, un omaggio alla bellezza, all'erotismo, alla sapienza. se solo qualcuno leggesse e si decidesse di prendere in mano lo stesso libro, o audiolibro, mi potrei ritenere più che soddisfatta.
ma anche in mancanza di questa evoluzione, mi basta sapere che questo capolavoro ha un suo posto qui.
intanto sono grata a quella creatura che mi ha consentito, grazie a un suo lavoro, di accedere al testo via internet e di ricopiarlo: chiunque sia e qualsiasi cosa stia facendo ora, grazie.
non vorrei perdermi troppo dietro a parole inutili, ma questo viaggio sensuale nei labirinti di una casa che sembra non avere confini, non finire mai, perdersi tra misteriosi spazi, luoghi oscuri e inquietanti, inneggianti la trasgressione o la punizione, questo rincorrersi, prima mostrandosi poi celandosi, dei due innamorati lungo stanze e corridoi che poi sfociano nell'incontro, che esaltano la passione senza mai consumarla, è una sublime metafora del desiderio, è erotismo sottile e più che consapevole, è il gioco dell'amore e del sesso, misterioso, mai svelato fino in fondo, che lascia sempre inesplorato un luogo oscuro che non si conosce, che fa paura, che non si vuole nè si può lambire. come dice Don Fabrizio, il protagonista altero e superbo di questa storia siciliana, "un palazzo del quale si conoscevano tutte le camere non era degno di essere abitato". un eros che non ha misteri non ha nessun valore, non è degno di essere abitato, consumato tutto -se mai fosse possibile- è vuoto e senza valore. è solo orgia di godimento, senza fine, senza pace, è pulsione di morte. 
con buona pace delle "sfumature" che tanto eccitano il mondo globalizzato ma alienato nell'uso comunitario di  un vibratore di plastica.

Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri,  quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, scalette, terrazzini e porticati, e soprattutto di una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano un intrico labirintico e misterioso. Tancredi non si rendeva conto (oppure si rendeva conto benissimo) che trascinava la ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale; ed Angelica, in quel tempo, voleva ciò che Tancredi aveva deciso. Le scorribande attraverso il quasi illimitato edificio erano interminabili; si partiva come verso una terra incognita, ed incognita era davvero perché in molti di quegli appartamenti e ripieghi neppure don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto gli era cagione di grande soddisfazione, perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscevano tutte le camere non era degno di essere abitato.
I due innamorati s'imbarcavano verso Citera su una nave fatta di camere cupe e di camere solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di relitti di mobilio eterogeneo. Partivano accompagnati da Cavriaghi o da mademoiselle Dombreuil (padre Pirrone con la sagacia del suo Ordine si rifiutò sempre a farlo), talvolta da tutti e due: la decenza esteriore era salva.
Ma nel palazzo di Donnafugata non era difficile di fuorviare chi volesse seguirvi: bastava infilare un corridoio (ve ne erano lunghissimi, stretti e tortuosi, con finestrine grigliate che non si potevano percorrere senza angoscia), svoltare per un ballatoio, salire una scaletta complice, e i due ragazzi erano lontani, invisibili, soli come su un'isola deserta. Restavano a guardarli soltanto un ritratto a pastello sfumato via e che l'inesperienza del pittore aveva creato cieco, o su un soffitto obliterato una pastorella subito consenziente. Cavriaghi del resto si stancava presto ed appena trovava sulla propria rotta un ambiente conosciuto o una scaletta che scendeva in giardino se la svignava, tanto per far piacere all'amico, come per andare a sospirare guardando le gelide mani di Concetta. La governante resisteva piú a lungo, ma non per sempre; per qualche tempo si udivano sempre piú lontani i suoi appelli mai corrisposti: Tancrèdi, Angelicà? Poi tutto si richiudeva nel silenzio striato solo dal galoppo dei topi al di sopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera centenaria dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento: pretesti per desiderate paure, per un aderire rassicurante delle membra. E l'eros era sempre con loro, malizioso e tenace; il gioco in cui trascinava i fidanzati era pieno di malia e di azzardi. Tutti e due vicinissimi ancora all'infanzia prendevano piacere al giocare in sé, godevano nell'inseguirsi, nel perdersi, nel ritrovarsi; ma quando si erano raggiunti i loro sensi aguzzati prendevano il sopravvento e le cinque dita di lui che si incastravano nelle dita di lei, nel gesto caro ai sensuali indecisi, il soave soffregamento dei polpastrelli sulle vene pallide del dorso, scombussolava tutto il loro essere, preludeva a piú insinuate carezze.

Una volta lei si era nascosta dietro un enorme quadro posato per terra; e per un po' Arturo Corbera all'assedio di Antiochia protesse l'ansia speranzosa della ragazza; ma quando fu scoperta, col sorriso intriso di ragnatele e le mani velate di polvere, venne avvinghiata e stretta, e rimase una eternità a dire: - No, Tancredi, no, - diniego che era un invito perché di fatto lui non faceva altro che fissare nei verdissimi occhi di lei i propri azzurri. Una volta, in una mattina luminosa e fredda, essa tremava nella veste ancora estiva: su di un divano coperto di stoffa a brandelli lui la strinse a sé per riscaldarla; il fiato odoroso di lei gli agitava i capelli in fronte; e furono momenti estatici e pensosi, durante i quali il desiderio diventava tormento, i freni, a loro volta, delizia.
Negli appartamenti abbandonati le camere non avevano né fisionomia precisa né nome; e come gli scopritori del Nuovo Mondo essi battezzavano gli ambienti attraversati, celebrandoli coi nomi delle scoperte reciproche. Una vasta stanza da letto nella cui alcova stava lo spettro di un letto adorno sul baldacchino da scheletri di penne di struzzo fu ricordata poi come la camera delle penne; una scaletta dai gradini di lavagna lisi e sbrecciati venne chiamata da Tancredi la scala dello scivolone felice. Piú d'una volta non seppero davvero dove erano: a furia di giravolte, di ritorni, di inseguimenti, di lunghe soste riempite di mormorii e di contatti perdevano l'orientamento e dovevano sporgersi da una finestra senza vetri per comprendere dall'aspetto di un cortile, dalla prospettiva del giardino, in quale ala del palazzo si trovassero. Talvolta però non si raccapezzavano lo stesso, perché la finestra dava non su uno dei grandi cortili ma su di un andito interno, anonimo anch'esso e mai intravisto, contrassegnato solo dalla carogna di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa mai se vomitata o buttata via; e da un'altra finestra li scorgevano gli occhi di una cameriera pensionata.
Un pomeriggio rinvennero dentro un armadio quattro carillon, di quelle scatole per musica delle quali si dilettava l'affettata ingenuità del Settecento. Tre di esse, sommerse nella polvere e nelle tele di ragno, rimasero mute; ma l'ultima, piú recente, meglio chiusa nell'astuccio di legno scuro, mise in moto il proprio cilindro di rame irto di punte, e le linguette di acciaio sollevate fecero ad un tratto udire una musichetta gracile, tutta in toni acuti, argentini: il famoso Carnevale di Venezia; ed essi ritmarono i loro baci in accordo con quei suoni di gaiezza disillusa; e quando la loro stretta si allentò si sorpresero nell'accorgersi che i suoni erano cessati da tempo e che le loro espansioni non avevano seguito altra traccia che quella del ricordo di quel fantasma di musica.
Una volta la sorpresa fu di colore diverso. In una stanza della foresteria vecchia si avvidero di una porta nascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette presto a quelle dita che godevano nell'incrociarsi e nel soffregarsi per forzarla: dietro, una lunga scala stretta si svolgeva in soffici curve con i suoi scalini di marmo rosa. In cima un'altra porta, aperta, e con spesse imbottiture disfatte; e poi un appartamentino vezzoso e strambo, sei piccole camere raccolte attorno ad un salotto di mediocre grandezza, tutte, e il salotto stesso, con pavimenti di bianchissimo marmo, un po' in pendio, declinanti verso una canaletta laterale. Sui soffitti bassi, bizzarri stucchi colorati che l'umidità aveva fortunatamente resi incomprensibili; sulle pareti grandi specchi attoniti, appesi troppo in giú, uno fracassato da un colpo quasi nel centro, ciascuno col contorto reggi-candele del Settecento. Le finestre davano su un cortile segregato, una specie di pozzo cieco e sordo, che lasciava entrare una luce grigia e sul quale non spuntava nessun altra apertura. In ogni camera ed anche nel salotto, ampi, troppo ampi divani che mostravano sulle inchiodature tracce di una seta strappata via; appoggiatoi maculati; sui caminetti, delicati, intricati intagli di marmo, nudi parossistici, martoriati però, mutilati da un martello rabbioso. L'umidità aveva macchiato i muri in alto ed anche forse, in basso, ad'altezza d'uomo, dove essa aveva assunto configurazioni strane, inconsueti spessori, tinte cupe.

Tancredi, inquieto, non volle che Angelica toccasse un armadio a muro del salotto: lo schiuse lui stesso. Era profondissimo ma vuoto, tranne che per un rotolo di stoffa sudicia, ritto in un angolo; dentro vi era un fascio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con manichi in argento, altri rivestiti sino a metà da una graziosa seta molto vecchia, bianca a righine azzurre, sulla quale si scorgevano tre file di macchie nerastre: ed attrezzini metallici, inspiegabili. Tancredi ebbe paura, anche di sé stesso: - Andiamo via, cara, qui non cè niente d'interessante. Richiusero bene la porta, ridiscesero in silenzio la scala, rimisero a posto l'armadio; e tutto il giorno, poi, i baci di Tancredi furono lievissimi, come dati in Sogno ed in espiazione.
Dopo il Gattopardo, a dire il vero, la frusta sembrava essere l'oggetto piú frequente a Donnafugata. L'indomani della loro scoperta dell'appartamentino enigmatico, i due innamorati s'imbatterono in un altro frustino. Questo in verità non era negli appartamenti ignorati, ma anzi in quello, venerato, detto del Duca-Santo, dove a metà del Seicento un Salina si era ritirato come in un convento privato, ed aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Cielo. Erano stanze ristrette, basse di soffitto, con l'ammattonato di umile creta, con le pareti candide a calce, simili a quelle dei contadini piú derelitti. L'ultima dava su un poggiuolo dal quale si dominava la distesa gialla dei feudi accavallati ai feudi, tutti immersi in una triste luce. Su di una parete un enorme crocifisso, piú grande del vero: la testa del Dio martoriato toccava il soffitto, i piedi sanguinanti sfioravano il pavimento: la piaga sul costato sembrava una bocca cui la brutalità avesse vietato di pronunciare le parole della salvezza ultima. Accanto al cadavere divino pendeva giú da un chiodo una frusta col manico corto, dal quale si ripartivano sei striscie di cuoio ormai indurito, terminanti in sei palle di piombo grosse come nocciole. Era la disciplina del Duca-Santo. In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le goccie del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle: nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne, come si dice. Invece le zolle erano sfuggite, e molte di quelle, che da lassú si vedevano, appartenevano ad altri, a don Calogero anche: a don Calogero, cioè ad Angelica, quindi al suo futuro figlio.
L'evidenza del riscatto attraverso la bellezza, parallelo all'altro riscatto attraverso il sangue, diede a Tancredi come una vertigine. Angelica inginocchiata baciava i piedi trafitti di Cristo. - Vedi, tu sei come quell'arnese lí, servi agli stessi scopi. E mostravala disciplina; e poiché Angelica non capiva ed alzato il capo sorrideva, bella ma vacua, lui si chinò e cosí genuflessa com’era le diede un aspro bacio che la fece gemere perché le ferí il labbro e le raschiò il palato. I due passavano cosí quelle giornate in vagabondaggi trasognati, in scoperte d'inferni che l'amore poi redimeva, in rinvenimenti di paradisi trascurati che lo stesso amore profanava. Il pericolo di far cessare il gioco per incassarne subito la posta si acuiva, urgeva per tutti e due; alla fine non cercavano piú, ma se ne andavano assorti nelle stanze piú remote, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state: solo invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano lí tutti e due stretti ed innocenti, a compatirsi l'un l'altro. Le piú pericolose per loro erano le stanze della foresteria vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna col suo bel letto dalle materassa arrotolate che un colpo della mano sarebbe bastato a distendere... Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto:
- Sono la tua novizia, - richiamando alla mente di lui, con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri che fosse corso fra loro; e già la donna resa scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l'uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sorriso.
 Si ripresero, e l'indomani Tancredi doveva partire.


mercoledì 13 marzo 2013

educazione siberiana

mi piace moltisssssssimo questa definizione, il titolo.
l'abbinamento tra un sostantivo che fa riferimento a un concetto formativo, come l'educazione, 
con un aggettivo che ha risonanze lugubri, gelide e ostili, come siberiana.
mi domando se ogni tipo di educazione abbia caratteristiche siberiane.
l'educazione ha un costo, per chi la somministra e per chi la riceve.e se non si passa da questo giogo, da questa prova, da questa dettatura della legge, si paga ancora di più, educatore ed educando.
quindi mi convinco che l'educazione potrebbe essere definita siberiana sempre, anche quando non è coercitiva violenta o punitiva ma semplicemente sana e necessaria.
tutti coloro che sono stati educati, in siberia ci sono passati comunque, per poi tornare al clima mediterraneo della liguria, alla focaccia di Recco e ai tuffi in mare a Camogli, ormai posti nella configurata condizione di godersi la vita nei giusti e rispettosi limiti che l'educazione impone. mettiamola giù così.

Il film di Salvatores, che, almeno foneticamente, sembrerebbe già essere diventato un oggetto di consumo tanto quanto il libro del 2009 del russo Nicolai Lilin di da cui è tratto (ci sono anche già riduzioni teatrali), è un film vedibile, che lascia intendere però la sua conclusione già a metà proiezione, che ha il grande pregio di un titolo accattivante (può bastare?), di alcune massime lodevoli e di un nonno siberiano, un credibilissimo John Malkovich, trapiantato in Moldova (o Moldavia), che elargisce criteri educativi, appunto, discutibili su un piano formale (trattasi di onesti criminali) ma ineccepibili su un piano morale. la ferocia si alterna alla generosità, il crimine con la morale e l'onore di appartenere a una comunità regolata da categorie ferree, inderogabili.
si può ammazzare ma non tutti, va da sè solo i cattivi gli oppressori i russi bastardi la polizia, non si fa entrare denaro in casa, non ci si droga, non si fa violenza sulle donne, non si eccede nel possesso (non si può possedere più di quanto il cuore possa amare, così pare) ma si può ammazzare crudelmente chi sgarra e trasgredisce (le regole vanno rispettate, giusto?) e si può rubare, si rispettano i folli come "voluti da dio", ci si scrive sul corpo tatuaggi come messaggi del codice d'onore, del linguaggio di appartenenza alla comunità.
il film, magari anche il libro, è tutto qui, secondo me: nell'ambigua oscenità dell'ossimoro.

martedì 12 marzo 2013

La felicità è abitare il proprio desiderio, non è un'orgia di godimento. E come tale è raggiungibile, è il vero fine di un'analisi.

un'amica psicoanalista -lacaniana- , per motivi che non so, oggi mi manda questo estratto di un'intervista tratto da un blog della scuola di psicoanalisi lacaniana di Rimini.
forse pensa alla mia infelicità -perchè di questo tratta l'intervista, la felicità di una donna, cosa vuole una donna-, o forse alla sua, ma più probabilmente alla mia pur non sapendone assolutamente niente.
deve essere che gli psicoanalisti vedono oltre quel che si dice e che si suppone di sapere, probabilmente basta guardarmi in faccia per sapere che sono infelice, e voilà la mail, nemmeno una riga di presentazione.
Luisella Brusa, l'intervistata, so molto bene chi è, la vedo spessissimo alla scuola lacaniana di psicoanalisi, la sento parlare a lezione e ai congressi, e lo posso dire senza vergognarmi, non sempre la capisco.
parla difficile, occulto, complesso, quel linguaggio lacaniano che a volte mi va di traverso per quella perversità della sua incomprensibilità. eppure ci sono dei lacaniani che parlando mi fanno godere -e attenzione la parola godimento in psicoanalisi non ha il significato stretto di eccitamento fisico che si intende abitualmente ma alla fin fine si riferisce poi a quello, alla pratica del reale che insegue il nostro fantasma e ci fa piacere pur perpetuando il nostro stare male, il sintomo è godimento- ed è un peccato che non tutti si rendano altrettanto avvicinabili. a me.
Luisella Brusa è sempre elegante, ed è francamente bella, è misteriosa, è una psicoanalista in senso stretto. è chiaro che in queste poche righe si sforza molto di farsi capire, e, finalmente, la capisco.
è un tale sollievo, anche alla mia ignoranza, è un tale piacere capire, è un tale piacere sentirsi parte di un discorso che si condivide che non posso che metterlo qui a casa mia. me ne approprio.

INTERVISTA A LUISELLA BRUSA EFFETTUATA DALLA SEGRETERIA DELLA S.L.P. DI RIMINI IN OCCASIONE DELLA CONFERENZA PUBBLICA DEL 19 NOVEMBRE 2010
"Che vuole la donna?" Commedia e drammi della differenza sessuale alla ricerca della felicità. relatore: Luisella Brusa

IL SUO TITOLO RIPRENDE L'ENIGMA-SCOGLIO A CUI E' ARRIVATO IL PERCORSO FREUDIANO, CIOE': “CHE VUOLE UNA DONNA?” la psicoanalisi ha fatto dei passi avanti al riguardo?
Assolutamente sì. Possiamo dire che la psicoanalisi sorge con il sorgere di questa stessa domanda "Che vuole la donna?", quesito che Freud ha estratto dall'inconscio e ha formulato a chiare lettere. E' un quesito prettamente moderno, che appare con la frattura che la modernità introduce nella tradizione ebraico cristiana, la nostra. E' stato Lacan ad aver storicizzato il quesito di Freud e ad aver risolto l'enigma. La psicoanalisi, l'esperienza psicoanalitica di ciascuno, se portata fino in fondo, conduce alla soluzione del quesito. 
LA FELICITA'... MOLTI LA PROMETTONO. COSA NE PENSA LA PSICOANALISI? E' UN TRAGUARDO RAGGIUNGIBILE?
La psicoanalisi non la promette, è la sua differenza rispetto alle psicoterapie del mercato. Per contro si può tranquillamente dire che la raggiunge. Il percorso intermedio, che è quello di una 'analisi, trasforma radicalmente le componenti chimiche della felicità. Che inizialmente è impossibile perchè è composta da una miscela esplosiva, più il soggetto pensa dia avvicinarvisi e più soffre, e ciò è dovuto a quella che la psicoanalisi chiama la pulsione di morte. Con un'analisi la chimica soggettiva - mantengo questa metafora che rende bene l'idea - cambia. La componente di pulsione di morte si alleggerisce e il soggetto può arrivare alla sua meta, che nel frattempo ha cambiato miscela, non è più esplosiva, è alleggerita, è svuotata, è divenuta ciò che Lacan indica con il nome di desiderio. La felicità è abitare il proprio desiderio, non è un'orgia di godimento. E come tale è raggiungibile, è il vero fine di un'analisi. 
ESISTE UNA DIFFERENZA SESSUALE CHE RIGUARDA LA RICERCA DELLA FELICITA'?
L'amore, la coppia, il matrimonio, il divorzio, il rimatrimonio, sono tutti tentativi, a volte maldestri, che i soggetti fanno per cercare la felicità a partire dalla differenza sessuale. La solitudine e la mancanza che marcano ciascuno di noi nella sua posizione sessuata, ci fanno cercare un balsamo nell'altro. E' una ricerca legittima, se la strada è ricca di incidenti è per via della domanda da cui siamo partiti, "Che vuole una donna?", una domanda che in questa ricerca della felicità funziona come fonte di angoscia e come punto di smarrimento, per le donne altrettanto che per gli uomini, una domanda accecante che fa accettare condizioni di infelicità anche grande nelle relazioni, in nome del fantasma con cui ciascuno risponde inconsciamente all'enigma.
(da: http://slprimini.blogspot.it/2010/11/intervista-luisella-brusa-effettuata.html)

"l'inconscio non è che l'essere pensa, l'inconscio è che l'essere, parlando, gode, e, aggiungo, non vuole saperne di più. Aggiungo anche che questo vuol dire "non sapere assolutamente niente". 
J. Lacan, Il Seminario XX, Ancora.

martedì 5 marzo 2013

leggere

dagli Ucria ai Salina, ma 100 anni dopo.
Sicilia, aristocrazia sfarzosa ma corrotta, ricchezza molle e pigra, lussi e privilegi inalterati nel tempo, corrosi solo dalla luce, assoluto sovrano della Sicilia dice Tomasi di Lampedusa, e dal vento marino. "lasciamo che tutto cambi, se vogliamo che tutto rimanga com'è".
siamo ne Il Gattopardo, lo legge Toni Servillo e io sono a teatro, comoda e goduta, ad ascoltare per ore ed ore.
fantastico emozionante sensazionale.
nel frattempo leggo su carta Henry James, Giro di vite.
un altro pianeta, ovviamente, ma questa è la lettura, viaggiare in mondi che non ci appartengono ma di cui possiamo esplorare gli spazi. e magari desiderare di esserci.
lo avevo già letto, molti anni fa, ma lo rileggo per motivi di studio.
mi sono iscritta a un corso di scrittura creativa, il sabato pomeriggio, per non farci mancare niente, soprattutto il mio lamentio costante e immutabile che non c'è tempo per fare tutto.
leggo il testo che verrà, poi, decostruito e analizzato a lezione.
bene, imparerò scrivere, o meglio a scrivere un romanzo che non ho intenzione di scrivere, e, soprattutto, avrò altre scuse per leggere al posto di vivere.

ma non scriverò mai così:
Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, in fondo era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibilmente piene di agguati, sembravano ammassi di vapori sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata attorno ai conventi come un gregge al piede dei pastori. Nella rada le navi straniere all'ancora, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma maestosa. Il sole, che tuttavia era ben lontano dalla massima sua foga in quella mattina del 13 maggio, si rivelava come l'autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano dell'arbitrarietà dei sogni.


lunedì 4 marzo 2013

Abolire la schiavitù determinerà il destino dei milioni di individui adesso in catene e dei milioni non ancora nati

Lincoln: mio capitano o mio capitano, declamava Walt Whitman nel 1865.

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto, 
La nostra nave ha rotto tutte le tempeste: abbiamo conseguito il premio desiderato. 
 Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta. 
Mentre gli occhi seguono la salda carena, 
La nave severa ed ardita. 

Ma o cuore, cuore, cuore, 
O stillanti gocce rosse 
Dove sul ponte giace il mio Capitano. 
Caduto freddo e morto. 

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane. 
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba; 
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano; 
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i cupidi volti. 

Qui Capitano, caro padre, 
Questo mio braccio sotto la tua testa; 
È un sogno che qui sopra il ponte 
Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate; 
Il mio padre non sente il mio braccio, 
Non ha polso, né volontà; 
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto. 

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito, 
Esultino le sponde e suonino le campane! 
Ma io con passo dolorante 
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

l'ho visto, al cinema, "Lincoln" di Spielberg, e mi sono annoiata a tratti, pur apprezzando alcuni aspetti cinematografici che potrei definire accattivanti.
un aspetto che mi ha affascinato, e resa sopportabile quel po' di noia che mi ha colto, è la voce di Lincoln, la voce italiana del doppiaggio. è Pierfrancesco Favino a doppiarlo, con questa voce inaspettata, particolare, questo intervenire nel discorso discontinuo, questa specie di spezzatura nel tono. la voce è un tratto personalissimo unico, inequivocabile, quello adottato per Lincoln in questo film ha sicuramente il suo fascino, delinea un personaggio anomalo, lucido ma sofferente, geniale ma fortemente in conflitto, quieto ma a tratti stizzoso.
so che sono l'unica a sostenerlo, l'interpretazione di Favino è stata stroncata ovunque, pare che in confronto alla voce di Daniel Day Lewis ci sia un abisso intollerabile.
le scene del film sono tendenzialmente buie, o io mi ricordo solo quelle?, descrivono una Casa Bianca che potrebbe essere una casa di campagna, le cucine sporche che somigliano più a delle cantine, le stanze in legno alle sale di una fattoria. è un'America agli albori, un'America grezza, contadina, eppure emerge evidente un'aura di solennità, di luoghi universali della storia, quasi mitici. nelle riunioni private o nelle sessioni pubbliche, segretari, funzionari, senatori mi sono sembrati dei dell'olimpo, con barbe lunghe argentate, capelli lunghi e ricci e selvaggi, corporature imponenti e maestose, come figure mitologiche che appartengono alla storia del mondo.
ora, in verità, la storia della liberazione dalla schiavitù del popolo nero d'America mi colpisce solo fino a un certo punto, ed è probabilmente per questo che il film mi è piaciuto solo fino a quel certo punto, ovvero quello descritto sopra, penso che la storia americana abbia fatto e faccia tuttora schiavi in tutto il mondo, francamente non ci saranno più state catene in patria -ma sappiamo molto bene che l'uguaglianza dei neri è tardata molto a venire, forse è arrivata solo con Barack Obama presidente-  ma per gli ospiti stranieri ci sono Guantànamo e le guerre di conquista nel mondo. profeticamente quel che si è verificato nella guerra di secessione si è poi ripetuto per tutta l'intera storia dell'America, intraprendere e proseguire ad oltranza guerre sanguinarie sostenute dalla delirante e arrogante e onnipotente convinzione di portare la libertà nel mondo; quel che ha fatto Lincoln, di proseguire lo stato di guerra con ulteriori massacri per ottenere l'approvazione di un mandato altrimenti non proponibile in condizioni di pace, mi sembra una dannazione di non poco conto, una modalità che poi si è ripresentata nella storia d'America, fare morti per portare libertà. 
giusto ieri mi è venuto incontro, leggendo la Lettura del Corriere della Sera, un bell'articolo di Giulio Giorello, che fa un parallelismo davvero intrigante tra la posizione di Darwin e quella di Lincoln -contemporanei-, tra il film di Spielberg e quello di Tarantino. ne riporto alcuni tratti.


...Darwin, ai tempi eroici in cui era tornato dal viaggio intorno al mondo, aveva annotato: «Gli animali — quelli che abbiamo reso nostri schiavi — non ci piace considerarli nostri uguali. I padroni di schiavi non vorrebbero forse attribuire l’uomo negro a un altro genere?». La biologia non è affatto d’ostacolo all’eguaglianza degli esseri umani di fronte alla legge. Ma per spingere gli schiavisti del Sud degli Stati Uniti a rinunciare alla loro «peculiare istituzione» non poteva bastare quel fucile «nell’arsenale del liberalismo» che era il pensiero darwiniano (come l’aveva definito l’amico Thomas Huxley), ma erano stati necessari i cannoni del generale Grant. Darwin era nato il 12 febbraio 1809, lo stesso giorno di Abraham Lincoln. Non è solo coincidenza. L’emancipatore degli schiavi e il teorico dell’eguaglianza delle «razze» hanno avuto gli stessi nemici, anche se non lo stesso destino: quei tenaci negazionisti, potremmo dire con il linguaggio odierno, che rifiutano insieme le origini comuni del genere umano e la sua parentela con ogni altra specie vivente. Uno stile assai simile unisce al «lungo ragionamento» di Darwin l’arte oratoria di Lincoln, come ha sottolineato Adam Gopnik nella sua doppia biografia, Il sogno di una vita. Lincoln e Darwin. L’avvocato del Kentucky, la cui elezione a presidente aveva innescato la secessione sudista, faceva dell’argomentazione giuridica il perno di quella che noi chiamiamo oggi «civiltà liberale» (di cui l’altro fondamento è l’impresa tecnico-scientifica). 
.... 
Anche Lincoln è un eroe libertario alla Stuart Mill, reso ancor più umano da quella cognizione del dolore che lo accompagna per tutti i tormentati anni del conflitto. Questo tratto, a parte qualche inesattezza storica qua e là, è ben colto dallo stesso Spielberg: quando sul finire della guerra il presidente dell’Unione riceve la delegazione sudista alla ricerca del compromesso, guidata dal vicepresidente dei «ribelli» Alexander Stephens (ottimamente reso da Jackie Earle Haley nel film), si trova di fronte a uno dei quesiti chiave della democrazia: può la «città liberale» sopravvivere se proprio per salvarla si ricorre a una violenza che va oltre le garanzie democratiche? Non è stato questo il problema di molti presidenti americani costretti all’eccesso di forza e nel contempo consapevoli del carattere tragico di tutto ciò, per la causa stessa della libertà? Dal Truman di Hiroshima al Johnson del Vietnam, fino alle guerre di Obama oggi. L’attuale presidente degli Stati Uniti ha un credo politico che si riaggancia esplicitamente alle parole con cui Lincoln, sul campo di battaglia di Gettysburg, aveva giustificato tanto sangue affinché «il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo non scomparisse dalla faccia della Terra». Obama avrebbe il diritto di citare anche un’altra battuta di Lincoln, ovvero l’elogio di tutti quegli «uomini neri i quali ricorderanno, quando sarà arrivata la pace, che in silenzio, denti serrati e occhio fermo, e con l’arma ben impugnata, hanno aiutato l’umanità» a raggiungere un maggior livello di giustizia e libertà. 
Django di tutto il mondo, unitevi!

venerdì 1 marzo 2013

Io nel mio maggior conforto sono assalita d’un sospetto interno, che mi tien sempre il cor fra vivo e morto

Il brigantino si muove appena dondolandosi sull’acqua verde. Davanti, a ventaglio, la città di "Paliermu": una fila di palazzi grigi e ocra, delle chiese grigie e bianche, delle stamberghe dipinte di rosa, dei negozi dai tendoni a strisce verdi, le strade delle «balati» sconnesse in mezzo a cui scorrono rivoli d’acqua sporca […] Ora il brigantino è agiato da scosse lunghe e nervose. Le vele sono issate: la prua si dirige decisamente verso l’alto mare. Marianna si appoggia con tutte e due le mani alla balaustra laccata mentre Palermo si allontana con le sue luci pomeridiane, le sue palme, le sue immondizie spinte dal vento, la sua forca, le sue carrozze. Una parte di lei rimarrà lì, su quelle strade inzaccherate, in quel tepore che sa di gelsomini zuccherati e di escrementi di cavallo


nella grave costernazione di queste mattine - vogliamo parlare di politica o governabilità, frustrazioni lavorative familiari personali? posso davvero pescare in moltissime tasche di povertà di spirito, ne sono fornitissima - ho finito di ascoltare il romanzo di Dacia Maraini, la storia di Marianna.

una cosa buona in questa giornata avvilente.
l'ultimo capitolo sarebbe da leggere in classe ai nostri ragazzi, a scuola, povera scuola derelitta, per bellezza narrativa, per l'impiego di un italiano superbo, per la densità concettuale, per la verità di cui si fa portatore.
purtroppo non lo ritrovo da nessuna parte, l'ho cercato e ricercato, questo bellissimo brano letterario, ma non riesco a pubblicarlo qui a sostegno del mio entusiasmo.
termina con una riflessione nella mente di Marianna, ricca e feconda di pensiero, che si chiede quale sia il suo posto, il suo luogo: quello da cui proviene, che può ormai vivere e svilupparsi anche senza di lei, che può lasciarsi alle spalle perché proceda in una direzione propria, da lei ormai del tutto autonoma e indipendente, o quello a cui tende, quello nuovo da esplorare, ora che ha conosciuto anche la bellezza arricchente del viaggiare?
ma naturalmente la risposta, Marianna non la trova.
Ma la voglia di riprendere il cammino è più forte. Marianna ferma lo sguardo sulle acque giallognole, gorgoglianti e interroga i suoi silenzi. Ma la risposta che ne riceve è ancora una domanda. Ed è muta.
forse ora capisco perchè la vita di Marianna è, nel titolo, la lunga vita. perchè Marianna si interroga di una domanda mai stanca, mai satura, eterna.
un applauso.

nel romanzo, a un certo punto, Marianna nomina una poetessa, a me prima sconosciuta, ma la cui citazione, al momento dell'ascolto, mi ha ricordato qualcosa. Gaspara Stampa. ed eccola! l'ho intravista nella mia rivista Poesia, nell'uscita di gennaio in cui sono stati citati e celebrati 100 poeti italiani. 
al momento l'ho ignorata. chi è?
una poetessa del 1500, nata a Padova, ardita e colta, fiera e innamorata.
ho ritrovato i tratti in cui viene citata nel libro e riporto le due poesie che la legano a Marianna, entrambe impegnate in un dialogo mai concluso con l'amore.

Quando talvolta il mio soverchio ardore
m’assale e stringe oltra ogni stil umano,
userei contra me la propria mano,
per finir tanti omai con un dolore.
Se non che dentro mi ragiona Amore,
il qual giamai da me non è lontano:
- Non por la falce tua ne l’altrui grano:
tu non sei tua, tu sei del tuo signore,
perché dal dì, ch’a lui ti diedi in preda,
l’anima e ’l corpo, e la morte e la vita
divenne sua, e a lui conven che ceda.
Sì ch’a far da te stessa dipartita,
senza ch’egli tel dica o tel conceda,
è troppo ingiusta cosa e troppo ardita.

Amor, lo stato tuo è proprio quale
è una ruota, che mai sempre gira,
e chi v’è suso or canta ed or sospira,
e senza mai fermarsi or scende or sale.
Or ti chiama fedele, or disleale;
or fa pace con teco, ed or s’adira;
ora ti si dà in preda, or si ritira;
or nel ben teme, ed or spera nel male;
or s’alza al cielo, or cade ne l’inferno;
or è lunge dal lido, or giunge in porto;
or trema a mezza state, or suda il verno.
Io, lassa me, nel mio maggior conforto
sono assalita d’un sospetto interno,
che mi tien sempre il cor fra vivo e morto.