bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 27 febbraio 2014

vedrai, vedrai, vedrai che cambierà

Quando la sera me ne torno a casa
non ho neanche voglia di parlare
tu non guardarmi con quella tenerezza
come fossi un bambino che ritorna deluso
si lo so che questa non è certo la vita
che hai sognato un giorno per noi
vedrai, vedrai
vedrai che cambierà
forse non sarà domani
ma un bel giorno cambierà
vedrai, vedrai
non son finito sai
non so dirti come e quando
ma vedrai che cambierà
preferirei sapere che piangi
che mi rimproveri di averti delusa
e non vederti sempre così dolce
accettare da me tutto quello che viene
mi fa disperare il pensiero di te
e di me che non so darti di più
vedrai, vedrai
vedrai che cambierà
forse non sarà domani
ma un bel giorno cambierà
vedrai, vedrai
no, non son finito sai
non so dirti come e quando
ma un bel giorno cambierà.


e ancora una volta non solo le canzoni del festival -mediocri come sempre- ma le vecchie glorie a fare da padroni.
il vecchio Gino Paoli, che pure non splende per simpatia, canta Luigi Tenco, e poi Umperto Bindi e poi se stesso, e conduce alta sulla vetta la bellezza della melodia italiana.
Tenco, signori e signore, Tenco straccia qualsiasi avversario, senza confronto.
già l'anno scorso con Ciao Amore Ciao portò alla sicura vittoria il vincitore, il buon Mengoni -la cui canzone in concorso era comunque mediocre.
ora non vince nessuno, ma proprio nessuno, e rimane solo lui a farci da consolazione.
credo che questa canzone sia la più triste del mondo. mi coglie una disperazione assoluta, vedrai non so dirti come e quando ma vedrai che cambierà è una frase di tutti, di tutti i giorni, di tutti gli uomini, e di tutte le donne, innamorati e non, ed è un monumento all'impotenza. come la sento mi ripiego su me stessa e me lo dico anche io, vedrai che cambierà e in fondo non ci credo. come non ci credeva lui. lo sento dalla voce, lo dice e non ci crede. è questa la disperazione.
me lo dico anch'io, vedrai che cambierà e intanto me ne vado di casa.
nella serata dedicata alle canzoni non in concorso, alle canzoni del tempo passato, o del nostro tempo recente, insomma alle canzoni che sanno di canzoni, si sente finalmente della musica e i cantanti in gara fanno quel che sanno, se sanno. sento la Costruzione di un amore, di Ivano Fossati, che è una delle canzoni più intelligenti mai scritte, sento un Diavolo in me, di Zucchero, che è trascinante e maliziosa al punto giusto, sento il grande De Andrè cantato dal nuovo De Andrè  (quello venuto in seconda generazione intendo) con Verrannno a chiederti del nostro amore -capolavoro- e mi interrogo sul fardello insopportabile di un padre così, così immensamente superiore. una vita in analisi...

e poi tra, gli ospiti, arriva Ligabue. non capisco se dimesso o divo, è un misto tra una cosa e l'altra. cerca di essere dimesso ma è un divo, cerca di essere dimesso ma sa di essere un divo. chissà.
però ci sa fare con la musica, sempre piaciuto. 
con Il Sale della terra ci mette la sua indignazione, condivisa.
con Per sempre, ci mette nell'eterno della nostra infanzia dentro la memoria dei nostri genitori, immensa.

Mio padre che mi spinge a mangiare
e guai se non finisco
mio padre che vuol farmi guidare
mi frena con il fischio
il bambino più grande mi mena
davanti a tutti gli altri
lui che passa per caso mi salva
e mi condanna per sempre
mio padre di spalle sul piatto
si mangia la vita
e poi sulla pista da ballo
fa un valzer dentro il suo nuovo vestito

Per sempre
solo per sempre
cosa sarà mai porvarvi dentro solo tutto il tempo
per sempre
solo per sempre
c'è un istante che rimane lì piantato eternamente

E lei che non si lascia afferrare
si piega indietro e ride
e lei che dice quanto mi ama
e io che mi fido
e lei che mi toccava per prima
la sua mano bambina
vuole che le giuri qualcosa
le si gonfia una vena
e lei che era troppo più forte
sicura di tutto
e prima di andarsene mi dà il profilo
con un movimento perfetto

Per sempre
solo per sempre
cosa sarà mai portarvi dentro solo tutto il tempo
per sempre
solo per sempre
c'è un istante che rimane lì piantato eternamente
per sempre
solo per sempre

Mia madre che prepara la cena
cantando sanremo
carezza la testa a mio padre
gli dice vedrai che ce la faremo

Per sempre
solo per sempre
cosa sarà mai portarvi dentro solo tutto il tempo
per sempre
solo per sempre
c'è un istante che rimane lì piantato eternamente
per sempre
solo per sempre.

lunedì 24 febbraio 2014

la mia vita era un fucile carico

è che non c'è un paragone possibile.
Emily, Dickinson, scrive intorno alla metà del 1800, vive tra il 1830 e il 1884.
Annette, Von Droste Hulshoff, vive tra la fine del 1700 e il 1848.
stiamo parlando di due epoche di vita sovrapponibili, di contemporaneità, anche se certamente di due mondi di appartenenza molto diversi. 
la prima confinata, direi segregata, nella sua casa ad Amherst, nel Massachusetts, in un microcosmo fatto di piccole cose,  un dio e un padre sui quali riversare la sua rabbia.
l'altra nata in Germania, da rigida e conservatrice famiglia nobile cattolica negli anni della Restaurazione, di ampia cultura e di più vaste relazioni sociali con il suo mondo.
in entrambe c'è una lotta per un'autonomia espressiva, per un'emancipazione da un giogo religioso.
ma, naturalmente, vince, di grandissima misura, Emily. vince? stravince, trionfa esulta con un solo fulmine imperiale che scotenna la tua anima spogliata.
le poesie di Emily sono un miracolo di intensità, di linguaggio, di modernità.
chiusa in casa, ma imperiale e universale in poesia. senza mai chiedere pietà per se stessa, senza mai lacrime nè anatemi, Emily vive la sua solitudine volontaria, "il caso estremo di una vita scritta e mai vissuta" (Eugenio Montale): questa è la mia lettera al mondo/che non scrisse mai a me.
quelle di Annette sono ancora confinate a quel mondo femminile fatto di natura e di uccellini, di sperticati punti esclamativi, di alberi e ramoscelli, di corone d'iris, di lande e di agnellini.
un abisso.

Dolce quiete nell’erba, e vertigine dolce,
aromi che mi avvolgono,
flutto profondo, fondo, fondo, ebbrezza,
quando la nube sfuma nel turchino,
quando sul capo stanco, ciondolante,
discende una risata, dolce beffa,
e una voce cara, sussurrando,
si sparge come i fiori del tiglio su una tomba.
(…) Ore più fuggitive
del bacio di un raggio sul lago in gramaglie,
del canto d’un uccello trasvolante
che stilla giù dall’alto,
del corruscare dello scarabeo
che varca una striscia di sole,
del tepido contatto d’una mano
che indugia per l’ultima volta.
A me però, questo soltanto, cielo,
a me sempre concedi: per il canto
d’ogni libero uccello nell’azzurro,
un’anima che voli via con lui;
per ogni raggio, anche se povero,
il lembo della mia veste cangiante;
per ogni mano tepida, il tocco della mia;
e per ogni fortuna, il mio sogno.


Annette von Droste-Hulshoff


e va bene, la poesia al femminile, e siamo nell'800, è intrisa di tematiche ricorrenti di rassegnazione e di impotenza: il valore del sacrificio, la famiglia come nucleo imprescindibile, la morale cattolica che incide con il senso di colpa, l’ineluttabilità di un destino nascita-riproduzione-morte, la memoria che segna i passaggi della vita, la dimessa accettazione del presente, la consegna di un indottrinamento evangelico piuttosto che un sapere astratto. Emily Dickinson incarna alla perfezione l’immagine convenzionale di una donna priva di autonomia e comunque subordinata alle regole maschili, ma Emily è consistente, sofferente, scardinatrice della parola, capace della poesia che trasfigura il discorso, che rompe la tradizione -perchè nessuno vede dio e poi vive-, che affonda fino al cuore del mondo, l'altra è enfatica seppure in qualche modo ribelle e ardita per i suoi tempi.
la seconda non la conosco se non da qualche giorno per via delle mie letture sulla rivista Poesia, la prima, e dico Prima, la ascolto e leggo da molto tempo ormai. la frequento. ma leggendo le poesie di Annette mi ha colto la noia, non ci ho trovato niente nonostante le notizie di una sua ribellione, di una sua personale ricerca nonostante fosse definita "ideale monaca". il pensiero mi è volato a Emily, alla loro contemporaneità, e alla diversità abissale del linguaggio e del discorso.
quando il vento prende i boschi tra gli artigli
l'universo-tace.
perchè c'è un discorso, c'è un tema che sta a cuore ad ognuno di noi e quello di Emily è l'abisso della morte e tutta quella vita che ci sta intorno: è premio della vita – morire – più appagante se in un colpo solo –che morire a metà – poi riaversi a una più cosciente eclissi. 

C’è un certo taglio di luce,
i pomeriggi invernali –
che opprime, come la gravità
di armonie da cattedrale –

ferita celestiale, ci procura –
non troviamo cicatrice,
ma una differenza interna,
dove stanno i significati –

nessuno può insegnarlo – ad altri –
è il marchio Disperazione –
un’afflizione imperiale
mandataci dall’aria –

quando viene, il paesaggio ascolta –
ombre – trattengono il respiro –
quando va, è come la distanza
sui lineamenti della morte – 

La Solitudine non si osi sondarla -
è meglio fare ipotesi
che andare scandagliando la sua fossa
per chiarirne la misura -

la solitudine,  il cui incubo peggiore
è che le accada di vedersi -
è perire al cospetto di se stessa
dopo uno  sguardo appena -

l'orrore che non va osservato -
ma aggirato nel buio -
con la coscienza sospesa -
e l’essere sotto chiave -

Questo temo - sia la solitudine -
l’artefice dell'anima
le sue caverne,  i corridoi
i sigilli –o  illumini.


La mia vita era un fucile carico...
...
Per quanto più a lungo di lui io possa vivere
egli deve vivere più a lungo di me
perchè io ho solo il potere di uccidere
ma senza la capacità di morire.

Emily Dickinson


giovedì 20 febbraio 2014

a terra

vado al lavoro, CPS di Sesto San Giovanni, passo da Piazza Caneva.
prima di svoltare a destra e proseguire vedo una persona, una donna, a terra.
è sulla strada davanti ad alcune auto parcheggiate a spina di pesce.
è improbabile tirarla sotto ma è in una posizione più che visibile e comunque pericolosa.
soprattutto è a terra, accasciata, mezza nuda, sull'asfalto e ha gli occhi aperti spalancati.
penso: potrebbe anche essere morta.
nessuno si ferma.
io mi fermo.
accosto e corro.
è viva, si muove, biascica qualcosa.
puzza di alcool, ha bevuto, viene da una notte di terrore.
è certamente sudamericana, gli stivali in mano, gambe nude scoperte, ai piedi dei calzini neri di nylon.
una borsa vicino a lei, abbandonata.
trucco pesante ormai sfatto.
mi chino su di lei, piegandomi sulle gambe, le parlo, la tranquillizzo, la tocco, le chiedo come si chiama, le ingiungo di non muoversi. ma non mi risponde.
qualcuno si è fermato insieme a me, un motociclista, chiama il 118.
aspettiamo l'ambulanza.
piange, dice che vuole morire ma è molto confusa. della bava le cola dalla bocca. ripete parole che non capisco, in spagnolo credo, o forse in un italiano incomprensibile.
è calda, il cuore accelerato ma regolare, respira male.
le chiedo di respirare meglio, più profondamente ma non mi sente.
le chiedo di guardarmi, mi guarda e poi si agita, comincia a tremare violentemente.
corro in macchina, prendo la coperta che uso a yoga, le copro le gambe fredde e chiaramente cianotiche.
sono minuti lunghi, in cui trema e respira male. la tocco le mani il collo le gambe, ma sembra non vedermi.
la gente intorno si ferma, ma poco, qualcuno è curioso, più che altro.
dalla sua borsa prendo qualcosa che sporge, sono dei leggins leopardati, li piego e li infilo sotto la sua testa appoggiata sull'asfalto lurido e puzzolente. dalla borsa emerge una parrucca.
è la vita di questa gente perduta, prostituzione, travestitismo, alcool, droghe, consumo di corpi, violenza, abbandono. spazzatura.
mi chiedo: da quanto tempo è qui? da tutta la notte? non sarebbe possibile, qualcuno si sarebbe fermato.
glielo chiedo ma non mi risponde.
mi chiedo: quanta gente è passata senza fermarsi? qui il traffico è pazzesco, ora sono le 8.00, ma da almeno un'ora e mezza qui la gente passa, a piedi e in macchina.
è calda ma le gambe sono gelate, non è qui da 5 minuti.
il motociclista non si sposta, gli vedo solo le gambe e i guanti, non si abbassa, non chiede nulla, lascia fare a me. ci sono anche, da poco, le gambe di una donna, anche lei ferma immobile, in piedi. non li vedo in volto.
arriva l'ambulanza, mi dicono grazie, ora facciamo noi. spiego loro che sono un medico e, sommariamente, le condizioni della signora. ma non mi ascoltano, non mi danno retta, lavorano e basta. è un soggetto da prelevare, e consegnare. bisogna ripulire la strada.
mi riprendo la coperta e vedo che la montano sulla lettiga e in ambulanza, le dico che è tutto passato ora andrà in ospedale.
mi alzo, ho il cappotto fradicio e sporco, piegandomi si è inzuppato sull'orlo di questa pioggia di merda di questa città di merda di questo mondo di merda.

lunedì 17 febbraio 2014

l'altalena

dipinto vascolare- il pittore dell'altalena, conservato a Berlino

L' altalena, per i greci, aveva un luogo e un momento di nascita ben precisi, e anche, quantomeno ad Atene, una importantissima funzione sociale. A raccontarci quale fosse questa funzione è, come sempre, un mito. Nella specie, un mito poco noto, ma legato a uno celeberrimo: quello degli Atridi raccontato da Eschilo nell' Orestea. Clitennestra, che d' accordo con il suo amante Egisto ha ucciso il marito Agamennone, viene uccisa dal figlio Oreste, che vuole - e nella mentalità dell' epoca deve - vendicare il padre. Ma, anche in quel mondo, il terribile mondo della vendetta, il matricidio è una colpa inespiabile. Perseguitato dal rimorso Oreste fugge, inseguito, oltre che dalle Erinni che vogliono fargli pagare il terribile gesto, anche dalla sorellastra Erigone, la figlia che Clitennestra ha avuto da Egisto. Ma quando giunge ad Atene Oreste viene assolto: «Il vero genitore - decreta la dea Atena, esprimendo quel che pensavano se non tutti, quantomeno molti greci - non è la madre, bensì il padre». A questo punto Erigone, disperata, si impicca. Senonché, quando la notizia si sparge, le vergini ateniesi, come se fossero state contagiate, prendono a impiccarsi in massa. La città rischia di estinguersi. Preoccupatissimi, gli ateniesi si precipitano a interpellare l' oracolo di Apollo, che suggerisce un rimedio: basta costruire delle altalene, così che le ragazze possano dondolarsi nell' aria, come quelle che si impiccano, ma senza perdere la vita. La città è salva, gli ateniesi sono felici, le ragazze ateniesi ancor più di loro, e l' altalena diventa il gioco preferito delle ragazze di tutti i tempi.


così leggo, ascolto, dal libro di Eva Cantarella: L'amore è un dio, una raccolta di miti, leggende, storie di donne come Medea e Fedra, amori omerici, processi famosi, che parlano, trattano intorno alla questione dell'amore o, forse meglio, della figura femminile al tempo dei greci.
il capitolo finale è dedicato a Erigone e la leggenda dell'altalena. e ne sono rimasta folgorata.
Erigone, della anche Aletis -la vagabonda- si impicca disperata alla notizia di non poter avere giustizia per la morte di suo padre e ne segue una follia collettiva, tutte le giovani donne ateniesi, vergini come lei, si impiccano in massa. l'oracolo indica l'altalena come rimedio, ovvero quel dondolio per aria che mima la morte per impiccagione. questo passaggio simbolico mi affascina e mi cattura e, prosegue la Cantarella, è stato riproposto più volte nell'arte e letteratura greca. Pausania, descrivendo il dipinto di Polignoto: Fedra in altalena, ne ripropone appunto, la lettura in termini simbolici: anche Fedra si è impiccata, rea di amare il figliastro Ippolito, e l'altalena ne è la sua rappresentazione. in una famosa pittura vascolare - riportata all'inizio della pagina, e che si può vedere a Berlino- il pittore dell'altalena aggiunge un ulteriore messaggio a questa connessione tra la morte e l'altalena, inserendo anche un elemento di natura sessuale. l'altalena su cui Aletis -in basso alla pittura si può leggere ALE, Aletis, Erigone-si dondola non è una semplice altalena ma un trono con 4 gambe e drappeggi e rappresenta quindi un mito, in cui compare, di spalle alla fanciulla, la figura del satiro, sicuro riferimento sessuale. il dondolio, mi viene da pensare, richiama la morte per impiccagione, ma richiama anche il movimento ondulatorio del rapporto sessuale, e quel satiro che spinge l'altalena collega l'amore fisico alla morte, a una qualche forma di passaggio rituale.
l'altalena potrebbe così rappresentare il rito di passaggio dalla verginità alla maturità sessuale delle donne. e altri racconti possono confermare questa simbolizzazione. in Tessaglia, il tiranno Tartaro, si faceva portare giovani donne vergini per stuprarle. una di loro, Aspalis, per salvarsi da questa violenza che segnava la fine della sua pubertà, della sua verginità, preferì impiccarsi. dopo la sua  morte il corpo della defunta cominciò a cambiare aspetto.
in Arcadia, una festa in onore di Artemide celebra un gruppo di giovani vergini che, mentre si prestavano a osservare il rito, si sentirono, improvvisamente, minacciate da una forza oscura, il timore di una violenza, di una violazione del loro corpo e si impiccarono, in massa. i loro corpi, dopo la morte, si trasformarono in noci, appese agli alberi presso cui si erano impiccate. ecco dunque che l'impiccagione, quel dondolio che richiama il coito, assume l'aspetto di un rito di passaggio, dalla verginità alla maturazione sessuale, a una rinascita -un cambiamento del corpo dopo la morte- a una morte simbolica dell'iniziata, verso una nuova vita, quella vita alla quale le donne greche erano destinate, il matrimonio e la procreazione. un rito non procrastinabile, un passaggio non demandabile, la donna greca aveva il ruolo di fare figli, di riprodurre la specie.
durante le Antesterie, feste celebrate in onore di Dioniso che hanno a che fare direttamente col piacere del vino e con il "fiorire primaverile", le giovani donne richiamavano il rito di Erigone, destinato a uccidere la vergine per far nascere la donna, un rito che ricorda anche una solitudine estrema, una segregazione nel ruolo. il nome Aletis -la vagabonda- richiama una forma di isolamento, un vagare senza meta, una segregazione appunto: la morte iniziatica è preparata da un periodo di allontanamento dalla comunità e l'altalena, più che mai, esprime anche un distacco, da terra, dal mondo, sospeso nell'aria.

e pensare che, per me, era solo un'altalena.

giovedì 13 febbraio 2014

Fornasetti for ever

“Ho così vestito di vestigia ceramiche, mobili e cose 
e ho così riposto in ogni opera un messaggio, 
un piccolo racconto certe volte ironico, 
senza parole evidentemente, 
ma udibile da chi crede nella poesia“ 
Piero Fornasetti

mammamia è un'orgia di cose e di colori e di oggetti questa mostra.
un'orgia.
se ne esce quasti storditi da troppa abbondanza, ma felici.
per tutto il tempo della mostra, man mano che venivo travolta, assalita?, dalla produzione INFINITA di questo genio della creatività, mi sono domandata che specie di bulimia, di voragine, di buco nero insaziabile doveva animare e muovere l'energia inesauribile di questo autore.
certamente aspirava all'eternità, un bisogno così ossessivo di colmare ogni vuoto, ogni mancanza, ogni spazio, vorrebbe annullare l'ineluttabilità della morte.
un'amica mi disse, prima che la vedessi: avrei comprato tutto.
un'altra bulimica!
di fatto si fanno i conti con una produzione oggettistica che ha dell'inverosimile -quanti secoli ha vissuto quest'uomo per avere il tempo di fare tutto questo?- con una fantasia e una prolificità apparentemente instancabili.
Un artista che vuole avere successo non è più un artista. E’ una persona che vuole avere successo. Se si adegua alle mode arriva in ritardo perché ormai si sono adeguati tutti. Quindi forse l’idea è quella di non adeguarsi, di essere originale. Per esempio sto proponendo l’idea di creare delle cose per la moda che non passino di moda.
cosa ho visto? tutto.
secondo me non mancava niente.

portaceneri
vassoi
paraventi
portaombrelli
tavoli
carte da parati
troumeau
gatti
foulard
tappeti
stampe
caffettiere e teiere
tazze
porte
scrivanie
posate
calendari
madie
specchi
camere di appartamenti e sale cinematografiche.

tutto.
sarò rimasta stordita o ipnotizzata ma mi è piaciuto tutto!
anche la patologia di cui soffriva, il Fornasetti.
il segno, il codice, il suo è inconfondibile, dal pesce alla farfalla, dai volti alle mogolfiere.

Pittore, stampatore, progettista, collezionista, stilista, raffinato artigiano, decoratore, gallerista e ideatore di mostre, Fornasetti è stato una personalità estremamente ricca e complessa. Ha disegnato e realizzato circa 13.000 tra oggetti e decorazioni: un universo fatto in egual misura di rigore progettuale, artistico e artigianale come di fantasia sfrenata, invenzione surrealista e poesia. Il percorso della mostra alla Triennale di Milano si articola in sezioni che spaziano dagli esordi pittorici vicini al Novecento alla stamperia di libri d’artista, dalla stretta collaborazione con Gio Ponti negli anni ’50 e ’60 ai più difficili anni ’70 e fino al 1988, anno della sua morte, un lungo periodo contrassegnato per la maggior parte dal dogma razionalista imperante della funzionalità nell’architettura e nel design che ha fatto di lui una figura marginale senza per questo spegnerne la creatività vulcanica. La mostra si compone di oltre 1000 pezzi provenienti per la maggior parte dallo straordinario Archivio curato da Barnaba Fornasetti, che prosegue ancora oggi l’attività avviata dal padre.





Mi piace per esempio, in questi ultimi tempi, dipingere all’acquerello dei fiori delicati. E che sulla carta ci sia il meno possibile, avendo cercato di capire la lezione di Morandi. La teoria dello Zen. Guarda il bambù per dieci anni, poi dimenticalo, poi dipingi il bambù. Interiorizzare, creare, produrre. Non faccio i ritratti dal vero, li estraggo dalla memoria. Magari faccio degli schizzi ma poi produco tutto a memoria altrimenti che ritratti sono! Sarebbero una copia. Io mangio mele perché mi piacciono, poi faccio disegni di mele: l’essenza della mela.


Il nostro mestiere è senza limite, a tempo pieno. Non c’è orario. 
Giorno, e anche notte. I miei sogni li traduco in realtà, qualunque cosa faccia.

A chi mi chiede lumi per apprendere il “design”, questo strano mito dei nostri tempi, rispondo: Andate a scuola di nudo questa è la scuola cui apprendere il design. Il saper disegnare, come gli antichi, permette di organizzare, di progettare una cosa o un oggetto, una vettura o il frontespizio o la pagina di un libro.


Mi reputo anche l’inventore del vassoio, perché ad un certo momento della nostra civiltà non si sapeva più come porgere un bicchiere, un messaggio, una poesia. Sono nato in una famiglia di pessimo buon gusto e faccio del pessimo buon gusto la chiave di liberazione della fantasia.

Dai canoni e dagli ordini ho imparato il rigore, l’amore per la simmetria, l’equilibrio e si può dire in questi tempi di barbaro ritorno alle barbarie, L’ARMONIA. Li ho riproposti su delle forme semplici e pulite, ho sposato la decorazione alla forma

‘…Un oggetto Fornasetti ha il potere di cambiare le vibrazioni di un luogo, e non in virtù del suo essere un oggetto bello e decorativo – non si tratta di questo. Potreste trovarvi ad esempio in una stanza molto bella, decorata con gusto, piena di begli oggetti di design, ma che resta sostanzialmente una stanza con i piedi per terra. Mettete un Fornasetti in questa stessa stanza e ed essa assumerà una dimensione del tutto differente, quella del sogno… Ogni oggetto di Fornasetti è una porta aperta attraverso la quale si viene risucchiati, come avviene in `Alice nel paese delle meraviglie’. 
 Dal libro di Brigitte Fitoussi, “Fornasetti, conversation with Philippe Starck”

adesso è facile, si potrebbe dire, ma questo pensiero l'ho sfiorato anch'io.
aggirandomi nel mondo fantastico di quest'uomo io ho pensato ad Alice nel Paese delle Meraviglie, mia adorata.
è come quando una porta di una stanza con un tavolo altissimo si apre su un mondo nuovo e un fantastico giardino di viole pansé, quando la caduta in un pozzo apre a un'altra dimensione, quando mangiare un pezzo di fungo ti eleva sopra gli alberi con un collo di giraffa.
quando ho letto in questo commento sono stata felice di aver avuto un pensiero condiviso.
Fornasetti for ever.

lunedì 10 febbraio 2014

non vorrei nemmeno la condanna che abbiamo imposto a Dio, cercandolo: il suo esistere per sempre

(fuggire dentro)

Tutto sembra calmo poi la sera,
io la conosco bene l’ora che batte. Me ne vado
con il giorno che arriva, cenno e graffio incolore
la luce, sonno breve le vene.
In quell’attimo, una sola prigionia: dell’aria dentro il fumo.

È lo stesso lampo che annuncia condivisa
una battaglia che non sarà la mia: nel vuoto, anche le colpe
anche la vita, e mai però innocenza,
cadono gocce e nessuna da sola è tempesta.
Dopo, non ci sarà colpa in cui riflettere visi
tutti uguali, tutto in pasta di fumo e polvere.

Tutti siamo costretti dentro luoghi senza prove
dell’esistenza, nuda, della morte.
Del resto io non vorrei nemmeno la condanna
che abbiamo imposto a Dio, cercandolo:
il suo esistere per sempre, avere sempre su di noi
aperti gli occhi vigili, vedere tutto, l’irreparabile,
sapere tutto del disastro che da qui va dentro,
nel suo cielo e non poterlo dire
è la sua prigione, senza fine mai.

Mario De Santis
La polvere nell’acqua

sono stati giorni intensi, sfiancanti.
e anche deludenti, per chi si aspetta ancora qualcosa.
cercavo l'ordine del buon  tempo e mi sono ritrovata nel caos della rabbia e del fuori legge.
volevo un passo lento e misurato e ho corso disperata accumulando ritardo, affannata.
ho fatto solo guai.
al convegno SLP - sarò mai all'altezza degli studi che mi impongo?- mi sono concentrata per dipanare il fantasma e il reale che lo sostiene e, a tratti, ho pensato di capire.
sono rimasta folgorata da una frase, di Lacan, lacerante perchè buca il reale.
"L'altro manca. Questo fa uno strano effetto pure a me. Tengo duro tuttavia; il che vi sbalordisce, ma non lo faccio per questo".
questo "strano effetto", quel "tengo duro" che non senza ironia Lacan lancia, questa voce così toccante e personale con cui parla senza aspettarsi più nulla, neanche più la sorpresa, scoprono il lato di esperienza dell'incontro con la radicalità della mancanza - così ascolto alla fine di lunghe ore di conversazione teorica e clinica. è stato un momento drammatico, l'ho sentito così, per tutti, dentro quella sala.
lo vivo, ne sono ormai certa, l'altro manca, è dura appunto, ma la vita, e la sua analisi, mi insegnano così. 
si vive in mancanza.
lasciamo a dio il suo esistere per sempre.


venerdì 7 febbraio 2014

Blind Date

cercando con tutte le mie forze di dimenticare l'infelice contesto, questo gentile e sentimentale e spiritoso e appassionato evento di teatro danza è stata una vera meraviglia.
l'impianto, l'orientamento di Pina Bausch, maestra indiscussa di Mei-hong Lin, è inequivocabile.
molto di quel che ho visto, godendone, mi ha ricordato l'ultimo balletto della Bausch, che vidi tre anni fa, Vollmond. (http://nuovateoria.blogspot.it/2011/02/vollmond-la-luna-piena-di-pina-bausch.html).
anche qui, come allora, la danza parla e racconta il mondo dei rapporti, con umorismo commozione allegria, tra l'uomo e la donna. tra uno e l'altro.





l'appuntamento al buio, mi verrebbe da dire, non è solo quella strana invenzione, quel buffo nome che si da agli appuntamenti tra due persone che non si conoscono, ma, ogni appuntamento, tra un uomo e una donna, o tra due uomini e tra due donne, va da sè.., è un appuntamento al buio.
siamo sempre al buio, e totale, integrale, di fronte all'altro. e qui si rappresenta quel gioco d'azzardo, quella scommessa che sta dietro ogni incontro, la cui fortuna risiederà nella capacità di saper vedere l'altro, rinunciando un po' a imporre se stessi. in verità, temo, la capacità d'incontro, e fose anche la voglia, vengono ormai schiacciati e rimpiccioliti dalla paura, le persone, uopmini o donne, vengono goduti per un attimo, consumati in un gesto, digeriti velocemente, e poi rapidamente rimpiazzati dal successivo oggetto di consumo, e così via sulla scia inesorabile, alla fine, della solitudine.
lo spettacolo di Mei-hong Lin è più leggero di quello di Pina Bausch, è una narrazione più divertente che drammatica, anche l'impianto scenico non ha la forza espressiva e depurativa di quel fiume d'acqua che mi travolse tre anni fa.
la leggerezza ha un suo peso, sono matta?, si ce l'ha, perchè la leggerezza toglie il velo dell'oppressione, della centralità dell'io, della tragicità dell'autoriferimento, e apre la strada della lucidità, della fluidità, dello sguardo senza giudizio.
sarebbe così bello vedere uomini e donne felici perchè meravigliosamente leggeri, non gravati dalla volitività dell'autoaffermazione, dalla convinzione della superiorità della propria sofferenza. ce ne sono?
qui, a casa di Mei-hong Lin, si balla e si racconta, si ride parecchio, si sorride molto, ci si diverte, spesso identificandosi in quel tipo femminile, a volte rigettando quell'altro, osservando la veridicità di gesti maschili, la loro stessa banalità, la ripetitività isterica di quelli femminili, il loro grido d'amore, e il disordine dell'incontro, quando c'è, tra le due nature esistenti al mondo.
perchè non ce n'è, al mondo siamo in due, non ce ne sono altri. c'è l'uomo e c'è la donna.
in fondo, lo racconta anche la mitologia greca ripresa nel Simposio di Platone, la ricerca dell'altro, l'unificazione nell'altro nell'atto sessuale, non è altro che il ritorno all'origine dell'uomo. prima della nascita di uomini e donne, c'erano creature sferiche che possedevano entrambi i sessi, quello maschile e femminile, nelle tre combinazioni possibili: o due organi sessuali maschili, o due femminili, o uno maschile e uno femminile (l'androgino). Zeus, spaventato dalla potenziale evoluzione onnipotente e dalla tracotanza di queste creature, le divise. e l'ombelico è la cicatrice evidente di questa divisione, un rattoppo dopo aver raccolto le viscere sparse delle sfere divise a metà!
Da tempo è dunque connaturato che negli uomini l'amore degli uni per gli altri che si fa conciliatore dell’antica natura e che tenta di fare un essere solo da due e di curare la natura umana.
(Simposio 191c-d)
ed è così allora, che l'uomo cerca la donna per riportare tutto all'origine di quella fusione originaria.
altrettanto vero però è che a questa unione, al termine della fusione sessuale, rimarra solo la tragicità di un'unione perduta e mai più raggiungibile se non per brevi momenti.
Questo è il motivo per il quale la nostra natura antica era così e noi eravamo tutti interi: e il nome d'amore dunque è dato per il desiderio e l'aspirazione all'intero.
(Simposio 192e)
ed ecco, raccontato nello spettacolo, ballando e parlando, l'incontro tra queste due entità mancanti, sempre in mancanza, ognuno con il proprio linguaggio, logico razionale quello maschile, relazionale e affettivo quello femminile. due linguaggi inconciliabili che riescono a toccarsi solo nella follia dell'amore, nella possessione dell'amore che va oltre la ragione, che va oltre il discorso logico, che sconfina. due innamorati che si parlano, delirano in fondo no?? tu mi fai impazzire...se non ci fossi tu crollerebbe il mondo... e per gli uomini le donne sempre saranno un po' matte ed esigenti,  e per le donne gli uomini sempre freddi e razionali.
leggo in un'intervista sul Corriere a Mei-hong Lin:
Come ha tradotto in danza i differenti mondi emotivi di donne e uomini? «C?è un modo diverso di trasportare le emozioni all'infuori, nel movimento, e quindi nella danza. È stato un atto naturale nato dalla personalità dei miei ballerini. Li scelgo di forte personalità, con differenti modi di esprimersi, avidi di sapere, curiosi non solo verso la danza ma verso la vita». Che cosa le ha insegnato Pina Bausch? «Da Pina ho imparato che non importa ciò che danzo, ma perché danzo, cosa voglio raccontare, la ragione per la quale mi muovo in un certo modo».
e questa impronta è davvero unica e singolare in questi ballerini, del The Darmstadt State Theatre Dance Company, che esulano dalla classicità della danza. spesso non sono belli nè fisicamente perfetti -ma questa volta c'erano elementi di grande interesse!- non hanno il portamento nè la rigida compostezza del ballerino, ma hanno uno stile personale e singolare, anche svagato, anche impreciso, ma così intensamente espressivo.

giovedì 6 febbraio 2014

still life

Uberto Pasolini, il regista.
Still life, il film (natura morta).
regista italiano, produzione inglese.
presentato alla 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, dove ha vinto il premio per la miglior regia nella sezione "Orizzonti".
il film, straordinario.
apparentemente funereo, fondamentalmente, radicalmente, vitale.
poesia, elegia, celebrazione della gestualità umana quando sa essere profonda e rispettosa dell'altro.



John May è un solitario funzionario comunale, il cui lavoro consiste nel rintracciare i parenti più prossimi delle persone morte in totale solitudine. May svolge il suo lavoro con estrema meticolosità e conduce una vita tranquilla e ordinaria, fatta di ossessivi riti quotidiani. Un giorno gli viene affidato il caso di Billy Stoke, un uomo alcolizzato morto in solitudine a pochi passi da casa sua. Così inizia a raccogliere indizi sulla sua vita e a cercare le persone a cui è stato legato. Ma a causa della crisi economica gli viene comunicato che il suo ufficio sta per essere ridimensionato e sarà licenziato in quanto in esubero. John May non si abbatte e convince il suo capo a concedergli qualche giorno per portare a termine il suo ultimo caso. Durante le sue ricerca conosce Kelly, la figlia di Billy Stoke abbandonata durante l'infanzia, e nei suoi viaggi, alla ricerca delle persone che hanno conosciuto Stoke, John May ha modo di riassaporare la vita.

è commovente la precisa descrizione del rituale ossessivo che difende dall'oppressione della morte, che è poi la natura profonda di tutti gli ossessivi, ritualizzare e ripetere per scongiurare la paura del nulla. è così. John May, organizza la sua solitaria giornata in modo rigoroso e ineccepibile, ogni gesto, lavorativo e non, è sostenuto da una ripetizione infinita di moduli e rituali e non c'è nulla al mondo che possa creare migliore difesa verso l'inconoscibile. ripetere quel che si sa, quel che sappiamo che matematicamente avverrà, scongiura in modo, illusoriamente, definitivo la mostruosità dell'imprevisto.
ma dentro il suo rituale John May, che si occupa di ricostruire la vita e le relazioni familiari di chi è morto in solitudine, dimenticato, magari già putrefatto dopo settimane dalla morte da nessuno reclamata, compie una rivoluzione in controtendenza, restituisce dignità alla morte, celebrandola e restituendola di senso.
che la morte abbia, almeno, una vita da concludere.
c'è così tanta umanità in quest'uomo piccolo e solo, irrigidito e premuroso, da renderlo amabile e glorioso.
l'effetto più straordinario del film, con un finale, oltre che coerente anche vittorioso, è quello dell'innamoramento. inaspettato e insperato: l'incontro d'amore innesca la dimenticanza del rituale, innesca il ripensamento a una vita terrena possibile, non solo in difesa della morte, ma anche attuale e sentimentale. sarà questo imperdonabile sogno a far dimenticare a John il rituale scaramantico per poi, proprio nel momento in cui non penserà alla morte, morire.
morire sognando l'amore.
bellissimo.

sabato 1 febbraio 2014

se non avessi l’ombra che si disegna sola

Dove ci sono ancora case vuote, lí finisce Roma
si lacera di strade senza targa, dove la notte
è solo mani di rissa e crudeltà di cani.
Guardo lasciando che nel buio
cadano gocce rumorose. L’acqua
che non ha spessore, che non è diretta,
porta il suo ritmo verso il niente,
diviene danza ossessiva di pianeti
.
Nessuno sembra sveglio, qui; o sono tutti
         oltre frontiera
lungo le scale
e i corridoi cammino
         respirando
tornando a casa a bocca aperta, io
         solo testimone.
Qui la vittoria o la sconfitta sono sconosciute:
resta la ferocia delle cose. Non riconosco nulla
dalla finestra, tutto è uguale, è la polvere
        che vaga
dunque non c’è nient’altro dietro le nostre
vite: se non avessi l’ombra che si disegna sola,
quella di un cane a cui somiglio, sarei davvero
anch’io una cosa, abbandonata tra gli agguati,
di nuovo nel deserto della strada immobile
nel giorno identico a ieri
che arriva tardi, che non si sbaglia mai.

Mario De Santis
La polvere nell’acqua



Mario DeSantis è nato a Roma ma vive a Milano.
scrive Roma, nella poesia, ma lo perdono.
Roma, Milano, nessuna differenza se si tratta della realtà brutale e offensiva delle cose.
ci sono immagini, in questa poesia, fortissime, ma fortissime.
sono schiantata, io, la poesia e il suo autore. e sta pioggia che mi cancella, si schiantasse pure lei.
crudeltà di cani gocce rumorose  danza ossessiva di pianeti nel giorno identico a ieri che non si sbaglia mai.
sono pesante così, irrialzabile.