bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 31 marzo 2014

io so

ripensando all'Io so di Pasolini,
...
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.

...
famoso pezzo giornalistico pubblicato dal Corriere della Sera nel 1947, Saviano compone il suo.  

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d'economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. 
Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra: «È falso» all'orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità. Cerco sempre di calmare quest'ansia che mi prende ogni volta che cammino, ogni volta che salgo scale, prendo ascensori, quando struscio le suole su zerbini e supero soglie. Non posso fermare un rimuginio d'anima perenne su come sono stati costruiti palazzi e case. 
... Non riesco proprio a scordarmi come funziona il ciclo del cemento quando vedo una rampa di scale, e non mi distrae da come si mettono in torre le impalcature il vedere una verticale di finestre. Non riesco a far finta di nulla. Non riesco proprio a vedere solo il parato e penso alla malta e alla cazzuola... Il cemento. Petrolio del sud. Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nato nel mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: gare d'appalto, appalti, cave, cemento, inerti, malta, mattoni, impalcature, operai. L'armamentario dell'imprenditore italiano è questo. L'imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile, conquistare fiducia, assumere persone nel tempo adatto di un'elezione, distribuire salari, accaparrarsi finanziamenti, moltiplicare il proprio volto sulle facciate dei palazzi che si edificano. Il talento del costruttore è quello del mediatore e del rapace. Possiede la pazienza del certosino compilatore di documentazioni burocratiche, di attese interminabili, di autorizzazioni sedimentate come lente gocce di stalattiti. E poi il talento di rapace, capace di planare su terreni insospettabili sottrarli per pochi quattrini e poi serbarli sino a quando ogni loro centimetro e ogni buco divengono rivendibili a prezzi esponenziali. L'imprenditore rapace sa come usare becco e artigli. Le banche italiane sanno accordare ai costruttori il massimo credito, diciamo che le banche italiane sembrano edificate per i costruttori. E quando proprio non ha meriti e le case che costruirà non bastano come garanzie, ci sarà sempre qualche buon amico che garantirà per lui. La concretezza del cemento e dei mattoni è l'unica vera materialità che le banche italiane conoscono. Ricerca, laboratorio, agricoltura, artigianato, i direttori di banca li immaginano come territori vaporosi, iperurani senza presenza di gravità. Stanze, piani, piastrelle, prese del telefono e della corrente, queste le uniche concretezze che riconoscono. 
Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezz'Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi, ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file infinite dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia. Camion in fila, che attraversavano le terre costeggiate da contadini che mai avevano visto questi mammut di ferro e gomma. Erano riusciti a rimanere, a resistere senza emigrare e sotto i loro occhi gli portavano via tutto. Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova. Ora non è più il fiume che va al mare, ma il mare che entra nel fiume. Ora nel Volturno si pescano le spigole, e i contadini non ci sono più. Senza terra hanno iniziato ad allevare le bufale, dopo le bufale hanno messo su piccole imprese edili assumendo giovani nigeriani e sudafricani sottratti ai lavori stagionali, e quando non si sono consorziati con le imprese dei clan hanno incontrato la morte precoce. 
Io so e ho le prove. Le ditte d'estrazione vengono autorizzate a sottrarre quantità minime, e in realtà mordono e divorano intere montagne. Montagne e colline sbriciolate e impastate nel cemento finiscono ovunque. Da Tenerife a Sassuolo. La deportazione delle cose ha seguito quella degli uomini. In una trattoria di San Felice a Cancello, ho incontrato don Salvatore, vecchio mastro. Una specie di salma ambulante, non aveva più di cinquant'anni, ma ne dimostrava ottanta. Mi ha raccontato che per dieci anni ha avuto il compito di smistare nelle impastatrici le polveri di smaltimento fumi. Con la mediazione delle ditte dei clan lo smaltimento occultato nel cemento è divenuta la forza che permette alle imprese di presentarsi alle gare d'appalto con prezzi da manodopera cinese. Ora garage, pareti e pianerottoli hanno nel loro petto i veleni. Non accadrà nulla sin quando qualche operaio, magari maghrebino, inalerà le polveri crepando qualche anno dopo e incolperà la malasorte per il suo cancro. 
Io so e ho le prove. Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento. Loro stessi sono parte del ciclo del cemento. Io so che prima di trasformarsi in uomini di fotomodelle, in manager da barca, in assalitori di gruppi finanziari, in acquirenti di quotidiani, prima di tutto questo e dietro tutto questo c'è il cemento, le ditte in subappalto, la sabbia, il pietrisco, i camioncini zeppi di operai che lavorano di notte e scompaiono al mattino, le impalcature marce, le assicurazioni fasulle. Lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell'economia italiana. La costituzione dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono uniche concretezze che riconoscono. Sono loro i padri. Non Ferruccio Parri, non Luigi Einaudi, non Pietro Nenni, non il comandante Valerio. Furono i palazzinari a tirare per lo scalpo l'Italia affossata dal crac Sindona e dalla condanna senza appello del Fondo Monetario Internazionale. Cementifici, appalti, palazzi e quotidiani. Nell'edilizia finiscono gli affiliati al giro di boa. Dopo che si fa una carriera da killer, da estorsore o da palo, si finisce nell'edilizia o a raccogliere spazzatura ... Di lavoro si muore. In continuazione. La velocità di costruzioni, la necessità di risparmiare su ogni tipo di sicurezza e su ogni rispetto d'orario. Cento euro a settimana la paga con lo straordinario notturno e domenicale di cinquanta euro ogni dieci ore. I più giovani se ne fanno anche quindici. Magari tirando coca. Quando si muore nei cantieri, si avvia un meccanismo collaudato. Il corpo senza vita viene portato via e viene simulato un incidente stradale. Lo mettono in un'auto che poi fanno cadere in scarpate o dirupi, non dimenticando di incendiarla prima. La somma che l'assicurazione pagherà verrà girata alla famiglia come liquidazione. Non è raro che per simulare l'incidente si feriscano anche i simulatori in modo grave, soprattutto quando c'è da ammaccare un'auto contro il muro, prima di darle fuoco con il cadavere dentro. ... Tutti i costruttori sanno che funziona in questo modo. E le ditte del sud danno garanzie migliori. Lavorano e scompaiono e ogni guaio se lo risolvono senza clamore. 
Io so e ho le prove. E le prove hanno un nome. In sette mesi nei cantieri a nord di Napoli sono morti quindici operai edili. Caduti, finiti sotto pale meccaniche, o spiaccicati da gru gestite da operai stremati dalle ore di lavoro. Bisogna far presto. Anche se i cantieri durano anni, le ditte in subappalto devono lasciar posto subito ad altre. Guadagnare, battere cassa e andare altrove. Oltre il 40 per cento delle ditte che operano in Italia sono del sud. Agro aversano, napoletano, salernitano. A sud possono ancora nascere gli imperi, le maglie dell'economia si possono forzare e l'equilibrio dell'accumulazione originaria non è stato ancora completato. A sud bisognerebbe appendere, dalla Puglia alla Calabria, dei cartelloni con il BENVENUTO per gli imprenditori che vogliono lanciarsi nell'agone del cemento e in pochi anni entrare nei salotti romani e milanesi. Un BENVENUTO che sa di buona fortuna dato che la ressa è molta e pochissimi galleggiano sulle sabbie mobili. 
Io so. E ho le prove. E i nuovi costruttori, proprietari di banche e di panfili, principi del gossip e maestà di nuove baldracche celano il loro profitto. Forse hanno ancora un'anima. Hanno vergogna di dichiarare da dove vengono i propri guadagni. Nel loro paese modello, negli USA, quando un imprenditore riesce a divenire riferimento finanziario, quando raggiunge fama e successo accade che convoca analisti e giovani economisti per mostrare la propria qualità economica, e svelare le strade battute per la vittoria sul mercato. Qui silenzio. E il danaro è solo danaro. E gli imprenditori vincenti che vengono dall'aversano, da una terra malata di camorra, rispondono senza vergogna a chi li interroga sul loro successo: «Ho comprato a dieci e venduto a trecento». Qualcuno ha detto che a sud si può vivere come in un paradiso. Basta fissare il cielo e mai, mai osare guardare in basso. Ma non è possibile. L'esproprio d'ogni prospettiva ha sottratto anche gli spazi della vista. Ogni prospettiva si imbatte in balconi, soffitte, mansarde, condomini, palazzi abbracciati, quartieri annodati. Qui non pensi che qualcosa possa cascare dal cielo. Qui scendi giù. Ti inabissi. Perché c'è sempre un abisso nell'abisso. Così quando calpesto scale e stanze, quando salgo negli ascensori, non riesco a non sentire. Perché io so. Ed è una perversione. E così quando mi trovo tra i migliori e vincenti imprenditori non mi sento bene. Anche se questi signori sono eleganti, parlano con toni pacati, e votano a sinistra. Io sento l'odore della calce e del cemento, che esce dai calzini, dai gemelli di Bulgari, dalle loro librerie. Io so. Io so chi ha costruito il mio paese e chi lo costruisce anche adesso. So che stanotte parte un treno da Reggio Calabria che si fermerà a Napoli a mezzanotte e un quarto e sarà diretto a Milano. Sarà colmo. E alla stazione i furgoncini e le Punto polverose preleveranno i ragazzi per nuovi cantieri. Un'emigrazione senza residenza che nessuno studierà e valuterà poiché rimarrà nelle orme della polvere di calce e solo lì. Io so qual è la vera Costituzione del mio tempo, qual è la ricchezza delle imprese. 
Io so in che misura ogni pilastro è il sangue degli altri.
Io so e ho le prove. Non faccio prigionieri.

questo Io so ha in sè un'evoluzione, un'accelerazione.
Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei reati e renderli elementi dell'architettura dell'autorità. Se era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l'affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura. 
Saviano ha scritto un libro pazzesco, con un linguaggio solido e granitico, senza sottrazioni nè sfumature, e io, e non credo proprio di essere l'unica, ne sono affascinata e schiantata. rispetto a Pasolini fa un passo oltre. Saviano sa e ha le prove, che le abbia o meno.
Saviano da il meglio di sè, oltre che nelle lunghe interminabili pagine di narrazione con nomi e cognomi di questo mondo di potere e di sangue, soprattutto in quelle in cui esalta il valore della parola, della scrittura, come denuncia e come enunciazione. c'è un più di coraggio e di consapevolezza, c'è un messaggio veicolato tramite la parola che ha valore di verità. l'io so sta nella non sottrazione di sè, nell'esposizione tramite la parola che dice nella forma concreta della sintassi e della voce che legge.
Don Peppino scavò un percorso nella crosta della parola, erose dalle cave della sintassi quella potenza che la parola pubblica, pronunciata chiaramente, poteva ancora concedere. Non ebbe l'indolenza intellettuale di chi crede che la parola ormai abbia esaurito ogni sua risorsa che risulta capace solo di riempire gli spazi tra un timpano e l'altro. La parola come concretezza, materia aggregata di atomi per intervenire nei meccanismi delle cose, come malta per costruire, come punta di piccone. Don Peppino cercava una parola necessaria come secchiata d'acqua sugli sguardi imbrattati. Il tacere in queste terre non è la banale omertà silenziosa che si rappresenta di coppole e sguardo abbassato. Ha molto più a che fare col "non mi riguarda". L'atteggiamento solito in questi luoghi, e non solo, una scelta di chiusura che è il vero voto messo nel seggio dello stato di cose. 

giovedì 27 marzo 2014

Ida

film polacco, di Pawel Pawlikowski, bianco e nero, acclamato come un capolavoro.
o almeno recensito come un film da 4 o 5 stelle, "da non perdere".

Ida è una novizia, a breve prenderà i voti. siamo nel 1962, nella piena e grigia e austera Polonia comunista.
prima della consacrazione, Ida viene invitata dalla sua superiora a conoscere la sua unica parente, una zia, magistrato, figura enigmatica e di potere, appartenente all'élite della dirigenza comunista, che le rivela alcuni questioni non da poco sulla sua vita, sulla sua famiglia. Ida scopre di essere figlia di una coppia ebrea, trucidata e sepolta da qualche parte nel territorio della famiglia di origine; lei, piccolissima, è stata affidata alle cure delle suore, e da loro cresciuta, per salvarla dalla furia nazista.
la zia, una donna, come dire, piuttosto intraprendente, dai modi sicuri e impositivi fino all'arroganza, probabilmente enfatizzati dal potere esercitato per anni nelle aule di giustizia, le fa da guida in questa ricerca. è una donna disperata, alcolizzata, perduta nei ricordi e nei rimorsi. perduta e senza dio, secondo gli occhi di Ida, che guarda ma non giudica. però questa peccatrice è una donna che vive nel mondo, e Ida del mondo non sa nulla. si muove e si aggira come se nascesse per la prima volta e il suo candore sembra svelare le cose, farle emergere nella loro violenta verità. anche un colloquio intenso, una visita in ospedale, la seduzione che la zia esercita sugli uomini, il bere, il fumare, mangiare al ristorante, dare un passaggio ad un musicista che fugge dalle promesse, tutto sembra avere il peso di una nuova visione, di un battesimo.
dopo la scoperta della verità sulla fine dei genitori di Ida, la zia torna alla sua vita di cocktail e uomini di passaggio e Ida al suo convento. una si suiciderà l'altra non si riterrà pronta a prendere i voti. Ida torna alla casa della zia morta e prova, sperimenta, per un breve tempo, il senso di una vita terrena: si veste, si mette i tacchi, lascia scoperti i suoi biondi capelli, fuma e beve, immagina e sogna, si lascia andare alla corte e al sesso con un musicista innamorato di lei, che ora non sfugge più alle promesse.
dopo la notte d'amore, le chiede di seguirlo nel suo viaggiare per la Polonia, nel suo peregrinare per locali.
e poi? chiede Ida
poi compriamo un cane, troviamo una casa, ci sposiamo, facciamo dei bambini.
e poi?
e poi ci saranno i problemi.
non basta.
Ida torna, la mattina dopo, in convento. ora sembra pronta per rinchiudersi per sempre, nell'unico tratto di mondo che lei sembra riconoscere e sembra averle dato una risposta sul senso della vita.
è una scelta? è una fuga? è una convinzione sulla portanza di dio rispetto alla fuggevolezza del mondo? è un ritorno nel ventre materno? è la delusione sulla banalità della vita?

Ida, nel tuo mondo in bianco e nero, senza sfumature, non ti ho capita.

lunedì 24 marzo 2014

ci sono vite

Ci sono vite, sai,
che sono come fiammate di luce,
durano poco, niente,
ardono nel firmamento del nero,
sventano, dilapidano.
Si ricorda la cupa accensione
del fuoco, il becchettare nel vento,
quel colore di fiamma
ossidrica o di stella
che il bruciare un istante rende eterno.


Daniele Piccini
Terra dei voti

     

non so niente di lui, è un poeta italiano, nato in Umbria, docente universitario, critico letterario.
va bene, non importa. ho visto una foto, non so che dire.
l'ho trovato su Poesia, qualcosa di buono, ogni tanto, si trova.
non solo si perde.
non so niente di lui e nemmeno di me, solo che la poesia mi piace.
e anche questa.

Se il dolore non fosse questa spina,
questa lunga dorsale della vita
forse non saremmo altro che niente,
e dobbiamo ringraziare
che ci venga a visitare e ci porti
notizia delle cose
che nell’ombra ci appaiono e nel turbine.


Daniele Piccini
Inizio fine


 

venerdì 21 marzo 2014

ILIOKATAKINIOMUMASTILOPSARODIMAKOPIOTITA

non me lo sono inventato io, 'sto titolo, è colpa di Micol Assael.
Chi è?
non lo so bene, è nata a Roma nel 1979, attualmente vive e lavora in Grecia, e presenta quest'opera d'arte contemporanea all'Hangar, amatissimo, Bicocca. che bel posto che è l'Hangar, è un posto figo. grande e alto, ben fatto, belle sale, bella gente, ampi spazi, gambe lunghe...è un figo. bello, fuori e dentro, come a volte si sente dire, incredibilmente, da qualcuno.
In ILIOKATAKINIOMUMASTILOPSARODIMAKOPIOTITA il suono comincia fin da titolo, una sorta di “scioglilingua musicale” che accorpa diversi termini greci, associati intenzionalmente dall’artista senza alcun significato, proprio per escludere qualsiasi chiave di lettura prestabilita. Il suono, infatti, è l’elemento unificatore che tiene insieme le cinque opere realizzate da Micol Assaël nello Shed di HangarBicocca. Cinque ambienti, quasi micro elementi abitativi, con i quali i visitatori sono invitati a sintonizzarsi empaticamente per scoprirne i dettagli nascosti: in questo senso la dimensione dell’ascolto fisico e soprattutto mentale è centrale nella ricerca dell’artista.
l'esperienza è interessante se si considera che sono entrata sana e sono uscita con un forte mal di testa. e un vago senso di nausea, forse causato dal mal di testa stesso o forse no, chissà.
l'esperienza è fisica, come si legge sopra, e molto uditiva, come si legge sopra.
ma anche nasale, olfattiva.
nella grande sala ci sono cinque piccoli abitati, cinque piccole case, con cinque nomi diversi, irrilevanti.
l'effetto globale è quello di entrare, ogni volta, in un'archeologia recente, in luoghi consumati dal tempo, dal vento, dal freddo, dal rumore, dalla puzza, dall'usura del tempo, del degrado, dalla dimenticanza, dalla sofferenza.






Al centro dello Shed è installata 432Hz (2009-2014), un involucro di legno che racchiude un prezioso mondo iridiscente che rivela la centralità della natura nella ricerca di Micol Assaël, sono tante piccole arnie e rivelano un rumore di sottofondo, come di api al lavoro. Vorkuta(2003), realizzata sulla scia delle memorie di un viaggio compiuto dall’artista in Siberia, è una cella frigorifera la cui temperatura di -30° contrasta con una sedia regolata da un termostato interno e mantenuta a +37°C. Il suono e il bagliore di piccole scosse elettriche interrompono il rumore di sottofondo del motore della cella, che si presenta come un ufficio disabitato caratterizzato da strumentazioni obsolete. Mindfall (2004-2007) è costituita da un container di recupero con una sedia e dei tavoli, su cui sono disposti 21 motori elettrici che, accesi a intermittenza uno dopo l’altro, creano una sorta di composizione musicale. Senza Titolo (2003) è una piccola stanza in ferro attraversata da correnti di aria calda e fredda convogliate nello spazio da potenti ventilatori. Sub(2014), la nuova opera realizzata appositamente per la mostra di HangarBicocca, nasce invece dall’assemblaggio di alcuni espositori in vetro e alluminio. Il pubblico, osservando dall’esterno o entrando all’interno della struttura trasparente, assiste al fenomeno della nascita di cariche elettrostatiche prodotte da un “generatore Kelvin” che costituisce il cuore dell’opera.

indubbiamente l'artista riesce ad ottenere un effetto. intanto un effetto di estraniamento, il mio. ogni stanza era un luogo "altrove". un luogo possibile ma infrequentabile. non fantascienza, piuttosto dimensioni esistenti mai vissute, mai abitate, ma immaginabili. sono rimasta stordita dal rumore dei motori e dall'odore delle macchine, dal rumore sordo continuo delle api, dal gelo a -30 gradi e dal lampeggio accecante dei fili elettrici, dalla visione di poltrone letti e divani vecchi sfasciati consunti, brandine di ferro e molle, intontita dal rumore fortissimo del vento in una stanza in cui si poteva immaginare di essere sulla prua di una nave rompighiaccio.
a cosa serve? non lo so. ho pensato servisse solo a immaginare che oltre al mio sè, al mio luogo, al mio momento ce ne sono molti altri , molto più invivibili, ma ugualmente probabili, del mio.

martedì 18 marzo 2014

quel trolley griffato e i suoi bei 24 kg di cocaina

Si crede stupidamente che un atto criminale per qualche ragione debba essere maggiormente pensato e voluto rispetto ad un atto innocuo. In realtà non c'è differenza. I gesti conoscono un'elasticità che i giudizi etici ignorano.
(Gomorra, Roberto Saviano)

la signora, dama bianca, così bionda e griffata, me la vedo male in carcere 8-10 anni.
però così firmata e cotonata, chi l'avrebbe detto che per mestiere facesse il corriere della droga?
quatta quatta si portava dietro 20 e oltre kg di cocaina.
e di certo non una, ma chissà, esagero? decine di volte?
la signora.
che quando la sgamano..."mi hanno incastrato"...e piange. come piange? ma no, che diamine, fai la figa, trasporti droga, fai il maschio in gonnella, fai la sciura della malavita e piangi?? allora sei una femmina, solo una cazzo di femmina.
la signora.
mica tanto signora insomma, diciamocelo, una vera signora mica si sporca le mani con la farina bianca che ammazza centinaia di persone, va bene l'ultima di Gucci a tutti i costi, ma con i soldi che gocciolano sangue?
ma forse la signora non sa che nel suo elegantissimo trolley trasporta morte, traffico di droga, soldi sporchi, morti ammazzati, clan e cosche, corruzione, riciclaggio e il grande male della terra, tutto nostrano, che si chiama camorra. non lo sa?
mah, forse dal parrucchiere, su Chi, non c'era scritto. e l'amica del happy-hour ore 18.00 mica gliel'ha detto.
speriamo che la signora, spaventata per questo inaspettato strappo alla sua impeccabile immagine e terrorizzata che la tuta a righe non le doni -per non parlare del cespuglio che sarà dei suoi biondi capelli- parli.
le dica, le spari, belle e grosse, le notizie sul quel traffico che così messamente, ma fighissima, trasportava.
speriamo, magari le condonano un paio di annetti.
che donna, che classe, che portamento...mai fidarsi delle grandi firme della moda: sono sporche anche quelle. lo sapevate? avete mai letto Gomorra di Saviano? avete mai letto che tutto il mondo della moda passa dai clan della camorra, dal Sistema delle famiglie, per produzione, materiale, distribuzione, tutto?
il vestito di Angelina Jolie, alla notte degli oscar, una decina di anni fa...Pasquale lo ha fatto, Pasquale di Casarano, Tricase, Taviano, Melissano, proprio lui...
In tv Angelina Jolie calpestava la passerella della notte degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star. Quel vestito l'aveva cucito Pasquale in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: «Questo va in America». Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli USA. Si ricordava bene quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei polsi. E il pantalone. Aveva passato le mani nei tubi delle gambe e ricordava ancora il corpo nudo che ogni sarto immagina. Un nudo senza erotismo, disegnato nelle sue fasce muscolari, nelle sue ceramiche d'ossa. Un nudo da vestire, una mediazione tra muscolo, ossa e portamento. Era andato a prendersi la stoffa al porto, lo ricordava ancora bene quel giorno. Gliene avevano commissionati tre, di vestiti, senza dirgli altro. Sapevano a chi erano destinati, ma nessuno l'aveva avvertito. (Gomorra, Roberto Saviano)
avete mai letto Gomorra di Saviano? più mi addentro e più mi dico che non c'è speranza, siamo governati da forze molto più potenti dei governi ufficiali del mondo, siamo governati dalle dame bianche che seppure di bianco vestite trasudano morte, quella che puzza, che fa vomitare.

Diventare imprenditore. Capace di commerciare con tutto e fare affari anche col nulla. Usare tutto come mezzi e se stessi come fine. Chi dice che è amorale, che non può esserci vita senza etica, che l'economia possiede dei limiti e delle regole da seguire è soltanto colui che non è riuscito a comandare, che è stato sconfitto dal mercato. L'etica è il limite del perdente, la protezione dello sconfitto, la giustificazione morale per coloro che non sono riusciti a giocarsi tutto e vincere ogni cosa. 
(Gomorra, Roberto Saviano)

lunedì 17 marzo 2014

pollock, corpo della pittura

la mostra, Milano, Palazzo Reale, ormai almeno un paio di mesi fa, mi è piaciuta moltissimo.
Pollock era un genio disturbato, alcolizzato, instabile, imprevedibile, matto.
ho anche visto il film di Ed Harris e mi è piaciuto andare a guardare, a sbirciare, la sregolatezza e impulsività dell'artista più innovativo del XX secolo. è morto, ubriaco, uscendo di strada ad alta velocità e portandosi dietro due giovani fanciulle, una delle quali era la sua amante. Pollock era una di quelle persone che hanno in mente solo la sopravvivenza quotidiana, come arrivare e andare oltre il tramonto per poi eventualmente risvegliarsi dopo l'alba, poco tempo da dedicare all'altro, e il poco tempo sobrio concentrato solo alla cura, all'autoterapia di sé, con la pittura, in questo caso.

« Una tela coperta di colore ancora fresco occupava tutto il pavimento... Il silenzio era assoluto... Pollock guardò il quadro, quindi, all'improvviso, prese un barattolo di colore e un pennello e iniziò a muoversi attorno al quadro stesso. Fu come se avesse capito di colpo che il lavoro non era ancora finito. I suoi movimenti, lenti all'inizio, diventarono via via più veloci e sempre più simili ad una danza mentre gettava sulla tela i colori. Si dimenticò completamente che Lee ed io eravamo lì; sembrava non sentire minimamente gli scatti della macchina fotografica... Il mio servizio fotografico continuò per tutto il tempo in cui lui dipinse, forse una mezz'ora. In tutto quel tempo Pollock non si fermò mai. Come può una persona mantenere un ritmo così frenetico? Alla fine disse semplicemente: "E' finito"». (1950, Hans Namuth, fotografo)



dipingeva, a terra,  sviluppando quella che venne in seguito definita la tecnica del dripping (in italiano sgocciolatura), si muoveva frenetico e invasato sulla tela, danzando, beveva, fumava, se non beveva fumava e viceversa. uno squartamento corporale, una scissione perpetua dal reale. se reale deve essere che almeno sia dipingendo o bevendo, altrimenti è intollerabile.
la mostra è stata dedicata a Pollock, ma direi in minima parte, e, soprattutto, ai cosiddetti "Irascibili". chi sono? uno stile e insieme un fenomeno unico che dette vita alla "Scuola di New York". era il maggio del 1950 quando il Metropolitan Museum of Art di New York annunciò l’organizzazione di un’importante mostra dedicata all’arte contemporanea americana. assenti dal parterre degli invitati furono proprio i pittori che a partire dalla seconda metà degli anni Trenta avevano mosso i primi passi verso un linguaggio pittorico nuovo, rivolto all’Espressionismo Astratto. nel movimento emersero le personalità di Jackson Pollock, Willem de Kooning, Mark Rothko, Robert Motherwell, Barnett Newman, che si fecero promotori di un codice stilistico più attuale. sono proprio questi i principali nomi che composero il gruppo degli "Irascibili", così definiti dal quotidiano "Herald Tribune", perché firmatari della lettera inviata al presidente del Metropolitan, e presentata al “New York Times”, in cui dichiararono il totale dissenso nei confronti delle posizioni assunte dal museo. nel gennaio del 1951 la rivista "Life" pubblicò l’emblematica fotografia di Nina Leen che ritrasse quindici degli "Irascibles" vestiti da banchieri. (tratto dal sito della mostra)


Negli anni in cui J.D. Salinger, Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William S. Burroughs - ma anche Elvis Presley e Miles Davis, Marlon Brando e James Dean - interpretano a loro modo il nuovo spirito della nazione, loro "pittori gestuali e pittori del campo di colore", per bussola i nativi americani (ma anche consci della lezione di Picasso e "dei francesi"), faranno grande la storia dell'arte americana, anche se ognuno con uno stile suo proprio. (dal Sole 24 ore)


Jackson  Pollock, Mural, 1943


Jackson Pollock, Number 27, 1950

Jackson Pollock, Number 17, 1950


Ad Reinhardt, Number 18

Willem de Kooning, Door to the River

Helen Frankenthaler, Blue Territory


Lee Krasner, The Guardian

Willem de Kooning, Landscape


Hans Hofmann, Orchestral Dominance in Yellow

 Clyfford Still, Untitled, 1945
Mark Rothko, Untitled (Blue, Yellow, Green on Red), 1954

Arshile Gorky, The Betrothal

"Quando sono "dentro" i miei quadri, non sono pienamente consapevole di quello che sto facendo. Solo dopo un momento di "presa di coscienza" mi rendo conto di quello che ho realizzato. Non ho paura di fare cambiamenti, di rovinare l'immagine e così via, perché il dipinto vive di vita propria. Io cerco di farla uscire. È solo quando mi capita di perdere il contatto con il dipinto che il risultato è confuso e scadente. Altrimenti c'è una pura armonia, un semplice scambio di dare ed avere e il quadro riesce bene. "
riprodotti qui, i lavori di Pollock, non rendono quel che sono quando visti dal vero. qui, sullo schermo, o su una pagina, tutto è piatto, a un centimentro dal naso tutto è spesso, mosso, vivo, sollevato, vibrante. fisico.
probabilmente sono opere che non possono sottrarsi, per vivere, per restituire emozione, dal movimento corporale di chi le ha prodotte, forse sono opere che hanno avuto il senso, il dono, della bellezza nel momento stesso della loro nascita artistica, nella loro ideazione e formulazione carnale, corporea, sono l'esito di una forza fisica, sono corpi viventi che solo a guardarli non restituiscono la loro potenza formativa. forse bisogna guardarli pensando al gesto pittorico, alla danza che li ha accompagnati , alla gravidanza che li ha sviluppati, al parto che li ha generati, alla fatica che li ha sorretti.
"Non dipingo sul cavalletto. Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. Ho bisogno dell'opposizione che mi dà una superficie dura. Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente "dentro" al dipinto. Questo modo di procedere è simile a quello dei "Sand painters" Indiani dell'ovest. "


domenica 16 marzo 2014

questa rossa nube di cui l'anima è la folgore.

posso dire che L'opera al nero mi è piaciuto di più?
quel libro mi aveva dato i brividi, così oscuro, così alchemico, così cupo, così magico e tormentoso, così misterioso.
forse non è un buon modo per iniziare a parlare de Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenarma l'impatto del libro è stato meno potente rispetto all'altro, seppure questo libro abbia un grandissimo valore letterario.
a proposito degli dei acclamati da Alceo nella poesia che ho postato ieri, ecco un  mondo, il primo mondo, la prima volta nel mondo, in cui gli dei perdono in potere e potenza e ancora Cristo non si è elevato a salvezza dell'umanità.
ecco l'uomo, solo, come accennava la stessa Yourcenar nei sui appunti sul libro, ritrovando questa frase nella corrispondenza di Flaubert: Quando gli dèi non c'erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c'è stato un momento unico in cui è esistito l'uomo, solo.
Scrive l'Adriano della Yourcenar:
Fu verso quell'epoca che cominciai a sentirmi dio. Non mi fraintendere: ero sempre, ero più che mai lo stesso uomo, nutrito dei frutti e degli animali della terra, che rende al suolo i resti dei suoi alimenti, sacrifica al sonno a ogni rivoluzione degli astri, irrequieto sino alla follia quando gli manca troppo a lungo la calda presenza dell'amore. La mia forza, la mia agilità fisica e mentale erano conservate accuratamente intatte, attraverso una ginnastica completamente umana. Ma che altro dirti, se non che tutto ciò io lo vivevo divinamente? Erano cessate le avventure temerarie della giovinezza, e quella urgenza di godere il tempo che passa. A quarantaquattro anni, mi sentivo senza impazienze, sicuro di me, perfetto quanto me lo consentiva la mia natura: eterno. E, comprendimi bene, si trattava d'un'ideazione dell'intelletto: i deliri, se devo assegnar loro questo nome, vennero più tardi. Ero dio, semplicemente, perché ero uomo. I titoli divini che la Grecia mi accordò in seguito non fecero che proclamare ciò che da te mi sarebbe stato possibile sentirmi dio anche nelle prigioni di Domiziano o nelle viscere d'una miniera. Se ho l'audacia di pretenderlo, vuol dire che questo sentimento mi appare assai poco straordinario, e per nulla raro. Anche altri, oltre che io stesso, l'hanno provato, o lo proveranno in avvenire.
e Adriano è un uomo, di potere, grande, grandissimo nelle cose di stato, e piccolo o piccolissimo, come tutti, nelle cose della vita. un uomo, amante dell'arte e delle grandi opere, della natura e del mistero, pacificatore e conquistatore, equo ma anche spietato, amato, anche venerato, e molto solo.
la pagine più belle sono quelle sull'amore e quelle sulla morte, ovvero quelle sulla solitudine dell'uomo, anche di un uomo come l'Imperatore Adriano, davanti alle grandi questioni della vita.

Di tutti i nostri giochi, questo [l'amore] è il solo che rischi di sconvolgere l'anima, il solo altresì nel quale chi vi partecipa deve abbandonarsi al delirio dei sensi. Non è necessario per un bevitore abdicare all'uso della ragione, ma l'innamorato che conservi la sua non obbedisce fino in fondo al suo demone. In qualsiasi altro caso, l'astinenza o la sregolatezza non impegnano che l'individuo; ogni atto sensuale ci pone in presenza dell'ALTRO, ci coinvolge nelle esigenze e nelle servitù della scelta. Non ne conosco altre ove l'uomo sia spinto a risolversi da motivi più elementari e ineluttabili, ove l'oggetto della scelta venga valutato con maggiore esattezza per il peso di piaceri che offre, ove chi ama il vero abbia maggiori possibilità di giudicare la creatura umana nella sua nudità. Stupisco nel veder formarsi di nuovo ogni volta - nonostante un abbandono che tanto eguaglia quello della morte, un'umiltà che supera quella della sconfitta e della preghiera - quel complesso di dinieghi, di responsabilità, di promesse: povere confessioni, fragili menzogne, compromessi appassionati tra i nostri piaceri e quelli dell'ALTRO, legami che sembra impossibile infrangere e che pure si sciolgono così rapidamente. Questo gioco misterioso che va dall'amore di un corpo all'amore d'un essere umano, m'è sembrato tanto bello da consacrarvi tutta una parte della mia vita. Le parole ingannano: la parola piacere, infatti, nasconde realtà contraddittorie, implica al tempo stesso i concetti di calore, di dolcezza, d'intimità dei corpi, e quelli di violenza, d'agonia, di grida. La piccola frase oscena di Poseidonio - che t'ho visto ricopiare sul tuo quaderno di scuola con una diligenza da primo della classe - a proposito dell'attrito di due piccole parti di carne, non definisce il fenomeno dell'amore, così come la corda toccata dal dito non rende conto del miracolo infinito dei suoni. Più ancora che alla voluttà, essa reca ingiuria alla carne, a questo strumento di muscoli, di sangue, di epidermide, a questa rossa nube di cui l'anima è la folgore. parte mia un maggior silenzio.

Dice l'autrice: non ho tardato molto ad accorgermi che scrivevo la vita d'un grand'uomo; e di conseguenza, un maggior rispetto della verità, un maggiore attenzione, e, da parte mia un maggior silenzio. In un certo senso, ogni vita raccontata è esemplare; si scrive per attaccare o per difendere un sistema del mondo, per definire un metodo che ci è proprio. Ma non è meno vero che le biografie in genere si squalificano per una idealizzazione o una denigrazione a qualunque costo, per particolari esagerati senza fine o prudentemente omessi; anziché comprendere un essere umano, lo si costruisce. Non perder mai di vista il grafico di una esistenza umana, che non si compone mai, checché si dica, d'una orizzontale e di due perpendicolari, ma piuttosto di tre linee sinuose prolungate all'infinito, ravvicinate e divergenti senza posa: che corrispondono a ciò che un uomo ha creduto di essere, a ciò che ha voluto essere, a ciò che è stato.

TRAHIT SUA QUEMQUE VOLUPTAS: ciascuno la sua china; ciascuno il suo fine, la sua ambizione se si vuole, il gusto più segreto, l'ideale più aperto. Il mio era racchiuso in questa parola: IL BELLO, di così ardua definizione a onta di tutte le evidenze dei sensi e della vista. Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo. Volevo che le città fossero splendide, piene di luce, irrigate d'acque limpide, popolate da esseri umani il cui corpo non fosse deturpato né dal marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore d'una ricchezza volgare; che gli alunni recitassero con voce ben intonata lezioni non fatue; che le donne al focolare avessero nei loro gesti una sorta di dignità materna, una calma possente; che i ginnasi fossero frequentati da giovinetti non ignari dei giochi né delle arti; che i frutteti producessero le più belle frutta, i campi le messi più opime. Volevo che l'immensa maestà della pace romana si estendesse a tutti, insensibile e presente come la musica del firmamento nel suo moto; che il viaggiatore più umile potesse errare da un paese, da un continente all'altro, senza formalità vessatorie, senza pericoli, sicuro di trovare ovunque un minimo di legalità e di cultura; che i nostri soldati continuassero la loro eterna danza pirrica alle frontiere; che ogni cosa funzionasse senza inciampi, l'officina come il tempio; che il mare fosse solcato da belle navi e le strade percorse da vetture frequenti; che, in un mondo ben ordinato, i filosofi avessero il loro posto e i danzatori il proprio. A questo ideale, in fin dei conti modesto, ci si avvicinerebbe abbastanza spesso se gli uomini vi applicassero una parte di quell'energia che van dissipando in opere stupide o feroci. E durante l'ultimo quarto di secolo, la sorte propizia mi ha consentito di realizzarlo in parte. Arriano di Nicomedia, uno degli spiriti più eletti del nostro tempo, si compiace di rammentarmi i bei versi nei quali il vecchio Terpandro ha definito in tre parole l'ideale di Sparta, il "modus vivendi" perfetto, sognato, e mai raggiunto, da Lacedemone: la FORZA, la GIUSTIZIA, le MUSE. La Forza stava alla base, e senza il suo rigore non può esserci Bellezza, senza la sua stabilità non v'è Giustizia. La Giustizia componeva l'equilibrio delle parti, le proporzioni armoniose che nessun eccesso deve turbare. Ma la Forza e la Giustizia non erano che uno strumento agile e duttile nelle mani delle Muse: consentivano di tener lontane tutte le miserie e le violenze come altrettante offese al bel corpo dell'umanità. Ogni nequizia era come una nota falsa da evitare nella armonia delle sfere.

come per l'Opera al nero, la parte del libro che si avvicina e arriva a toccare il mistero della morte è particolarmente toccante, vera, autentica, sorprendente. la Yourcenar, come altri pochi scrittori, scrive senza avere paura. 

Sono quel che ero: muoio senza mutarmi. A prima vista, l'adusto fanciullo dei giardini di Spagna, l'ufficiale ambizioso che rientra nella tenda scrollandosi dalle spalle i fiocchi di neve, sembrano tanto cancellati quanto lo sarò io dopo che sarò passato attraverso il rogo; ma essi son qui; io ne sono inseparabile. L'uomo che ha urlato sul petto d'un morto continua a gemere in un angolo di me stesso, a onta della calma più e meno che umana alla quale partecipo già; il viaggiatore racchiuso nel corpo del malato ormai sedentario per sempre s'interessa alla morte perché essa rappresenta una partenza. Quella forza ch'io fui sembra capace ancora di animare parecchie a ltre vite, di sollevare dei mondi. Se, per miracolo, qualche secolo venisse aggiunto ai pochi giorni che mi restano, rifarei le stesse cose, persino gli stessi errori, frequent erei gli stessi Olimpi e i medesimi Inferi. Una constatazione simile è un argomento ec cellente in favore dell' utilità della morte, ma nello stesso tempo m'ispira dubb i sulla totale efficacia di essa. ... Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamo d'en trare nella morte a occhi aperti.. 

bella scrittura, scrittura esemplare, scrittura di vita. vita di un imperatore di Roma, vita di Adriano, vita di un uomo, vita di tutti noi. l'universale si fa uomo.

martedì 11 marzo 2014

carichi di chiaro in notte amara

Alceo

Preghiera politica
qui, a me, staccandovi da isola di Pèlope
figli vigorosi di Zeus e di Leda
... intimo calore, qui apparite, Càstore
e Polluce!
Voi che spazi di pianeta, oceani
totali percorrete su scatto di cavalli,
lievi custodite noi viventi da glaciale
morte
scalate picchi in scafi, meraviglia d’assi,
e da lontano siete lumi corridori sulle sartie
carichi di chiaro in notte amara
a scafo buio.



la potenza degli dei, quando esistevano.
irraggiungibili, luminosi, alti e sollevati e noi qui, a scafo buio, residui del giorno.

lunedì 10 marzo 2014

la camera azzurra

La camera azzurra
di Georges Simenon
la parola che valore ha?
la parola di lui appartiene al sesso maschile.
la parola di lei appartiene al mondo femminile. E quel mondo femminile che sull’amore arriva anche a delirare.

«Ti ho fatto male?».
«No».
«Ce l'hai con me?».
«No».
Era vero. In quel momento tutto era vero, perché viveva ogni cosa così comeveniva, senza chiedersi niente, senza cercare di capire, senza neppure sospettare cheun giorno ci sarebbe stato qualcosa da capire. E non solo tutto era vero, ma era anche reale: lui, la camera, Andrée ancora distesa sul letto sfatto, nuda, con le gambe divaricate e la macchia scura del sesso da cui colava un filo di sperma. Era felice? Se glielo avessero chiesto, avrebbe risposto di sì senza esitare. Non gli passava neanche per la testa di avercela con Andrée perché gli aveva morso il labbro. Faceva parte dell'insieme, come tutto il resto. In piedi, anche lui nudo, davanti allo specchio sul lavandino, si tamponava la bocca con un asciugamano imbevuto d'acqua fredda.
«Tua moglie ti chiederà spiegazioni?».
«Non credo».
«Ma a volte qualche domanda te la fa, no?». Le parole contavano poco. Parlavano così, per il puro piacere di parlare, comesuccede dopo l'amore, quando il corpo è ancora eccitato e la testa un po' vuota.
«Mi ami, Tony?».
«Penso di sì».
Scherzava, ma senza sorridere, per via del labbro inferiore che continuava a tamponare con l'asciugamano inumidito.
«Non ne sei sicuro?». 
Tutto aveva un peso e un significato in quell'universo vibrante, perfino la mosca che si era posata sul ventre di Andrée e che lei guardava con un sorriso appagato.
«Davvero potresti vivere con me tutta la vita?».
«Certo...».
«Sul serio? Non avresti un po' paura?».
«Paura di che?».
«Riesci a immaginare come passeremmo le giornate?».
Anche quelle parole sarebbero riemerse, così leggere allora, così minacciose adistanza di qualche mese.
«Finiremmo con l'abituarci», aveva mormorato lui senza riflettere.
«A che cosa?».
«A noi due».
Si sentiva puro, innocente. Contava solo ciò che stava vivendo. Un maschio vigoroso e una femmina appassionata che avevano goduto l'uno dell'altra. Per quantoTony ne fosse rimasto indolenzito, provava tuttavia una piacevole sensazione di benessere.
«Se penso a tutti gli anni che ho perso per colpa tua...».
«Per colpa mia?» aveva ripetuto lui ridendo.
«Chi è che se n'è andato? Io?».
Erano stati compagni di scuola fin dalle elementari. E soltanto ora che avevano superato la trentina e che entrambi si erano sposati...
«Rispondimi seriamente, Tony... Se io mi ritrovassi libera...».
La stava ascoltando? Il treno, invisibile dietro l'edificio bianco della stazione, si era fermato, e i viaggiatori cominciavano a uscire dalla porta di destra.Un impiegato in divisa ritirava i biglietti.
«Faresti in modo di renderti libero anche tu?».
Prima di ripartire, la locomotiva fischiò così forte da coprire ogni altro rumore.
«Come hai detto?».
«Ti sto chiedendo se, in quel caso...

ma in fondo a Tony queste parole scivolavano via, via come lacrime nella pioggia.
una parola valeva l’altra, una parola non era quello che sembrava. Tony non avrebbe lasciato la moglie né tantomeno la figlia, probabilmente non era innamorato, non immaginava una vita assieme, Tony era solo un maschio inorgoglito da incontri di sesso disinibito e senza freni, come non ne aveva mai vissuto prima. si guardava nudo nello specchio, bel maschio, e vedeva di riflesso la posizione sfrenata e lasciva di lei, gambe aperte spalancate, la bava del suo seme che colava dalla fessura nera di lei.
e allora: si, si va bene, si va bene ti amo, si va bene viviamo insieme, si va bene mi rendo libero, si va bene abbiamo scopato come mai prima, né io né te, in questa camera azzurra di albergo.
è il linguaggio maschile, è il linguaggio che non da peso alle parole, è il linguaggio non pensato, non realmente condiviso, è il linguaggio di chi solo risponde per compiacere, o zittire, l’Altro.
bene, per lei, per Andrée, il linguaggio è un’altra cosa, il linguaggio è una promessa, il linguaggio è un tatuaggio sulla pelle, che sancisce la verità e il legame, la parola è verità e non nasconde niente, non mente mai. e lei sa bene che parlare così, in quel momento, oggetto di desiderio, oggetto di promessa di felicità sessuale, può inebetire l’altro e fargli dire quel che lei desidera sentire.
per lei, secondo lei, loro due si amano, vogliono stare insieme, vivranno insieme, ognuno farà la propria parte per portare a termine questo progetto d’amore.
chi si sta sbagliando? qual è l’equivoco? chi ha fatto della parola un uso distorto? Chi ha trasformato la parola in un’arma omicida?
chi ha messo nella parola la propria verità senza soppesare, senza dubitare, neanche per un minuto, il valore che ha quella stessa parola per l’altro?
questo piccolo breve libro, costruito saggiamente, mirabilmente, fino all’ultima riga da Simenon è un piccolo capolavoro, una maestria, un guizzo di genio.
c’è tutto quel che serve per costruire il caso, il giallo, la conclusione inaspettata, la domanda che rimane aperta fino all’ultimo, la non decifrazione fino alla fine, ma, sopra ogni cosa, possiede il talento di costruire un giallo sul vero unico delitto: l’incomunicabilità tra maschio e femmina.
il delitto si compie lì, nella camera azzura dopo l’ennesimo orgasmo, dopo il godimento del corpo, autistico per lui, immaginario per lei. siamo su due mondi paralleli che non si incontrano. “il rapporto sessuale non esiste”, diceva Lacan. capiamoci, esiste eccome, ma non esiste un rapporto, una relazione tra due corpi nel sesso. il godimento è sempre solo, il godimento è proprio, non condivisibile, io godo del mio corpo senza sapere nulla del godimento del corpo dell’altro. Lacan diceva che il godimento maschile è idiota e solitario, quello femminile amoroso e relazionale. il godimento della donna chiede sempre la parola, sempre, chiede sempre la conferma, sempre, chiede sempre la promessa, sempre. il rapporto sessuale non esiste, però, diceva Lacan, esiste l’amore, l’unica possibile confluenza tra due corpi che si parlano. “non esiste rapporto sessuale” vuol dire dunque che gli esseri umani, sul piano del godimento sessuale, rimangono reciprocamente in esilio: non c’è infatti un’esperienza del rapporto tra i due godimenti, poiché uno dei due rimane precluso, inaccessibile. è pur vero che il nostro corpo ci apre alla relazione con l’Altro, ma nessun rapporto sessuale potrà fare dei due godimenti Uno. l’incontro con il partner si realizza allora sullo sfondo dell’esilio da un rapporto che possa compiersi sul piano sessuale. l’amore emerge come unica “supplenza” possibile.
“Solo l’amore permette al godimento di accondiscendere al desiderio”. (J.Lacan)

Infine, il presidente pronunciò il verdetto. Pena di morte per entrambi gli imputati, commutata, su istanza della giuria, nei lavori forzati a vita. 
Nel tumulto che seguì, mentre il pubblico si alzava tutto insieme, anche Andrée si levò in piedi e si rivolse lentamente verso Tony. 
Questa volta lui fu incapace di girare la testa dall'altra parte, tanto il suo volto lo affascinava. Mai neppure nei momenti in cui i loro corpi erano stati più uniti, l'aveva trovata così bella, così raggiante. Mai aveva visto sulla sua bocca carnosa un sorrisoche esprimesse così intensamente il trionfo dell'amore. Mai, con un solo sguardo, si era impossessata di lui in modo così totale. «Lo vedi, Tony,» gli gridò «non ci hanno separati!».

martedì 4 marzo 2014

"le vedi queste persone? Questa fauna? Questa è la mia vita. E non è niente". Jep Gambardella

e vince, oscar al miglior film straniero del 2013, la Grande Bellezza e ne sono veramente molto fiera.
se con la Vita è bella di Benigni nutrivo seri dubbi sulla grande bellezza di quel film, in questo caso non ne ho.
mi domando cosa arrivi di questo film all'anima del pubblico americano, perchè ho la tendenza razzista a considerarli stupidi. penso che il fascino di Roma, della strepitosa fotografia, delle feste mondane, dell'alone felliniano abbiano fatto centro nell'immaginario della giuria, ma mi domando cosa, dell'altro versante di quella grande bellezza, sia arrivato a bersaglio.
il film di Paolo Sorrentino, che ho amato da subito (http://nuovateoria.blogspot.it/2013/07/la-grande-bellezza.html), seppure tagliandolo nel finale, è un film sulla decadenza, sulla bellezza della decadenza, sul sole che tramonta, sullo spreco della bellezza, sul cinismo imperante, sull'intelligenza che è, a volte, una vera condanna, sulla disillusione sull'eternità, sul tumore che mangia vivi, uomini e cose.
sono veramente contenta di questo meritato successo, il grande Jep, il meraviglioso elegantissimo Toni Servillo, già sogghigna sulla volatilità del successo, sulla vita effimera che a volte ti da un contentino, sui trenini delle feste tanto belli perchè non vanno da nessuna parte, per poi ricadere nell'oblio dell'insipienza,  sul bla bla bla della vita, seppure passeggiando tra i fori romani o discutendo del nulla sorseggiando un aperitivo sulla terrazza che da sul colosseo.

A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: La fessa. Io, invece, rispondevo: L'odore delle case dei vecchi.
La domanda era: Che cosa ti piace di più veramente nella vita?
Ero destinato alla sensibilità.
Ero destinato a diventare uno scrittore.
Ero destinato a diventare Jep Gambardella.

lunedì 3 marzo 2014

multa

è strana questa stanza di albergo.
non è un albergo, è un appartamento in città, a pochi isolati da casa mia.
mi sistemo, è accogliente, una televisione mega come piacerebbe ai miei figli -è un paradosso che mi derealizza un po'- va tutto bene, tutto sommato.
sono più tranquilla di quanto mi aspetterei, vista la tragicità -personale, intendiamoci, una tragedia tutta mia non in senso assoluto- che sottende questa scelta.
vado anche al cinema, finalmente vedo Blue Jasmine, pensavo a un capolavoro, ma perchè vado a vedere le cose aspettandomi chissà che??, e un capolavoro non è.
come per Philomena, il capolavoro non è il film, è solo l'attrice. indubbiamente Cate Blanchett è un CAPOLAVORO di attrice. è un talento immenso, poche altre mi hanno dato questo sensazione, certamente Kate Winslet in Revolutionary Road, ma l'attrice non fa il film.
dormo, male, mi alzo svegliata da un sms, faccio tutto da sola, che strana sensazione, vado a prendere la macchina parcheggiata ieri sera al ritorno dal cinema, senza troppo pensare.
multa.
ero tranquilla e questa sorpesa, invece, mi schiaccia nell'angoscia.
quello che non provavo prima, navigando nei miei pensieri, quello che governavo prima, dando un senso ai miei gesti, quello che prima, e avrebbe potuto esserci comprensibilmente, arriva ora con una multa per sosta vietata per lavaggio della strada. è come se il non senso mi travolgesse in un attimo. al solito mi sento piegata da qualcosa che non mi merito. ma come? cerco l'ordine, evito il conflitto, aspetto che le menti si assestino su un principio nuovo, e prendo una multa? cerco la calma, mantengo la calma, indago le mie scelte, e prendo una multa?
ragiono in termini paranoici, questo è chiaro. sono immersa in un mondo persecutorio e comincio ad entrare pericolosamente in sintonia con i miei pazienti.
quelli più gravi.
quelli per cui il reale dà senso a tutto, non c'è simbolico, c'è solo un reale schiacciante su ogni variabile non prevista. quel tipo di paziente per il quale un passante che fischia sta pensando che lui è un assassino, per intenderci. non c'è interpretazione possibile se non un reale che confluisce tutto sull'idea dominante: sono perseguitato dal male. questo è grave e così sonno messa io.
in 4 giorni di ritiro dal mondo, ed è chiaro che non mi fa bene, ho visto tre film e uno spettacolo teatrale (quest'ultimo a casa del signore e appena passabile). dopo Blue Jasmine, La mafia uccide solo d'estate di Pif - encomiabile per serietà e leggerezza allo stesso tempo, una narrazione sottile che però non lascia scampo al giudizio inesorabile su un mondo codardo che finge cecità- e Anita B. di Roberto Faenza, regista a me caro. è il regista di Prendimi l'anima, un film che narra, con toni ben differenti per intensità e sensualità, la stessa storia che ho visto l'anno scorso al cinema con A dangerous method: Carl Gustav Jung imbastisce una storia di intensa passione con una sua paziente, grave, psicotica?, isterica?, avviandola alla guarigione sperimentando il metodo analitico poi favorendone l'avvio verso una carriera proprio da psicoanalista. una stessa storia, due film imparagonabili. Faenza è un buon maestro, Anita B. è un film interessante ma non altrettanto intenso.
durante il film, aspettandomi una scena che non si è mai verificata ma che io attendevo con terrore, ovvero che il bambino affidato ad Anita, sopravvissuta ad Auschwitz, cadesse e morisse -un'invenzione della mia mente- ho avuto una scarica di extrasistoli che per qualche secondo ho pensato che il mio cuore avesse smesso di battere, per poi ricominciare, vivaddio, inondandomi la testa con un rinnovato flusso di sangue.
fisso dal cardiologo o dallo psichiatra?
esco, ancora scossa, vado alla macchina e...ho preso una multa.
in questo caso la multa riporta il caos che regna nel mio muscolo cardiaco ad uno stato di concreta realtà, non so se sana o meno: se parcheggio sulle strisce gialle sono fuori dall'ordine costituito, anche di domenica. i miei deliri su bambini che cadono dalle braccia e muoiono per una banale disattenzione -a che bambino sto pensando?- si ritira come una risacca di fronte alla non interpretabilità della legge.
ovvero la funzionalità variabile della multa.
ovvero l'imprevedibilità della psiche rispetto a un medesimo stimolo.
ovvero è chiaro però che non sto bene...