bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

domenica 30 giugno 2013

anticorpi

questo non sta bene, ho pensato.
la presentazione della mostra "Anticorpi" dice che il Sig. fotografo Antoine d'Agata non ha veli, è schietto: un mondo complesso e vario, estremo se vogliamo ma profondamente autentico, vero come pochi altri e esposto con una cruda, spiazzante onestà.
mah.
io ho visto corpi malati, sfigurati, scene di sesso che hanno l'aria di incontri satanici, di divorazione di corpi, di morte, di agonia, di tortura, di sofferenza mentale, di trasfigurazione del corpo vicino alla putrefazione, alla rarefazione ossea. la sfocatura e l'effetto mosso sembrano, vogliono, mostrare corpi incompleti, mutilati - e alcuni poi lo sono davvero - teschi e arti ossei, orgasmi che sembrano urla di morte.
un'oscenità.
è una follia perversa, una sofferenza mentale, un gusto per la trasfigurazione macabra, un'ossessione per una sessualità animalesca putrescente che mi ha fatto pensare solo alla follia, allo star male di testa.
dal Corriere della Sera leggo che d'Agata dichiara: «La mia strategia personale, per vivere la violenza del mondo, non è di evitarla, ma di cercarla e di non fare del male a nessuno se non a me stesso, sulla strada». e aggiunge: «Di fronte all'oppressione generata dall'abbondanza di immagini stereotipate e dalla loro moltiplicazione da parte delle industrie culturali, di fronte a questa pornografia generalizzata, vivere diventa l'unica scommessa: e l'unica opera possibile è la perpetuazione di gesti insensati». E i suoi «gesti insensati» passano attraverso l'alcol, le droghe, la rabbia, il sesso, la paura, i sentimenti estremi con i quali si misura per superare i propri limiti. La sua è una narrazione indirettamente autobiografica che testimonia il passaggio in teatri di guerra e di emarginazione di giorno e la condivisione di territori di prostituzione, di sofferenza, di droghe di notte. Il suo livello di coinvolgimento nelle situazioni estreme è totale, il suo bisogno di superare i limiti per «togliere il velo ipocrita che edulcora il racconto della nostra contemporaneità» è una necessità per lui vitale e creativa. Nel suo attraversamento degli orrori del mondo resta però il bisogno sincero di condivisione e una reale «pietas». E sui muri della F
ondazione Forma, in mostra, scrive: «Solo un'arte molesta è valida, sovversiva, asociale, atea, erotica e immorale, antidoto all'infezione spettacolare che neutralizza gli spiriti?».
a volte, penso, si può scegliere. no?
non tutto è mostrabile. non è che siccome uno è un visionario e ribelle quel che mostra è arte.
contro la pornografia generalizzata l'antidoto, l'anticorpo, è il gesto insensato?
solo l'arte molesta asociale contrasta l'infezione che neutralizza gli spiriti?
ma cosa dice questo signore?
sono parole di  un adolescente, confuso, illeggibile, borderline, in preda ad acting out psichici e comportamentali, lo sproloquio di uno che non ha ben capito che la sua violenza perpetua l'infezione, all'infinito, fino alla cianosi e alla gangrena. 
è anche roba brutta, a voler ben guardare.
la mostra è vietata ai minori di 18 anni.
mi è venuto da ridere.
c'è violenza in quest'uomo, può far male a chiunque.

metto due foto, solo a testimonianza.


venerdì 28 giugno 2013

Chi digiuna ha due motivi di cui rallegrarsi: si rallegra quando lo rompe, e si rallegrerà del digiuno fatto quando incontrerà il suo Signore

l’Inviato di Dio disse:
"Quando arriva il Ramadan vengono aperte le porte del Paradiso, e chiuse quelle del Fuoco, e i demoni vengono legati"..
mi fa notare un mio collega del CPS -con il Fatebenefratelli ho finalmente e definitivamente chiuso senza nemmeno l'ombra di un rimpianto quanto piuttosto la percezione immensa di una liberazione- che a breve comincia il Ramadan. 9 luglio-8 agosto 2013.
il che significa che i nostri pazienti osservanti musulmani non assumono i farmaci.
il digiuno è assoluto, e non riguarda solo il cibo,  l'astensione - anche da qualsiasi contatto sessuale e da ogni altro cattivo pensiero o azione, non bisogna litigare, né mentire né calunniare- dura dall'alba al tramonto, fino cioè a quando un filo bianco non si distingue da un filo nero.
"Mangiate e bevete fino a quando appaia a voi distinto il filo bianco dal filo nero".
questa è poesia.
e per i farmaci...pazienza, si possono posticipare o anticipare nel momento del buio che nulla distingue.

giovedì 27 giugno 2013

L'intervallo

riapre l'Arianteo, cinema all'aperto, cortili dell'Umanitaria.
potrebbe anche essere una gioia.
ma fa freddo in questa sera di giugno.
ho freddo.
vedo il film male, tremando, pensando che sono scoperta.
e in effetti sono senza pelle. 
ma come vivo male. che deficiente.
sono sola, non mi dispiace, penso che vorrei stare sola sempre, vorrei essere lasciata sola sempre.
io non voglio vedere più nessuno.
il film certo non mi aiuta, non mi consola.

mi parla, appunto, solo di un intervallo.
l'intervallo di un incontro che sa di umano, di tiepido, ma dura poco, il tempo di un pomeriggio di sole e pioggia.
e poi tutto ripiomba nella solitudine nella periferia povera e cialtrona di Napoli. 
bande, camorra, amorazzi, giochi di potere, tu di qua io di là...ehi ragazzina, Veronica, tu che parte stai? dice il boss.
e poi baracchini mobili per la limonata e le granite, Salvatore e suo padre, un rituale di preparazione che si ripete ogni mattina, un lavoro povero ma garbato, povero ma pulito, lontano dalla delinquenza. 
tocca a Salvatore, tirato dentro contro il suo volere, ricattato, tenere Veronica in castigo, farle venire paura, tenerla prigioniera nei meandri di un vecchio e abbandonato casale, probabilmente un ex convitto per ragazze. Veronica, 16 anni, è piena, formosa, sfrontata, spaccona. è veramente libera di testa come vuol far credere? Salvatore, grosso e goffo, pesante ma occhi belli, la guarda da lontano, la annusa, la evita, la spia, le segue e un po' la seduce, per un breve intervallo, con sua aria sorniona, un po' grezza ma autentica, verace e generosa. 
per qualche ora si può essere solo ragazzini, giocare, rincorrersi, bagnarsi di pioggia, raccontarsi storie, essere rispettosi e senza paura.
lo spazio è un labirinto, sporco, abbandonato, pieno di sorprese e misteri, cagne che hanno appena partorito,  barche abbandonate che galleggiano su un piccolo lago d'acqua straripato dal mare, camere cadenti di ragazze che conservano ancora un letto un lavandino e una foto appesa alla parete; una è morta, si sa, era pure incinta. si cammina dietro a loro, al loro vagare e rincorrersi, bella la luce radente, belli i chiaroscuri, una ripresa davvero incolta, sfuocata, ma convincente. 
per qualche ora.
finite quelle, a sera, di notte, tutto sfuma, i ruoli si ridefiniscono, Veronica torna a fare la bella di quartiere ambita da tutti, Salvatore riprende il suo baracchino, confuso, frastornato, cupo. 
il sorriso è durato il tempo di un intervallo. 

L'intervallo, di Leonardo Di Costanzo.

allungo la bracciata, sto finendola vasca numero cinque,la numero sei..

è sommesso, come sempre, Mastandrea in questo film. sommesso non è sottotono, vuol dire nella giusta misura, è la cifra di questo attore, che devo dire, mi piace molto.
è delicata, come sempre, la Golino in questo film.
una sofferenza che esce bene, senza enfasi, delicata ma devastante. definitiva.
il film ha questo pregio, di una storia raccontata un passo indietro, con due attori in perfetta sintonia.
un film che, invece,  non si può dire perfetto, le fantasie letterarie fanno sorridere, ma forse raccontano, un po' maldestre, quel mondo in punta di piedi, ironico e senza pretese del protagonista maschile, uno scrittore alle prese con una premiazione potenziale.
e forse tutto è in potenza nella narrazione, nulla si compie veramente.
un matrimonio, tra lo scrittore e una evanescente e accondiscendente Sonia Bergamasco, che non si capisce a che punto sia, probabilmente fissato su un irrisolvibile malinteso;
una figlia bulimica e sovrappeso -e grazieaddio una giovane attrice scelta per qualche attributo che non siano occhi blu e capelli biondi-  guardata e accettata con affetto, accompagnata con rispetto, alla quale non si chiede nulla;
un incontro tra un uomo e una donna che rimane asfittico, senza respiro, se non quello delle bracciate lunghe e progressive nella piscina;
l'altra figlia che rinnega il ruolo, il suo e quello di sua madre, procurando un dolore mortale;
una storia in apnea, in cui l'amore è silenzioso, o forse non detto, o forse mai vissuto fino in fondo, in sottrazione.

il film è Giulia non esce la sera.


venerdì 14 giugno 2013

Não sou nada. Nunca serei nada. Não posso querer ser nada. À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo.

Si estende su sette colli – altrettanti punti di osservazione dai quali si possono godere i panorami più splendidi – il vasto, irregolare e multicolore insieme di edifici che forma Lisbona. 
Per il viaggiatore che vi giunga dal mare, Lisbona, anche vista in lontananza, sorge come una bella visione di sogno, stagliata contro un cielo azzurro e splendente che il sole allieta col suo oro. E le cupole, i monumenti, gli antichi castelli appena al di sopra di edifici, sono come lontani araldi di quel luogo delizioso, di quella regione benedetta. 
FERNANDO PESSOA da  "LISBONA- quello che il turista deve vedere"




Guardo il Tago, in modo tale
Da scordarmi di guardare,
E ad un tratto ciò mi porta
Incontro al vaneggiamento –
Che cos’è esser fiume e scorrere?
E che significa il vederlo?

D’improvviso sento poco,
Vuoto, il momento, il luogo.
Tutto d’improvviso è vacuo –
Persino il mio pensare.
Tutto – io e il mondo attorno –
Diventa molto più estraneo.

L’essere, lo stare, perde tutto
E svanisce dal pensiero.
Non posso più collegare
L’essere, l’idea, l’anima di un nome
A me, alla terra o al cielo…

E a un tratto trovo Dio.

Fernando Pessoa














3
«A poco a poco andava fuggendo
dietro di noi la visione delle patrie montagne:
restavano addietro il caro Tago e la fresca giogaia
di Sintra, su cui gli occhi si attardavano.
E restava addietro nella amata terra
il nostro cuore, che la nostalgia là tratteneva.
E quando infine quella visione fu tutta svanita,
non vedemmo altro che mare e cielo.
4
«Così ci accingemmo ad esplorare i mari
che nessuna generazione mai esplorò,
e passammo anzitutto in vista delle nuove isole
e dei nuovi paesi scoperti dall'illustre Enrico. Lasciando a sinistra - che vi sia altra terra a destra non v'ha certezza, ma solo sospetto -
i monti e le località della Mauritania,
contrada un tempo posseduta da Anteo. 

Luís Vaz de Camões: Os lusiadas
Louís de Camões (1524-1580) è il più celebre poeta della letteratura portoghese. Compose il poema epico Os Lusiadas (I lusiadi) dove descrive l'epopea del celebre navigatore Vasco De Gama, e la sua scoperta della via delle Indie (1497-1499).




Não sou nada.
Nunca serei nada.
Não posso querer ser nada.
À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo.

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso volere essere niente.
A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo.

Fernando Pessoa

giovedì 13 giugno 2013

cosciente eclissi

ritrovo, ancora in lei, Emily Dickinson, parole e frammenti preziosi, come suggerimenti al mio vivere, e al vivere degli altri.
la Milanesiana 2013, che consiglio a chiunque, uomini e topi, italiani e svizzeri,  verterà sul segreto. segreto, segreto, bella parola, obsoleta in tempi di diffusione proiezione oscena cosmico-planetaria di tutto, pezzi di corpo, pezzi di mente, pezzi di sentimenti. solo pezzi, però, ciò che si dice o mostra e dovrebbe essere segreto, non può che esser solo un pezzo, da esposizione, da macello, da ingordigia bulimica.
leggevo un'intervista su La lettura: "Penso alle cose più belle, ecco, quei momenti felici che si vivono per miracolo e c’è il rischio che gli altri ce li sciupino, perché la felicità è fragile. Devi tenerli segreti, insomma. Il fatto stesso che siano rivelati li sciupa, e allora li nascondi, per difenderli. Le cose segrete sono il nocciolo della felicità. Sono l’anima».
io le cose segrete le ritrovo qui, anche qui, nella cosciente eclissi.

Come se il mare si dovesse aprire
mostrando un altro mare -
e quello - un altro - e i tre
non fossero che annuncio -
di epoche di mari -
non raggiunti da rive -
mari che sono rive di se stessi -
l'eternità - è così -
________________________________________

La mente - è più vasta del Cielo -
Perché - mettili fianco a fianco -
L’una vedrai contiene l'Altro
Agevolmente - più te- accanto.
La mente è più fonda del mare -
Perché - tienili - Blu contro Blu -
L’una vedrai assorbe l'Altro -
Come fanno nei secchi le spugne -
La mente pesa quanto Dio - lo stesso
Perché - Tirali su - Libbra per Libbra -
E differiranno - tutt'al più -Come Suono da Sillaba -
__________________________________________

Non occorre essere stanza-per alloggiare spettri
Non occorre essere casa-
La mente - ha Corridoi che  vanno oltre
Il Luogo Materiale -
Ben più sicuro
L'esterno Fantasma di un incontro a Mezzanotte
Che il suo riscontro Interiore
Quel più freddo - Ospite -
Ben più sicuro, attraversare un'Abbazia - al Galoppo -
Inseguiti Dalle Pietre -
Che affrontare disarmati il proprio Sè
In disparte -
Il Noi - dietro di Noi - Nascosto -
Sarebbe il terrore estremo -
L'Assassino - in agguato nella Casa -
E' Orrore da meno -
Il corpo si procura un revolver-
spranga l'Ingresso e misconosce
uno Spettro ulteriore
che gli è Addosso-

lunedì 10 giugno 2013

io dimoro nella possibilità

sono 104.
poesie di Emily Dickinson - legge Giovanna Mezzogiorno.
e non è facile ascoltare poesie in battuta, una dopo l'altra. 
ne ascolto una e la riascolto almeno due o tre volte.
il suono, oltre il senso, le parole e il loro proprio senso. 
anche le singole parole contano, nel loro spazio, nel loro luogo, nel loro silenzio, prima e dopo.
non è facile.
e poi queste poesie vanno ascoltate nel loro discorso, non sempre è così, ma queste poesie sono brevi intensi scottanti, e intimi, discorsi.
la Mezzogiorno mi piace, è un po' rigida nel sua interezza, ma la sua voce è singolare e la singolarità si addice bene alla poesia. si addice in modo univoco. ha delle aperture, la sua voce, degli slittamenti, dei cedimenti, giù nella gola, così a me sembra, che nascondono un mistero.

Dopo un grande dolore viene un sentimento compassato-
i nervi stanno in posa cerimoniale come tombe-
il cuore indurito si domanda se fu lui a patire,
e fu ieri, o secoli indietro.

I piedi raggirano meccanici-
una via smorta di terra o aria-
o chissà che-
ormai indifferenti.
un accontentamento di quarzo, come una pietra-

Questa è l’ora di piombo-
ricordata, se si sopravvive,
come gli assiderati ricordano la neve-
prima gelo - poi stupore -poi la resa.
_________________________________________

Quante volte han vacillato questi poveri piedi
Può dirlo solo la bocca saldata - 
Prova - puoi smuovere il chiodo micidiale - 
Prova - puoi alzare le cerniere d'acciaio! 

Sfiora la fronte fredda - così spesso ardente - 
Sollevale - se vuoi - i capelli spenti - 
Prendi in mano le dita di diamante
Che non infileranno -più- un ditale -

Ronzano mosche pigre - dalla finestra in camera - 
Sfrontato - brilla il sole contro il vetro a macchie - 
Fiera - la ragnatela pende dal soffitto -
Casalinga indolente - tra Margherite - stesa!
___________________________________________

Ho visto un Occhio Moribondo
Correre tutt'intorno nella Stanza - 
In cerca all'apparenza di Qualcosa - 
Poi - infittirsi di nubi -
E poi - oscurarsi di Nebbia - 
E infine - lasciarsi saldare
Senza avere svelato di che cosa 
Si sarebbe beato nel vederla.

la traduzione delle poesie è di Silvia Bre.
chi è? non lo so.
ma le sue traduzioni sono una spanna, di più, sopra tutte quelle che ho letto qua e là nel web.
sono traduzioni che suonano poesia.
le ho ritrascritte, fedeli, dalla voce di Giovanna.
uno stordimento, fino all'ultima lettura, fino all'ultima lettera. 

venerdì 7 giugno 2013

ogni legame, disse lui, è un legame di dolore

è Joyce che scrive, in Gente di Dublino.
Joyce, che personaggio.
nel corso della sezione clinica su Lacan, l'anno scorso, la figura di Joyce è stata lungamente presentata: Lacan ne studiò da vicino la natura psichica e l'opera.
Joyce era probabilmente psicotico, una psicosi però confinata, trattenuta, non esplosa, grazie a una supplenza, quella della scrittura.  è proprio attraverso questa supplenza che Joyce può arrivare a farsi un “nome proprio”. nella supplenza il soggetto realizza una sorta di individuazione,  differenziando la propria identità da quella degli altri. la natura simbolica della supplenza conduce alla produzione di un’opera. è evidente che quest’opera non ha come modello necessariamente l’Ulisse di Joyce (modello “alto” privilegiato da Lacan) ma può benissimo realizzarsi attraverso opere – od operazioni – tra le più quotidiane. ciò che conta è che queste operazioni riescano a ricucire lo strappo lasciato dall’assenza del Padre. a riguardo è vero che il caso Joyce resta esemplare poiché per lui, il “farsi un nome”, coincide in modo assoluto con il prodotto, ovvero con l’opera stessa di Joyce.
la stampella di Joyce, la sua ricucitura, il suo poter stare al mondo, è stata la scrittura.
in Gente di Dublino c'è qualcosa di pervasivo, di costante, un respiro di sconfitta, di perdita, di disfatta, in tutti i racconti. c'è una storia, che non è mai troppo strutturata, è sfumata, con dettagli che arrivano inaspettatamente e a volte non arrivano affatto, una scrittura disordinata, tutt'altro che metodica, storie dai contorni indefiniti in cui emerge, lento, inesorabile, il senso della perdita, della paralisi, della condanna. è come se per ogni personaggio si giungesse, alla fine del racconto, sempre, a un perdita di senso.
nell'ultimo dei racconti, I morti, questa perdita tocca la morte, la morte dell'anima, un'ombra che mangia ogni cosa.
e un brivido nero, squotente, macabro, corre lungo la schiena.

Un picchiettare sommesso sui vetri lo fece voltare verso la finestra: aveva ricominciato a nevicare. Osservò assonnato i fiocchi neri e argentei che cadevano obliqui contro il lampione. Era giunto il momento di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali dicevano il vero: c'era neve dappertutto in Irlanda. Cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulle nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto, lassù sulla collina dove era sepolto Michael Furey. S'ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull'universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti. (da I morti)

giovedì 6 giugno 2013

Ci sono città accese nella distanza, Magne­ti­che e pro­fonde come lune, Campi in fiore e nere strade Piene di esal­ta­zione e risonanza

LISBONA 

Dico:
«Lisbona»
Quando attraverso – venendo da sud – il fiume
E la città a cui arrivo si apre come se dal suo nome nascesse
Si apre e si erge nella sua estensione notturna
Nel suo lungo luccicare di azzurro e fiume
Nel suo corpo ammassato di colline –
La vedo meglio perché la dico
Tutto si mostra migliore perché dico
Tutto mostra meglio il suo stare e la sua carenza
Perché dico
Lisbona con il suo nome di essere e di non-essere
Con i suoi meandri di stupore insonnia e sfacciataggine
E il suo segreto rilucere di cosa di teatro
Il suo connivente sorridere di intrigo e maschera
Mentre il vasto mare a occidente si dilata
Lisbona oscillante come una grande barca
Lisbona crudelmente costruita lungo la sua propria assenza
Dico il nome della città
–  Dico per vedere

 Sophia de Mello Breyner Andresen

bellissima poetessa portoghese.
Lisbona, la sua città.

martedì 4 giugno 2013

Cheira bem, cheira a Lisboa


Lisbon Revisited (1926)

Nulla mi lega a nulla. 
Voglio cinquanta cose nel medesimo tempo. 
Anelo con un’angoscia di fame di carne 
quel che non che sia – definitamente per l’indefinito… 
Dormo irrequieto, e vivo in un sognare irrequieto 
di chi dorme irrequieto, mezzo sognando. 

Mi chiusero tutte le porte astratte e necessarie. 
Abbassarono cortine su tutte le ipotesi che avrei potuto vedere nella via. 
Non c‘è nella traversa trovata numero di porta che m’hanno dato. 
Mi sono svegliato alla stessa vita a cui m’ero addormentato. 
Perfino i miei eserciti sognati hanno patito sconfitta. 
Perfino i miei sogni si sono sentiti falsi all’essere sognati. 
Perfino la vita soltanto desiderata mi nausea – perfino questa vita… 

Comprendo a intervalli sconnessi; 
scrivo per lapsus di stanchezza; 
e un tedio che è perfino del tedio mi scaraventa sulla spiaggia. 

Non so che destino o futuro compete alla mia angoscia senza timone; 
non so che isole del Sud impossibile mi aspettano naufrago; 

o che palmeti di letteratura mi daranno almeno un verso. 

No, non so questo, né altra cosa, né cosa alcuna… 
E, nel fondo del mio spirito, ove sogno quel che ho sognato, 
nei campi ultimi dell’anima, ove ricordo senza motivo 
(e il passato è una nebbia naturale di lacrime false), 
nelle strade e nei sentieri di foreste lontane 
ove ho immaginato il mio essere, 
fuggono smantellati, ultimi resti 
dell’illusione finale, 
i miei eserciti sognati, sconfitti senza essere esistiti, 
le mie coorti da esistere, sfracellate in Dio. 

Un’altra volta ti rivedo, 
città della mia infanzia paurosamente perduta… 
città triste e lieta, un’altra volta sogno qui… 
Io? Ma sono lo stesso che qui è vissuto, e qui è tornato, 
e qui è tornato a tornare, e a ritornare. 
E qui di nuovo sono tornato a tornare? 
O siamo tutti gli Io che sono stato qui o sono stati, 
una serie di chicchi-enti legati da un filo-memoria, 
una serie di sogni di me, di qualcuno fuori di me? 

Un’altra volta ti rivedo, 
col cuore più lontano, l’anima meno mia. 

Un’altra volta ti rivedo – Lisbona e Tago e tutto – 
passeggero inutile di te e di me, 
straniero qui come in ogni parte, 
casuale nella vita come nell’anima, 
fantasma errante in sale di ricordi, 
al rumore dei topi e delle tavole che scricchiolano 
nel castello maledetto di dover vivere… 

Un’altra volta ti rivedo, 
ombra che passa attraverso ombre, e brilla 
un momento a una funebre luce sconosciuta, 
e penetra nella notte come una scia di nave si perde 
nell’acqua che cessa di udirsi… 

Un’altra volta ti rivedo, 
ma, ahi, me non rivedo! 
S‘è rotto lo specchio magico in cui mi rivedevo identico, 
e in ogni frammento fatidico vedo solo un pezzo di me – un pezzo di te e di me!… 

(Lisbon Revisited (1926) -“Poesie” – Alvaro De Campos, ovvero Fernando Pessoa) 

Lisbona
luce infinita purissima
Pessoa
infinita penetrante poesia


Ho pena delle stelle 

Ho pena delle stelle
che brillano da tanto tempo,
da tanto tempo...
Ho pena delle stelle.

Non ci sarà
una stanchezza delle cose,
di tutte le cose,
come delle gambe o di un braccio?

Una stanchezza di esistere,
di essere,
solo di essere,
l'essere triste lume o un sorriso...

Non ci sarà dunque,
per le cose che sono,
non la morte, bensì
un'altra specie di fine,
o una grande ragione:
qualcosa così, come un perdono?

Fernando Pessoa