bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 19 settembre 2013

Il mio mestiere è quello di scri­vere e io lo so bene e da molto tempo

Leggendo Natalia Ginzburg nutro dei dubbi.
Non sto leggendo un'opera importante, ma Piccole virtù, una raccolta di racconti, piccoli saggi, per lo più autobiografici.
ha una scrittura schietta e un animo onesto. sembra anzi godere nel mostrarsi per come è, a volte nel minimizzarsi, nel farsi piccola e umile.certamente non si camuffa e la sua parola assume un valore autentico, genuino, apprezzabile. non è una grande scrittura, la sua, ma piana, semplice, diretta, a volte ripetitiva, senza sfumature.
il problema è che avverto, a volte, di non essere d'accordo con lei. alcune sue affermazioni non sono condivisibili, alcune visioni mi risultano ristrette, non corroborate dalla conoscenza per cui alla fine mi sembra che, in effetti, la sola visione familiare, cui era molto legata, quella proveniente dall'esperienza diretta, dall'analisi dei sentimenti, possa avere il fondamento della verosimiglianza. alcune affermazioni sulla guerra o sulla psicoanalisi, sulla correlazione tra colpa e panico, mi sembrano azzardate o non corrette. uno scrittore deve sapere cosa scrive, deve attenersi ai fatti se è di realtà che parla. l'invenzione vale nel romanzo, non nella saggistica.
tra i racconti ce n'è uno sul mestiere della scrittura.
ripenso alla lezione di Virginia Woolf e mi piace constatare le differenze, e anche le somiglianze, nell'affrontare il discorso sulla letteratura al femminile.
la visione della Woolf è certamente più ariosa, il suo è un discorso universale, globale, un metadiscorso. è un ragionare su qualcosa.la Ginzburg si attiene alla sua sola esperienza, parla del suo scrivere e della sua personale, individuale evoluzione, dei suoi limiti e delle sue potenzialità.
è chiaro che la prima ha doti di pensiero e di coinvolgimento intellettivo ed emotivo che la seconda non possiede. nel discorso della Ginzburg tutto diventa più piccolo, più provinciale, più circoscritto. il discorso di Virginia è un invito, è un'incitazione, un'esaltazione della potenzialità di scrittura al femminile, è un abbraccio ecumenico.
in entrambe però si leggono passaggi sull'importanza di non imitare il mondo maschile, di fare della scrittura femminile una propria e unica scrittura. anche la Ginzburg afferma la necessità di un'indipendenza economica e di pensiero, di un mestiere che non paga poi molto ma che appaga moltissimo.
l'aspetto più interessante della riflessione della Ginzburg è la fatica dello scrittore, l'impegno e l'energia che richiede. scrivere non può essere un passatempo, scrivere è uno sforzo intellettivo e spirituale che richiede concentrazione, conoscenza, riflessione e molta capacità di dedizione. per scrivere bisogna abbandonare la propria personale visione, bisogna essere scevri da rancore e rabbia, i personaggi non vanno alimentati e inquinati dalle personale questioni di vita, altrimenti la scrittura ne sarà irrimediabilmente compromessa, risulterà orientata e disturbata, non credibile. e così disse anche Virginia nella sua stanza tutta per sè, che, non me ne voglia la Ginzburg, rimane inarrivabile e immensa. 


Il mio mestiere è quello di scri­vere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere frain­tesa: sul valore di quel che posso scri­vere non so nulla. So che scri­vere è il mio mestiere. Quando mi metto a scri­vere, mi sento straor­di­na­ria­mente a mio agio e mi muovo in un ele­mento che mi par di cono­scere straor­di­na­ria­mente bene: ado­pero degli stru­menti che mi sono noti e fami­liari e li sento ben fermi nelle mie mani
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La prima cosa seria che ho scritto è stato un rac­conto. Un rac­conto breve, di cin­que o sei pagine: m’è venuto fuori come per mira­colo, in una sera, e quando poi sono andata a dor­mire ero stanca, stor­dita e stu­pe­fatta. Avevo l’impressione che fosse una cosa seria, la prima che avessi mai fatto: le poe­sie e i romanzi con le ragazze e le car­rozze mi pare­vano a un tratto molto lon­tani, in un’epoca scom­parsa per sem­pre, crea­ture inge­nue e ridi­cole di un’altra età. In que­sto nuovo rac­conto c’erano dei per­so­naggi. Isa­bella e l’uomo con la barba ros­sa­stra non erano per­so­naggi: io non sapevo niente di loro all’infuori delle frasi e delle parole di cui m’ero ser­vita nei loro riguardi, ed erano affi­dati al caso e all’estro della mia volontà. Le parole e le frasi di cui m’ero ser­vita per loro le avevo pescate su a caso: era come se avessi avuto un sacco e avessi tirato su a caso ora una barba e ora una cuoca negra o un’altra cosa che si poteva usare. Que­sta volta invece non era stato un gioco. Que­sta volta avevo inven­tato delle per­sone con dei nomi che non mi sarebbe stato pos­si­bile cam­biare: niente di loro avrei potuto cam­biare e sapevo una quan­tità di par­ti­co­lari sul loro conto, sapevo com’era stata la loro vita fino al giorno del mio rac­conto anche se nel rac­conto non ne avevo par­lato per­ché non era stato neces­sa­rio. 
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E ne ho scritti dav­vero un certo numero, a inter­valli di uno o due mesi, qual­cuno abba­stanza bello e qual­cuno no. Ho sco­perto allora che ci si stanca quando si scrive una cosa sul serio. È un cat­tivo segno se non ci si stanca. Uno non può spe­rare di scri­vere qual­cosa di serio così alla leg­gera, come con una mano sola, svo­laz­zando via fre­sco fre­sco. Non si può cavar­sela così con poco. Uno, quando scrive una cosa che sia seria, ci casca den­tro, ci affoga den­tro pro­prio fino agli occhi; e se ha dei sen­ti­menti molto forti che lo inquie­tano in cuore, se è molto felice o molto infe­lice per una qua­lun­que ragione diciamo ter­re­stre, che non c’entra per niente con la cosa che sta scri­vendo, allora, se quanto scrive è valido e degno di vita, ogni altro sen­ti­mento s’addormenta in lui. Lui non può spe­rare di ser­barsi intatta e fre­sca la sua cara feli­cità, o la sua cara infe­li­cità, tutto s’allontana e sva­ni­sce ed è solo con la sua pagina, nes­suna feli­cità e nes­suna infe­li­cità può sus­si­stere in lui che non sia stret­ta­mente legata a que­sta sua pagina, non pos­siede altro e non appar­tiene ad altri e se non gli suc­cede così, allora è segno che la sua pagina non vale nulla.
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In quei brevi rac­conti che scri­vevo allora, c’erano dei per­so­naggi che in fondo io disprez­zavo. Sic­come avevo sco­perto che è bello che un per­so­nag­gio sia mise­re­vole e comico, a forza di comi­cità e com­mi­se­ra­zione ne facevo degli esseri così spre­ge­voli e privi di glo­ria che io stessa non potevo amarli. Quei miei per­so­naggi ave­vano sem­pre dei tic o delle manie o una defor­mità fisica o un vizio un po’ grot­te­sco, ave­vano un brac­cio rotto e appeso al collo in una benda nera o ave­vano degli orza­ioli  o erano bal­bu­zienti o si grat­ta­vano il sedere par­lando o zop­pi­ca­vano un poco. Mi era sem­pre neces­sa­rio carat­te­riz­zarli in qual­che modo. Era per me un mezzo di sfug­gire al timore che risul­tas­sero incerti, di cogliere la loro uma­nità della quale incon­scia­mente dubi­tavo. Per­ché allora non capivo – ma al tempo dello spec­chio sul car­retto comin­ciavo con­fu­sa­mente a capirlo – che non si trat­tava più di per­so­naggi ma di burat­tini, abba­stanza ben dipinti e simili agli uomini veri ma burat­tini. Nell’inventarli subito li carat­te­riz­zavo, li segnavo d’un par­ti­co­lare grot­te­sco, e c’era in que­sto qual­cosa di un po’ mal­va­gio, c’era in me allora come un risen­ti­mento mali­gno nei con­fronti della realtà. Non era un risen­ti­mento fon­dato su qual­cosa di vivo, per­ché ero allora una ragazza felice, ma nasceva come rea­zione all’ingenuità, si trat­tava di quel par­ti­co­lare risen­ti­mento che è la difesa della per­sona inge­nua, sem­pre por­tata a cre­dere d’essere presa in giro, del con­ta­dino che si trova da poco in città e vede ladri ovun­que. Sul prin­ci­pio ne andavo fiera, per­ché mi pareva un grande trionfo dell’ironia sull’ingenuità e su que­gli abban­doni pate­tici dell’adolescenza che si vede­vano tanto nelle mie poe­sie. L’ironia e la  mal­va­gità mi pare­vano armi molto impor­tanti nelle mie mani; mi pareva che mi ser­vis­sero a scri­vere come un uomo, per­ché allora desi­de­ravo ter­ri­bil­mente di scri­vere come un uomo, avevo orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scri­vevo. Facevo quasi sem­pre per­so­naggi uomini, per­ché fos­sero il più pos­si­bile lon­tani e distac­cati da me.
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La nostra per­so­nale feli­cità o infe­li­cità, la nostra con­di­zione ter­re­stre, ha una grande impor­tanza nei con­fronti di quello che scri­viamo. Ho detto prima che uno nel momento che scrive è mira­co­lo­sa­mente spinto a igno­rare le cir­co­stanze pre­senti della sua pro­pria vita. Certo è così. Ma l’essere felici o infe­lici ci porta a scri­vere in un modo o in un altro. Quando siamo felici la nostra fan­ta­sia ha più forza; quando siamo infe­lici, agi­sce allora più viva­ce­mente la nostra memo­ria. La sof­fe­renza rende la fan­ta­sia debole e pigra; essa si muove, ma svo­glia­ta­mente e con lan­guore, con i deboli moti dei malati, con la stan­chezza e la cau­tela delle mem­bra dolenti e feb­bri­ci­tanti; ci è dif­fi­cile disto­gliere lo sguardo dalla nostra vita e dalla nostra anima, dalla sete e dall’inquietudine che ci per­vade. Nelle cose che scri­viamo affio­rano allora di con­ti­nuo ricordi del nostro pas­sato, la nostra pro­pria voce risuona di con­ti­nuo e non riu­sciamo ad imporle silen­zio. Fra noi e i per­so­naggi che allora inven­tiamo, che la nostra fan­ta­sia illan­gui­dita rie­sce tut­ta­via a inven­tare, nasce un rap­porto par­ti­co­lare, tenero e come materno, un rap­porto caldo e umido di lagrime, di un’intimità car­nale e sof­fo­cante. Abbiamo radici pro­fonde e dolenti in ogni essere e in ogni cosa del mondo, del mondo fat­tosi pieno di echi e di sus­sulti e di ombre, a cui ci lega una devota e appas­sio­nata pietà. Il nostro rischio è allora di nau­fra­gare in un buio lago d’acqua morta e sta­gnante, e tra­sci­narvi con noi le crea­ture del nostro pen­siero, lasciarle perire con noi nel gorgo tie­pido e buio, tra topi morti e fiori putre­fatti. C’è un peri­colo nel dolore così come c’è un peri­colo nella feli­cità, riguardo alle cose che scri­viamo. Per­ché la bel­lezza poe­tica è un insieme di cru­deltà, di super­bia, d’ironia, di tene­rezza car­nale, di fan­ta­sia e di memo­ria, di chia­rezza e d’oscurità e se non riu­sciamo a otte­nere tutto que­sto insieme, il nostro risul­tato è povero, pre­ca­rio e scar­sa­mente vitale.
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Così è il mio mestiere. Denaro, vedete, non ne frutta molto, e anzi sem­pre biso­gna fare con­tem­po­ra­nea­mente anche un altro mestiere per vivere. Pure a volte ne frutta un poco: e avere del denaro per virtù sua è una cosa molto dolce, come rice­vere denaro e doni dalle mani dell’essere amato. Così è il mio mestiere. Non so molto, dico, sul valore dei risul­tati che m’ha dato e che potrà darmi: o meglio, dei risul­tati già otte­nuti cono­sco il valore rela­tivo, non certo asso­luto. Quando scrivo qual­cosa, di solito penso che è molto impor­tante e che io sono un gran­dis­simo scrit­tore. Credo suc­ceda a tutti. Ma c’è un angolo della mia anima dove so molto bene e sem­pre quello che sono, cioè un pic­colo, pic­colo scrit­tore. Giuro che lo so. Ma non me ne importa molto. Sol­tanto, non voglio pen­sare dei nomi: ho visto che se mi chiedo: “un pic­colo scrit­tore come chi?” mi rat­tri­sta pen­sare dei nomi di altri pic­coli scrit­tori. Pre­fe­ri­sco cre­dere che nes­suno è mai stato come me, per quanto pic­colo, per quanto pulce o zan­zara di scrit­tore io sia. Quello che invece è impor­tante, è avere la con­vin­zione che sia pro­prio un mestiere, una pro­fes­sione, una cosa che si farà per tutta la vita. Ma, come mestiere, non è uno scherzo. Ci sono innu­me­re­voli peri­coli oltre a quelli che ho detto. Siamo con­ti­nua­mente minac­ciati da gravi peri­coli pro­prio nell’atto di sten­dere la nostra pagina. C’è il peri­colo di met­tersi a un tratto a civet­tare e a can­tare. Io ho sem­pre una voglia matta di met­termi a can­tare, devo stare molto attenta a non farlo. E c’è il peri­colo di truf­fare con parole che non esi­stono dav­vero in noi, che abbiamo pescato su a caso fuori di noi e che met­tiamo insieme con destrezza per­ché siamo diven­tati piut­to­sto furbi. C’è il peri­colo di fare i furbi e truf­fare. È un mestiere abba­stanza dif­fi­cile, lo vedete, ma il più bello che ci sia al mondo. I giorni e i casi della nostra vita, i giorni e i casi della vita degli altri a cui assi­stiamo, let­ture e imma­gini e pen­sieri e discorsi, lo saziano e cre­sce in noi. È un mestiere che si nutre anche di cose orri­bili, man­gia il meglio e il peg­gio della nostra vita, i nostri sen­ti­menti cat­tivi come i sen­ti­menti buoni flui­scono nel suo san­gue. Si nutre e cre­sce in noi.
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Il rac­conto è tratto da “Nata­lia Ginz­burg, Le pic­cole virtù”, Einaudi, 2010.

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