bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 9 maggio 2013

cosa fare del resto che si è

sabato e domenica, 11 e 12 maggio, c'è il convegno della scuola lacaniana di psicoanalisi.
ci vado, e spero di capire.
quel che capisco per ora è che ciò di cui si parla mi riguarda così da vicino che quasi mi fa paura.
l'irriducibile resto del godimento mortifero è una roccia che non si scardina, c'è solo da aggirarla, come altri meglio di me scrivono in preparazione del congresso. 
li riporto, leggendoli e rileggendoli, perchè la psicoanalisi resta e rimane e permane un mio grande sogno e desiderio.

Nel 1920, nel saggio Al di là del principio di piacere, Freud affronta proprio il punto relativo all’Io e a qualcosa particolarmente paradossale che l’Io del soggetto attua. Dall’analisi che ne fa, giunge ad una nuova ed ulteriore elaborazione metapsicologica, modificando per la terza volta la sua teoria delle pulsioni. Dopo anni di esperienza, Freud è costretto a domandarsi come mai, tutti i pazienti, durante il lavoro di analisi, mettono in atto delle resistenze contro l’analisi medesima. Come mai i soggetti che giungono dall’analista con una domanda di cura, che si lamentano delle sofferenze che i propri sintomi infliggono loro, che trascorrono una vita fatta d’inibizioni, angosce, limitazioni, ad un certo punto e reiteratamente lungo l’analisi, mettono in atto degli agiti che si traducono in resistenze all’analisi ostacolando il suo avanzamento? Ciò che l’analista constata è che l’analizzante agisce, nella relazione con lui, le medesime modalità sintomatiche di legame che lo hanno portato in analisi. Chi si lamenta di essere sempre maltrattato, ad esempio, agisce dei comportamenti tali per cui si farebbe maltrattare dall’analista. È chiaro che l’analista non risponde precisamente in questo modo, ma è fondamentale che l’analista si giochi lì la partita cruciale dell’analisi e che ne tenga conto nel modo in cui risponderà nei momenti in cui l’analizzante, nel transfert, metterà in atto gli stessi meccanismi autodistruttivi che mette in atto ogni volta nella sua vita. Freud aveva considerato, fino a quel momento, che l’apparato psichico tendesse prevalentemente al piacere, cercando di evitare le situazioni che potessero essere fonte di dispiacere. In tal senso, le richieste pulsionali non possono che recare dispiacere, destabilizzazione, andando in un verso del tutto diverso rispetto ad uno stato di quiete, voluto dall’Io. Per non aver a che fare con tali richieste l’Io mette in atto una difesa, che gli consente di intraprendere quella che si presenta come la strada più comoda, più consona a se stesso, alla sua stoffa e che, contemporaneamente, sembra esigergli, nell’immediato, meno lavoro. Come spiegare, però, alla luce del principio di piacere l’istaurarsi, nell’analisi, delle resistenze? Nel saggio del 1920, Freud giunge ad una rivoluzionaria conclusione teorica, che sarà relegata ad un secondo piano dalla maggior parte degli analisti post-freudiani, ma che sarà ripresa da Lacan, dandole un luogo fondamentale nella teoria e nella clinica. Ciò che conclude Freud è che l’esperienza clinica della resistenza, così come altre, sia l’espressione di una coazione a ripetere che non è prodotto della libido. Occorre pertanto dedurre che sia presente nel soggetto umano un altro genere di pulsione, non sessuale, ma distruttiva, di morte. Ecco che Freud giunge alla sua terza ed ultima teoria pulsionale: c’è Eros, la pulsione di vita, il cui fine è il legare e Thanatos, la pulsione di morte, il cui fine è la distruzione. Da questo punto di vista, in realtà, i poli piacere-dispiacere vanno rivisti. La questione in gioco per il soggetto non è più quella di ottenere piacere o dispiacere di per sé. La questione è che in ogni soggetto c’è Eros ed anche Thanatos e che il piacere è al servizio della pulsione di morte. Come colloca Freud la pulsione di morte in relazione alla fine dell’analisi? La pulsione non va liquidata, ma imbrigliata, ci dice Freud. Non si tratta, dunque, di eliminarla (come cerca di fare l’Io, mettendo in atto una difesa); l’analisi non ha la finalità di cancellare la pulsione. L’analisi, per Freud, ha la funzione di rettificare il processo di rimozione. Salviamo la pulsione e salviamo anche l’Io; ciò non significa però che alla fine dell’analisi entrambi non abbiano subito delle importanti modificazioni. Li salviamo in modo tale che la prima sarà ben incanalata e potrà essere al servizio della soddisfazione del soggetto, ed il secondo avrà esaurito tutti i modi in cui metteva in atto la sua difesa espulsiva in relazione al soddisfacimento pulsionale ed in relazione a tutto ciò che gli rammentava tale soddisfacimento, a partire dal fatto che appariva Altro da sé. Alla fine, l’ultimo atto espulsivo sarà nei confronti del proprio modo di espellere. L’analisi non può essere finita se l’Io del soggetto non ha accettato, definitivamente, di accogliere che c’è l’Altro da sé, modo in cui il non rapporto strutturale si manifesta. Alla fine dell’analisi il soggetto constata che l’alternativa è trovare ogni volta un modo di fare con ciò. Questo può essere un altro modo di dire della rettifica del processo di rimozione. Infine, per Freud e per Lacan, alla fine dell’analisi rimangono delle manifestazioni residue, dei residui pulsionali. Non tutto il pulsionale può essere metabolizzato dal simbolico, vi è un resto che ciascuno avrà trovato il modo di bordare. Che c’è Thanatos vuol dire che c’è dell’indicibile in modo irriducibile. Questo non può essere modificato; ciò che sì può cambiare con l’analisi è il rapporto di ciascuno ad un indicibile. Accettarlo realmente ci consente di trovare delle soluzioni possibili ogni qualvolta esso si presenti.





Cosa fare del resto che si è
Giovanna Di Giovanni

 All’inizio dell’analisi è l’angoscia, che viene a velare lo scompensarsi del sintomo. Lacan dice che il soggetto si rivolge all’analista affinché gli sveli il perchè del suo malessere, nella speranza che “il fatto di comprendere non lo libererà soltanto dall’ignoranza, ma dalla sofferenza stessa. “ ( Lacan, Sem. VII,p. 11 ) La richiesta infatti rivolta all’analista è di felicità, dicono Freud e Lacan, , ma se l’analista “ si fa garante che il soggetto possa in qualche modo trovare il suo bene nell’analisi è una sorta di truffa. “ (Lacan, Sem VII, p.380) Ciò che infatti l’essere umano, l’analizzante, ritrova non è il bene a cui anela, ma piuttosto la traccia con cui il significante eternizza la nostalgia per l’oggetto da sempre perduto. Scoprirà così la derelizione solitaria, il nucleo di reale insondabile di fronte al quale anche l’angoscia è un riparo e la realtà stessa una difesa. Lacan interroga anche la posizione dell’analista, che “accoglie il supplice, nella sua domanda di non soffrire, almeno non soffrire senza comprendere” ( Lacan, Sem. VII , p. 11), indicando la posizione “ impossibile” come quella del “santo”. E tuttavia, Lacan ,come già Freud, sottolinea che nel transfert, nell’andata e ritorno dell’elaborazione del fantasma, il sapere lascia intravedere il godimento irriducibile. Oltre il velo, a tratti, emergente negli attimi di vacillazione dell’essere, appare la roccia, contro cui infrangersi oppure intorno alla quale, come intorno a una sorta di boa con un misterioso ancoraggio nell’ imperscrutabile fondo dell’essere, condurre la navigazione della vita. Si può dire , in certo senso, sia questo il passaggio dell’irriducibile resto da Freud a Lacan, come servirsi di ciò che non si può traversare. Lasciando tutti gli Ideali a cui di volta in volta si era identificato , anche quello che gli è apparso nell’analista, il soggetto arriverà a scoprire che l’oggetto ha un nucleo di scarto e che lui stesso è tale, un reale liberato dal senso ( JA Miller, Un grande disordine nel reale, nel XXI° sec.), da mettere in gioco nell’estemporeneità più totale. L’analisi infatti accompagna il soggetto sulla soglia dell’azione, oltre ogni Ideale, per fare qualcosa di ciò che egli è, perchè si faccia egli stesso strumento per lavorare la mancanza che lo abita, che è al cuore dell’essere, nell’incontro ogni volta casuale, contingente. ( Lacan, Sem. XX) Tale percorso è tanto più necessario per l’analizzante nel suo passaggio ad analista, al di là dell’accomodamento trovato col sintomo, per fare del suo nucleo di reale la bussola con cui orientarsi nel discorso del paziente, non certo per proporre un’identificazione immaginaria ad una ancora ideale normalità , ma invece paradossalmente per coglierne la singolarità irriducibile. Questo, nella responsabilità solitaria che l’autorizzarsi da se stessi non diminuisce, ma rende anzi incommensurabile. 


Sapere o non sapere? Questo è il problema
Cristiana Santini

Dopo aver sondato tutto il dicibile, aver creduto che si trattasse di saperne di più, aver sperato nella conoscenza, nella sapienza, alla ricerca della “verità”, si giunge all’incontro con il reale. Con emozione, finalmente capisci di cosa si tratta, di cosa stavano parlando, ma la gioia dura poco perché a quel punto vedi la melma soffocante in cui sei immerso. Sono le tue parole, le loro parole, sono tutte le storie che mandano avanti le vite di ciascuno, in un determinismo agghiacciante. Improvvisamente, ti sembra di poter prevedere le mosse tue e degli altri, è tutto mortalmente scontato, proprio come ti raccontava il più intelligente fra i tuoi pazienti “difficili”. Tu hai dovuto fare una analisi per arrivare “lì dove lui è nato”, come soleva dire. Lui aveva dovuto costruire qualcosa, che gli permettesse di sopportare quel vuoto dell’essere che, se ci guardi dentro, ti risucchia. Aveva dovuto imparare il gioco del “fare come se”, accettare di essere un po’ dupe, di lasciarsi un po’ ingannare dal linguaggio, per non essere schiacciato dalla sensazione di non trovare un senso, che gli permettesse di vivere. L’analisi mostra la banalità della vita, la sua inconsistenza. Tutta la tragicità, con cui avevi cercato di darle dignità, rivela la sua natura teatrale. I resti di questo smantellamento sono carcasse vuote, che costellano un deserto dalla luce accecante, in cui non c’è più niente da scoprire, nessuna verità. Sei affranto, solo e spossato. Poi, succede qualcosa, se decidi che succeda. Quell’incertezza, quell’assenza di senso, mancanza di riferimenti logici e numerabili, quel tempo che non è più successione di attimi, ma uno stare, che cancella e riassume ogni volta ciò che non è più, tutto questo diviene possibilità. Di nuovo, l’opposto di quanto descriveva un’altra paziente “difficile”, molto intelligente (sono spesso intelligenti): “solo quando ho smesso di oppormi alle definizioni altrui, ho accettato i nomi che mi fornivano, ho potuto veramente contrastarli, non subirli più, permettermi il mio metodo”. Nella nevrosi, solo quando si rinuncia alle definizioni, alla verità che si suppone nascosta nel senso, si crea un vuoto che produce un movimento vitale, creativo, al di fuori del sapere, che finora era comunque dell’Altro, della struttura. E’ il famoso “farne a meno a condizione di servirsene” che, nella psicosi, si potrebbe declinare in “accettarlo a condizione di non crederci”. La ricerca di sapere all’interno della logica del senso, del sistema significante, rimane dell’ordine del saputo; come dire che si tratta di far emergere qualcosa che c’è, che ti sa, che ti parla. Oltre, c’è un sapere che ha a che fare con il reale: si tratta di un atto creativo, sapere è saperne sulle condizioni stesse dell’essere, è dell’ordine dell’esperire intrecciato con l’agire, un farsi carico, prendersi la responsabilità della propria esistenza perché si trasformi in una vita possibile. Questo sapere o non sapere corrisponde all’essere o non essere scespiriano. Un atto in grado di riportare la parola alla sua funzione di segno, traccia, marchio oltre l’illusione ipnotica del senso. 

Il resto come cardine nel passaggio da analizzante ad analista 
 Domenico Cosenza 

 “Il passaggio da psicoanalizzante a psicoanalista ha una porta il cui cardine è questo resto che fa la loro divisione; infatti questa divisione è soltanto quella del soggetto, di cui tale resto è la causa” (Scilicet, “Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola”, p. 28-29) 
 Questa frase di Lacan, introduce il resto come cardine della porta che si apre quando un analizzante passa ad occupare la posizione di analista. E’ un battito, un momento decisivo, e al contempo l’esito di un processo di lunga durata e per nulla naturale nei suoi esiti. Può accadere che questo passaggio avvenga illusoriamente più sulla spinta di un’identificazione all’analista e all’ideale che incarna, piuttosto che come atto causato da quella mutazione nell’economia del proprio desiderio che Lacan chiama il desiderio dell’analista. In questi casi il praticante si trova la porta immaginariamente aperta dall’Altro, che può quindi in ogni momento richiudergliela, tenendolo fuori. Ma si tratta di un passaggio da analizzante ad analista immaginario, e non reale. Nella mia esperienza mi accadde per la prima volta di vedere una paziente in un tempo troppo precoce rispetto al mio lavoro di elaborazione in analisi, avendo ricevuto appunto (così almeno lo avevo inteso) più un via libera immaginario dall’Altro, che un’autorizzazione reale a partire da una trasformazione della mia economia di desiderio che la sostenesse. Ero ancora impelagato nel riconoscimento della trama delle identificazioni narcisistiche di cui era intessuta la mia identità, da non avere avuto che un sentore lontano di quel resto di godimento attorno a cui esse giravano. L’effetto che ricordo fu effettivamente di mancare del cardine essenziale su cui far poggiare la mia posizione rispetto all’ascolto della parola della paziente. Silenzi che stonavano, parole che volevano dire troppo. Mi mancava ancora la bussola del reale. La sensazione soggettiva era di avere compiuto una forzatura dei miei tempi logici rispetto all’autorizzazione ed al passaggio all’analista. Cosa che mi indusse dopo due o tre incontri a lasciare perdere per alcuni anni l’idea di praticare, e a dedicarmi sostanzialmente alla mia analisi. Quando decisi di incontrare alcuni anni dopo un paziente qualcosa era mutato in me. Non ebbi più quella sensazione di assenza di cardine che avevo sperimentato anno prima con quel protoinizio o pseudoavviamento della pratica, campo di esperienza di cui potrebbe essere interessante poterne fare una clinica. Ai problemi mai mancanti nella pratica analitica iniziavo a fare fronte a partire dal cardine della bussola del reale, facendo del resto di godimento a cui la mia analisi iniziava a condurmi il vettore a partire da cui il mio ascolto si orientava verso il punto di reale del paziente emergente nel cardine del suo dire.

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