bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 25 aprile 2014

Victor Ullate Ballet

mi sono avventurata ancora in quel del teatro Manzoni e non senza tema di brutte sorprese.
ma, invece, è andata bene!
oggetto: balletto
protagonisti: il Victor Ullate Ballet - Comunidad de Madrid, la compagnia fondata dal genio coreografico di Victor Ullate che con la sua danza energica ha rivisitato la tradizione spagnola, mescolandola a classico e moderno. 
le coreografie: "Jaleos" uno dei classici lavori di Victor Ullate che è ancora in grado di stupire dopo diciassette anni dal suo debutto, "Y" affascinante pax de deux maschile su musiche di Mahler, "Après Toi (Omaggio a Béjart)", appassionato omaggio al caro amico e maestro Maurice Béjart e la nuova creazione "Bolero", personalissima rilettura del capolavoro di Ravel. 

Creato nel 1988, il Victor Ullate Ballet è oggi una delle compagnie di danza più interessanti a livello internazionale. Il progetto di Ullate, per molti anni discepolo di Béjart, è di fare da ponte tra il pubblico tradizionale della danza spagnola e quello del balletto contemporaneo, unendo gusti ed esigenze diversi. La Compagnia ha consolidato il proprio prestigio sia in ambito nazionale che internazionale grazie all'impegno continuativo della Compagnia nel perfezionamento e potenziamento della tecnica classica, necessaria per rendere uniforme il livello dei suoi diversi danzatori e al contempo per permettere una diversificazione di stili e generi, dal repertorio classico fino al caratteristico stile neoclassico, stile proprio della Compagnia. Questi fattori, oltre all'esclusività del repertorio, sono quelli che hanno definito e caratterizzato la personalità della Compagnia e che ne hanno decretato il successo.








al di là delle presentazioni trionfalistiche del sito del teatro Manzoni, che come tutti si fa buona pubblicità, lo spettacolo è effettivamente bello ed entusiasmante.
si sente il ritmo e il sangue spagnolo nel primo balletto Jaleos, si sente la bellezza dell'armonia tra musica e danza nell'Apres Toi -con lo strepitoso secondo movimento della 7ª sinfonia di Van Beethoven-, si avverte un tentativo di innovazione sul Bolero di Bejart, sulle musiche di Ravel.



ma qui casca l'asino, si dice così anche se forse, di solito, non si scrive.
i due ballerini sono capaci, mi sono piaciuti molto, sono belli, energici, talentuosi, appassionati, mi attraggono e mi tentano.
ma la coreografia, che tenta l'evoluzione del Bolero in coppia, quando classicamente Bejart lo ha ideato per un singolo ballerino centrale, uomo o donna che fosse, arriva a un punto di esplicitazione sessuale nei movimenti, fino al finale senza alcun enigma, che è proprio inutile e deludente.
con questa musica, con questo balletto, con questa ideazione originaria (il ballerino centrale e il coro intorno che si risveglia e si eccita con il crescendo musicale ed è il vero movimento sessuale del balletto), non c'è bisogno di esplicitare nulla.
lo smascheramento, la posa sessuale, appesantisce quel che con la musica magicamente si crea e a cui spontaneamente rimanda. a niente altro, ascoltando, si può pensare se non al sesso, all'eccitazione e all'orgasmo. mimarlo non agiunge niente, anzi, sottrae. l'allusione è sempre più eccitante di una avance diretta e senza mistero.
quel che non funziona è soprattutto il coro intorno che si muove troppo, che non si eleva progressivamente, che toglie enfasi al movimento centrale, che non crea quella tensione interna, ineludibile e quasi insopportabile, che ho avvertito tutte le 4 volte che ho visto il Bolero di Bejart.
mi sono concentrata sui due ballerini e mi sono goduta la bellezza dei loro corpi all'unisono.
fino a quando l'asino è cascato.



lunedì 21 aprile 2014

Vivian Maier: 100.000 foto

in certe inquadrature del film sembra un uomo.
è infagottata, si cela, si cela nelle forme, nei nomi, non si cela nelle foto.
anzi si fotografa spesso, ma, interessante, quasi sempre nei riverberi, nei riflessi di uno specchio, o  a figura intera, o con rimandi multipli nelle infinite ripetizioni di specchi che si specchiano, o nelle fessure di un pezzo di vetro o in uno specchietto retrovisore. oppure come un'ombra sul terreno, come a dire, io ci sono, sono io che fotografo, sono io la parte più importante della foto, io sono la foto.
la mia sensazione, dominante, è che questa donna, Vivian Maier, fosse frammentata, incapace di tenersi insieme in un'unica dimensione o immagine di sè.
un'immagine allo specchio che non ritrova tutti i pezzi, si frantuma e non si ricompone.
nel film, cui penso di continuo, la ricostruzione della sua storia è contradditoria, con tratti chiari e altri decisamante oscuri. amante dei bambini, fece la bambinaia tutta la vita, perversa e cattiva con i bambini. amata dalle sue datrici di lavoro ma solo per i primi anni del suo impegno, poi licenziata, allontanata. dai racconti di chi la assunse emerge chiaramente la bizzarria dei comportamenti, il mistero, la follia dell'immagazzinare tutto in forma ossessiva, la sua inaccessibilità, e, alla fine, la sensazione di non poter proseguire un rapporto di lavoro. Vivian portava tutti alla percezione di qualcosa di malato in lei, di disturbante che conduceva all'abbandono.









la domanda in sala, dopo il film, era: perchè non fece vedere le sue foto? sembra ne fece decine di migliaia, rullini non sviluppati ammassatti in decine di scatole. perchè le teneva per sè? come se fosse ovvio per tutti la necessità del commercio, dell'esposizione di sè, della fama, della notorietà, del riconoscimento. penso che a questa donna, che misconosceva il proprio sesso, la propria appartenenza, probabilmente ossessionata da qualche forma di abuso o di violenza subita in passato, collezionista di tutto, dalle foto, ai gionali impilati a centinaia nelle sue camere di servizio e tutti relativi a episodi di violenza stupro omicidio o pedofilia, ai biglietti dei treni, ricevute di tutti i tipi, attaccata a ogni istante della sua vita e spostamenti come fossero fondamentale per ricordarsi di sè, penso che questa donna non fosse interessata alla fama, all'esposizione delle sue fotografie, di più, non solo non era interessata, non sapeva nemmeno cosa fosse la fama, non rientrava nelle sue categorie mentali. mi vengono i brividi se penso a quanto ha fotografato senza praticamente mai rivedere quel che fotografava. non aveva importanza vedere, rivedere, mostrare, ma l'atto del fotografare, quel momento di empatia, di brivido, di riverbero, di vibrazione che la veniva dall'inquadrare e scattare foto, da quel contatto vicino ma filtrato, unico e irripetibile (e non necessariamente rivedibile ma confinato in un rullino non sviluppato) con la realtà. mi vengono i brividi  a pensare a noi con le nostre stupide reflex a vedere e controllare subito l'esito dello scatto e invece quel fotografare senza sosta senza mai sbagliare una posa. quello era fotografare, non quel gesto comodo e vigliacco che applichiamo noi adagiati su una tecnologia che supplisce il talento.
quello era guardare, pensare, riflettere, mettere insieme le immagini, vederle nel loro insieme, scegliere il momento, aspettare, guardare il soggetto e coglierlo nel suo essere vivo.
Vivian ha fotografato il mondo, tutte le strade del mondo e ha colto l'essenza della vita in ogni soggetto che ha fotografato. sfuggendo probabilmente al proprio senso.


il lavoro di nanny le permetteva di andare e girare, non essere vincolata, sfuggire, cambiare, camuffarsi, dare nomi falsi, avere molto tempo per fare quel che le piaceva, sembra avesse a disposizione un tempo infinito, tante sono le cose che ha fatto e collezionato, film e foto che ha cliccato, a decine di migliaia. le sue foto hanno espanso il suo tempo all'infinito, l'infinito di chi ora si è preso la briga di sciogliere il suo mistero, sviluppare tutto, fare della sua vita la propria, della sua ricchezza la propria fortuna. è come vivere due volte.
un giovane ragazzo John Maloof, fotografo e filmaker, autore del film Alla ricerca di Vivian Maier e responsabile oggi di tutto ciò che di lei viene pubblicato,  si era recato a un'asta a scegliere oggetti di qualche interesse per fare un documentario sul suo quartiere di Chicago. ha comprato per 380 dollari una scatola di negativi e da lì ha ricostruito un mondo, occupato la sua vita, sviluppato foto, fatto viaggi in Francia, paese di orgine di Vivian, fatto mostre e probabilmente molti milioni di dollari. nel 2007,  ha dunque acquistato all'asta una scatola piena di negativi sperando di trovare del materiale utile al suo scopo e invece, ha trovato una delle più straordinarie collezioni fotografiche del XX secolo. andando, qualche anno dopo, alla ricerca dell'identità del fotografo, questa donna di nome Vivian Maier scomparsa nel 2009, Maloof ha scoperto anche una storia da romanzo: quella di una figura dall'immenso talento artistico, che ha preferito per tutta la vita mantenere il segreto sulla sua attività fotografica, lavorando come tata con la rolleiflex al collo per i bambini delle famiglie bene di Chicago. un caso, due vite che si incrociano, e il mistero di Vivian ora parla al mondo senza poter mai essere dipanato fino in fondo.
Vivian era ossessiva e ossessionata, si teneva insieme come poteva, ricevute foto e giornali ricomponevo i pezzi di una solitudine estrema, non conosceva la convivialità, la vita comune, il condividere, l'amare, il costruire. fuggiva da una casa all'altra, da una vita all'altra, da una foto all'altra senza sapere come fare e come andare. che interese aveva di vendersi? non era questo che le interessava, anzi, caso mai, nascondersi al mondo, mettersi strati di vestiti, incurante delle sue forme del suo sesso e dei suoi capelli della sua anima e dei suoi bisogni. sola e nascosta.
e noi siamo qui a violarla, a sbirciare nella sua vita, a sbranare le sue foto, a divorare il suo mistero.
ossessionati anche noi, turbati e voraci.



Scrive Alessandro Baricco:
Quel che è successo è questo: arrivata a una certa età, tata Maier si è ritirata dall’attività, si è spiaggiata in un sobborgo di Chicago e si è fatta bastare i pochi soldi messi da parte. Dato che accatastava molto, come si è visto, affittò un box, in uno di quei posti in cui si mettono i mobili che non stanno più da nessuna parte, o la moto che non sai più che fartene: ci ficcò dentro un bel po’ di roba e poi finì i soldi, non riuscì più a pagare l’affitto e quindi finì come doveva finire. Quelli dei box, se non paghi, dopo un po’ mettono tutto all’asta. Non stanno nemmeno a guardare cosa c’è dentro: aprono la porta, gli acquirenti arrivano, danno un’occhiata da fuori e, se qualcosa li ispira, si portano via tutto per un pugno di dollari: immagino che sia una forma sofisticata di gioco d’azzardo. L’uomo che si portò via il box di tata Maier si chiamava John Maloof. Era il 2007. Più che altro si portò via scatoloni, ma quando iniziò a guardarci dentro scoprì qualcosa che poi avrebbe cambiato la sua vita, e, immagino, ingrassato il suo conto in banca: un misurato numero di foto stampate in piccolo formato, una marea di negativi e una montagna di rullini mai sviluppati. Sommando si arrivava a più di centomila fotografie: tata Maier, in tutta la sua vita, ne aveva visto forse un dieci per cento (pare non avesse i soldi per lo sviluppo, o forse non le importava neanche tanto), e non ne pubblicò nemmeno una. 
Ma Maloof invece si mise a guardarle per bene, a svilupparle, a stamparle: e un giorno si disse che o era pazzo o quella era una dei più grandi fotografi del Novecento. Optò per la seconda ipotesi. Volendo credergli, si mise anche a cercarla, questa misteriosa Vivian Maier, di cui non sapeva nulla: la trovò, un giorno del 2009, negli annunci mortuari di un giornale di Chicago. Tata Maier se n’era andata in silenzio, probabilmente in solitudine e senza stupore, all’età di 83 anni: senza sapere di essere, in effetti, com’è ormai chiaro, uno dei più grandi fotografi del Novecento. 
La prima volta che ho incrociato questa storia ho naturalmente pensato che fosse troppo bella per essere vera. Tuttavia le foto erano davvero pazzesche, tutte foto di strada, quasi tutte in bianco e nero: pazzesche. Così ho setacciato un po’ il web scoprendo che in effetti il mito della Maier era già lievitato niente male, sebbene all’insaputa mia e dei più: mostre, libri, perfino due film, uno prodotto dalla Bbc: insomma, se era un falso, era un falso fatto maledettamente bene. Quindi una certa curiosità continuava a ronzarmi dentro finché ho scoperto che a Tours, amabile cittadina della provincia francese, neanche poi tanto lontana, c’era una mostra dedicata a tata Maier. Non so, ho pensato che volevo andare a vedere da vicino, a toccare con mano, a scoprire qualcosa. Insomma, alla fine ci sono andato.

giovedì 17 aprile 2014

in grazia di dio

regista: Edoardo Winspeare
potrebbe non sembrare ma è pugliese, del salento, e il salento emerge e domina meraviglioso in questo bellissimo film che gira nella sua terra.
In grazia di dio, come vorrei stare io.
il film ha molto da insegnarmi ma io sono arretrata e non ho la forza, l'intelligenza, di stare in grazia, in stato di grazia, o anche di dio.
la protagonista di questo film è come me, incapace di cogliere i segni della grazia, ma, al contrario, sua madre, figura meravigliosamente attaccata alla vita e al suo senso profondo, si, lo è.
la protagonista, Adele, è madre a sua volta, madre di una figlia perduta e vuota, avuta da un uomo, poi lasciato nel rancore e nel disprezzo, padre amorevole ma votato alla delinquenza e alle prigioni di stato. Adele odia, odia il mondo, odia l'ex marito dal quale ha avuto questa figlia, e odia questa figlia, vuota di senso e sbattuta nel letto per la maggior parte del tempo, incapace a scuola, irrisolta e instupidita dietro a cellulari chat e selfie e serate in piazza, scosciata e a turno scopata da questo o da quello, che differenza fa.
la vita di Adele non è vuota, è abitata dalla rabbia e dagli attacchi di panico, tutto va a rotoli, l'impresa di famiglia si indebita, fallisce, la banca preme ed abusa: per sopravvivere svende la casa, costruita dal padre, abitata da tutte e quattro le donne di famiglia comprese la madre, la sorella e la figlia, e si trasferisce in piena campagna salentina, un buco di terra con un edificio diroccato e mal servito, un buco di mattoni e calce, la luce arriva grazie a un motore alimentato a benzina, se la benzina c'è.
ed è così che la vita cambia, cambia per tutte, ma per tutte in modo diverso.

dominante su tutte è la figura della madre della protagonista, la nonna, anziana ma non troppo (65 anni), animata da una forza singolare, mai arresa, consapevole del valore della vita, retta e ferma in ogni delusione, mai piegata dagli eventi. "si sta unite", si vende la casa e si va a lavorare la terra. unite e in grazia di dio. lavora, e lavora duro non c'è retorica bucolica ma la terra che suda, e non lamenta, niente, anzi, assorbe l'odore della terra e dei suoi frutti, gode del sole e quel che ha, quanto sia e come sia, va bene lo stesso.
chi, oggi, avrebbe la forza di questa donna? pare non avere niente e invece ha tutto e tutto avrà, anche l'amore, dopo la vedovanza, anche la felicità, dopo la povertà.




Adele invece è spigolosa, il rancore la mangia viva e la sua vita si mangia lei. detesta le preghiere della madre, come le sente alza gli occhi al cielo convinta che solo la concretezza del fare possa aiutare, giudica duramente il vuoto esistenziale della figlia, ridicolizza le chimere cinematografiche di una sorella davvero poco dotata. ma la nonna crede, la figlia spera, la sorella sogna. e lei? lei lotta duramente, si adatta alla vita solare ma impoverita della campagna, tiene duro su tutto, non vende la sua terra, porta in giro il suo camioncino per vivere di baratti e piccole vendite, si intestardisce e litiga all'agenzia delle entrate che pretende il pagamento di multe arretrate mai pagate, è disincantata su tutto. ha ragione da vendere, ha ragione ma anche torto, molto torto e la vita glielo dice, alla fine, nonostante un amore che busserà alla sua porta, rimarrà sola. la durezza non paga, la tenacia si ma con tenerezza, con pazienza, con cuore. con fede.
un film fantastico, un film italiano che ha da dire, da far vedere, da mostrare ed emozionare.
quattro bellissime donne che raccontano della vita, com'è dura e com'è bella.
un film da vedere e godere. un film da cui dovrei imparare.

“Quello che accade è di perdere la tenerezza per tutto. Indurirsi sino all’indifferenza. Ricevere tutto come condanna e procedere per inerzia. È la strage d’anime che questi tempi stanno generando. Ho appena finito di vedere un film, ‘In grazia di Dio’ – scrive Roberto Saviano – Ne sono completamente attraversato. Il regista Edoardo Winspeare non vuole drammatizzare, non vuole educare, denunciare. Racconta e basta. C’è il sole meridionale, c’è la pietra. Tricase, Corsano, Leuca. Ci sono parole, le salentine sonorità di Grecia e Bisanzio. Ci sono debiti, e ancora debiti, fabbriche che chiudono, la casa svenduta, pensioni saccheggiate che fanno vivere figli e nipoti. L’onestà pagata a un prezzo d’usura”. “I rosari, l’emigrazione, la famiglia unita e nervosa a tavola, gli insulti come calce che tiene in piedi affetti compromessi dall’infelicità. E ancora la famiglia, luogo di ferite, ma presenza certa nel bisogno e nell’aiuto – continua parlando del film uscito nelle sale la scorsa settimana e distribuito da Good Films – C’è la vita di quattro donne che provano a trovare una strada accettabile quando il lavoro non sembra bastare più come condizione per vivere dignitosamente. E c’è la campagna a cui si ritorna malvolentieri, perché costretti: gli ulivi sul mare, le pietre una sull’altra per ricostruire. È in questa stessa terra che forse riparte una possibilità di vita, di lavoro, di pace e di bellezza”.

martedì 15 aprile 2014

Vivian Maier: come si può vivere per sempre?

era matta, era psicotica, era in frammenti.
era sola, solitaria, perversa, ai confini del mondo, misteriosa, nascosta.
era una fotografa immensa.
un talento smisurato.
una produzione sconfinata.
ha fotografato la vita sui volti della gente. tutta la gente del mondo.
è un mistero, una storia sconvolgente, un intrigo della mente che lascia incatenati.
Vivian Maier, una scoperta ai confini della realtà, anche un film al cinema, da vedere. tutta e tutto.
intanto devo scrivere questo, è urgente e necessario, poi un post.










sabato 12 aprile 2014

brain

questi nativi digitali sono gente inaffidabile.
in fondo è proprio il cervello, brain, a fare di loro delle creature aliene.
perché non darci un'occhiata a quei circuiti cerebrali che li rendono veloci sui joystick della play station, mobilissimi con lo sguardo e messa a fuoco della retina, strabilianti nel progettare un'azione di guerra e di assalto nel giro di pochi secondi, inarrivabili nel capire il funzionamento del nuovo cellulare e nell'installazione delle sue app.
perché? perchè sono veloci ma analfabeti. 
è una provocazione pesante, forse troppo, ma l'ignoranza aleggia come un fantasma pesantissimo su questa nuova popolazione mondiale che abita anche la mia stessa casa.
meno male che ci sono almeno lo sci e il calcio che costringono ad uscire di casa oltre le ore di scuola, altrimenti le chiappe sono appostate e incollate sulla poltrona di camera, non per studiare ma mantenere vivo (vivo?) il contatto con il web in tutte le sue possibili forme.
queste popolazioni non sanno né leggere né tanto meno scrivere, la sintassi e l'uso dei verbi irregolari è di una generazione passata, un problema che non li tocca. pena l'analfabetismo.
è chiaro che sono abbattuta e amareggiata da quel che vedo, lotto e mi ribello, ma non posso che soccombere e dirmi che avranno, poi, ragione loro.
provengo da una famiglia colta e illuminata ma capisco che il mio passato e la mia stessa persona , che in qualche modo tramanda quell'eredità, la testimonia, sono del tutto indifferenti rispetto all'attrattiva di Call of Duty Ghost e F1 2013. 
in fondo la mia richiesta era leggera, niente Klimt a Palazzo Reale o Goldoni a teatro, era Brain, bella mostra per un pubblico giovane, interattiva e ben fatta, al Museo di Storia Naturale di Milano, Corso Venezia 55.
un gioiellino, 5 sale, snelle e ben strutturate, adatta alla velocità delle menti giovanili, molte immagini, video, prove interattive, poche parti scritte, enormi pezzi di cervello (in plastica!!) troneggianti nelle sale a mostrare visivamente parti anatomiche e funzioni neurologiche.
io l'ho vista in un lampo, grazie al cielo possiedo ancora buona memoria dei miei studi, ho ripassato bene cervelletto e corpo cingolato, fissazione della memoria a breve e lungo termine, coordinazione motoria e risoluzione dei conflitti, ma l'avrei girata volentieri nel doppio del tempo in compagnia di un giovane mostro a 10 dita per mano.







il rifiuto a partecipare è stato motivato dall'impossibilità di rinunciare al pomeriggio domenicale in fedele compagnia della simbiotica play, cosa c'è di più rassicurante di una patologica dipendenza?
tutto questo, di mio, della mia famiglia, della mia memoria, della mia storia, del mio brain, andrà perso come lacrime nella pioggia.

giovedì 10 aprile 2014

estoy viva

una mostra al PAC.
un altro bel posto di Milano, a me piace parecchio, affiancato alla Villa Comunale (una volta Villa Reale di Milano) e adiacente al suo bel parco, uno spazio arioso e luminoso, spazio espositivo per eccellenza a Milano dedicato all’arte contemporanea, sempre animato da belle mostre.
l'ultima che ho visto mi ha lasciata stupefatta.

Regina José Galindo 
ESTOY VIVA 
25 Marzo 2014 - 08 Giugno 2014
Guatemala City, luglio del 2003. Una giovane donna cammina dalla Corte Costituzionale fino al Palazzo Nazionale del Guatemala lasciando una scia di impronte di sangue umano con il quale si è sporcata i piedi poco prima, in memoria delle vittime del conflitto armato in Guatemala. 
É Regina José Galindo, oggi tra le artiste più rappresentative del magmatico continente latinoamericano. Due anni dopo verrà premiata con il Leone d’Oro alla 51° Biennale di Venezia come migliore artista under 35 "per aver saputo dare vita a un'azione coraggiosa contro il potere". L’artista indaga la dimensione soppressa e rimossa della sofferenza, utilizzando il proprio corpo in chiave politica e polemica per riattivare i traumi del rimosso e le rovine della storia. Partendo dal microcosmo del suo paese, il Guatemala, teatro di perenne instabilità e violenza, l’artista realizza opere scomode e drammatiche. Il suo corpo minuto e all’apparenza fragile è esposto ad una serie di azioni pubbliche che usano lo spazio metaforico dell'arte per denunciare le implicazioni etiche legate alle ingiustizie sociali e culturali, le discriminazioni di razza e di sesso e più in generale tutti gli abusi derivanti dalle relazioni di potere che affliggono la società contemporanea. Le sue performance sono realizzate in un’ottica di coinvolgimento totale. Rannicchiata nuda sotto una campana di plexiglass o sopra uno scoglio a picco sul mare, nascosta sotto un letto, appesa ad un albero dentro una rete da pesca, sdraiata immobile sull’erba con i capelli nella terra come radici, legata e accovacciata sul pavimento di un motel. Spalmata di carbone o di fango, con la testa sott'acqua fino ai limiti della resistenza o esposta nuda a getti violenti di acqua fredda. Immobile, respirando appena, a volte mani e piedi immobilizzati. In bilico tra la vita e la morte l’artista indaga la paura, l’angoscia e le loro conseguenze, affrontandone in prima persona il rischio fisico e psicologico, spingendosi oltre i propri limiti con performance radicali, spiazzanti ed eticamente scomode. La mostra racconta in cinque macro emergenze tematiche - Politica, Donna, Violenza, Organico e Morte – l’ultima produzione dell’artista e raccoglie un’ampia selezione dei suoi lavori più rappresentativi, dalle origini ad oggi. Un viaggio emozionale raccontato attraverso fotografie, video, sculture e disegni. Un percorso costruito attraverso cortocircuiti e slittamenti, che affianca ad alcune delle sue azioni più emblematiche e conosciute opere più recenti e numerosi lavori inediti o mai esposti prima in Italia, come l’intensa Descensión (2013) o la toccante La Verdad (2013).


potrei pensarla, Regina José Galindo, come l'erede diretta di Marina Abramovic, anche se molto meno sofisticata, meno esperta, e anche meno sgamata e furba. non vado matta per l'Abramovic, respiro aria di forte autoreferenzialità, di narcisismo, di esposizione mediatica molto studiata, troppo studiata.
questa giovane donna invece mi da un'altra impressione, che è molto diversa da quella che vuole comunicare.
durante la mostra, che mostra cose inaudite o, meglio dire, mostra esclusivamente il suo corpo nudo o semi vestito e le torture cui lo sottopone, non ho pensato alla violenza nel mondo, nel Guatemala, sulle donne, sugli uomini, sulle popolazioni inermi sterminate, ma esclusivamente alla sua follia.
quello che ho visto non è l'universo piegato dalla violenza e dal sopruso, ma il suo corpo torturato ed esposto in tutti modi possibili, macerato, violentato, operato chirurgicamente (immagini video che riportano un'operazione di imeno-plastica con sangue bisturi vulva e grandi labbra in piena visione), coperto di sangue sgocciolante da una tubo in una piazza pubblica, immerso per minuti interi in un barile d'acqua fino al soffocamento, piegato in posizione fetale come pietrificato sul quale urinavano pubblicamente uomini e donne, esposto a una mostra e toccato da tutti, sepolto vivo metri sotto terra, torturato da un dentista che le paralizzava la bocca con progressive iniezioni anestetizzanti fino a non riuscire più a leggere pagine di denuncia, punito dall'acqua a gettito fortissimo, dalla terra spalata da una tomba, lasciato morto in un bosco con i capelli lunghi risucchiati dalla terra, ferito a sangue da un coltello con cui scrive perra (cagna) sulla sua coscia.












di cosa stiamo parlando? cosa stavo vedendo? a cosa stavo pensando? alla psicosi.
con me, missione fallita! non ho pensato all'umanità ferita ma alla vicenda umana e personale di questa povera donna, alla ferita che questa persona imprime pubblicamente e reiteratamente al suo corpo continuamente esibito e offeso. mi è impossibile pensare a una questione personale di un corpo non preso a simbolo ma a reale, a un corpo come corpo estraneo, a una dissociazione tra arte (non ne ho vista) e realtà, qui c'è disagio mentale fatto esposizione mediatica, una grande risonanza non del Guatemala martoriato ma di un'anima malata e sovraesposta, fisicamente delirante.
probabilmente un problema mio da una parte e una grande artista l'altra, non lo posso escludere.

lunedì 7 aprile 2014

gomorra

“Non permettiamo uomini che le nostre terre diventino luoghi di camorra, diventino un'unica grande Gomorra da distruggere! Non permettiamo uomini di camorra, e non bestie, uomini come tutti, che quello che altrove diventa lecito trovi qui la sua energia illecita, non permettiamo che altrove si edifichi ciò che qui viene distrutto. Create il deserto attorno alle vostre ville, non frapponete tra ciò che siete e ciò che volete solo la vostra assoluta volontà. Ricordate. Allora il SIGNORE fece piovere dal cielo su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco; egli distrusse quelle città, tutta la pianura, tutti gli abitanti delle città e quanto cresceva sul suolo. Ma la moglie di Lot si volse a guardare indietro e diventò una statua di sale. (Genesi 19,12-29). Dobbiamo rischiare di divenire di sale, dobbiamo girarci a guardare cosa sta accadendo, cosa si accanisce su Gomorra, la distruzione totale dove la vita è sommata o sottratta alle vostre operazioni economiche. Non vedete che questa terra è Gomorra, non lo vedete? Ricordate. Quando vedranno che tutto il suo suolo sarà zolfo, sale, arsura e non vi sarà più sementa, né prodotto, né erba di sorta che vi cresca, come dopo la rovina di Sodoma, di Gomorra, di Adma e di Seboim che il SIGNORE distrusse nella sua ira e nel suo furore, (Deuteronomio 29,22). Si muore per un sì e per un no, si dà la vita per un ordine e una scelta di qualcuno, fate decenni di carcere per raggiungere un potere di morte, guadagnate montagne di danaro che investirete in case che non abiterete, in banche dove non entrerete mai, in ristoranti che non gestirete, in aziende che non dirigerete, comandate un potere di morte cercando di dominare una vita che consumate nascosti sotto terra, circondati da guardaspalle. Uccidete e venite uccisi in una partita di scacchi il cui re non siete voi ma coloro che da voi prendono ricchezza facendovi mangiare l'uno con l'altro fin quando nessuno potrà fare scacco e ci sarà una solo pedina sulla scacchiera. E non sarete voi. Quello che divorate qui lo sputate altrove, lontano, facendo come le uccelle che vomitano il cibo nella bocca dei loro pulcini. Ma non sono pulcini quelli che imbeccate ma avvoltoi e voi non siete uccelle ma bufali pronti a distruggersi in un luogo dove sangue e potere sono i termini della vittoria. È giunto il tempo che smettiamo di essere una Gomorra…” (lettera in commemorazione di Don Peppino Diana, scritta da un amico di Roberto Saviano)

quel che penso, ho finito il libro, è che Roberto Saviano, nato in terra di camorra, cresciuto e infiltrato nella terra di camorra, al corrente e informato su moltissimi fatti di camorra, dai traffici illeciti di droga e qualunque altra cosa, alle speculazioni edilizie, al marciume dei rifiuti tossici provenienti da tutta l'Italia e sepolti nel territorio campano fino a farne una voragine tombale di cancro e putrescenza, abbia vissuto in bilico tra la rabbia e il cedimento. tra il desiderio di verità, riscatto per la sua terra e per l'Italia intera, e l'adesione a un richiamo fortissimo. credo che abbia vissuto un profondo dilemma, stare fuori o stare dentro.
magari dico una cosa inaudita, o una cosa da lui stesso ammessa, come a me sembra dalle ultime pagine del libro.

Cercavo di capire se i sentimenti umani erano in grado di fronteggiare una così grande macchina di potere, se era possibile riuscire ad agire in un modo, in un qualche modo, in un modo possibile che permettesse di salvarsi dagli affari, permettesse di vivere al di là delle dinamiche di potere. Mi tormentavo, cercando di capire se fosse possibile tentare di capire, scoprire, sapere senza essere divorati, triturati. O se la scelta era tra conoscere ed essere compromessi o ignorare – e riuscire quindi a vivere serenamente. Forse non restava che dimenticare, non vedere. Ascoltare la versione ufficiale delle cose, trasentire solo distrattamente e reagire con un lamento. Mi chiedevo se potesse esistere qualcosa che fosse in grado di dare possibilità di una vita felice, o forse dovevo solo smettere di fare sogni di emancipazione e libertà anarchiche e gettarmi nell'arena, ficcarmi una semiautomatica nelle mutande e iniziare a fare affari, quelli veri. Convincermi di essere parte del tessuto connettivo del mio tempo e giocarmi tutto, comandare ed essere comandato, divenire una belva da profitto, un rapace della finanza, un samurai dei clan; e fare della mia vita un campo di battaglia dove non si può tentare di sopravvivere, ma solo di crepare dopo aver comandato e combattuto. Sono nato in terra di camorra, nel luogo con più morti ammazzati d'Europa, nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere. Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale. Sembrava impossibile avere un momento di pace, non vivere sempre all'interno di una guerra dove ogni gesto può divenire un cedimento, dove ogni necessità si trasformava in debolezza, dove tutto devi conquistarlo strappando la carne all'osso. In terra di camorra, combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. Non è la presa di coscienza del proprio onore, la tutela del proprio orgoglio. È qualcosa di più essenziale, di ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d'affermazione dei clan, le loro cinetiche d'estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza, come se l'esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L'unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare.

ringrazio Saviano per questo libro, per quello che mi ha raccontato e che ora so, almeno un po' di più, o mi illudo di sapere di più. per quello che so di più e dovrei sapere di più, e chissà se avrò mai il coraggio di sapere. Gomorra è un libro sul coraggio della conoscenza ancora più che sulla camorra: Non è la confessione in sé che fa paura, non è l'aver indicato un killer che genera scandalo. Non è così banale la logica d'omertà. Ciò che rende scandaloso il gesto della giovane maestra è stata la scelta di considerare naturale, istintivo, vitale poter testimoniare. Possedere questa condotta di vita è come credere realmente che la verità possa esistere e questo in una terra dove verità è ciò che ti fa guadagnare e menzogna quello che ti fa perdere, diviene una scelta inspiegabile. Così succede che le persone che ti girano vicino si sentono in difficoltà, si sentono scoperte dallo sguardo di chi ha rinunciato alle regole della vita stessa, che loro invece hanno totalmente accettato. Hanno accettato senza vergogna, perché tutto sommato così deve andare, perché è così che è sempre andato, perché non si può mutare tutto con le proprie forze e quindi è meglio risparmiarle e mettersi in carreggiata e vivere come è concesso di vivere.

domenica 6 aprile 2014

una guerra epocale

il primo conflitto mondiale nelle immagini degli archivi inglesi, francesi e tedeschi gestiti in Italia da Tips Images viene presentata in Italia a La Casa di Vetro di via Luisa Sanfelice 3 a Milano dal 1° marzo fino al 18 aprile 2014: l’esposizione è composta di 54 immagini provenienti dalle collezioni degli archivi inglesi Heritage, Topfoto, Mary Evans, Science and Society Picture Library – Musei di Londra, degli archivi francesi Rue des Archives, e degli archivi tedeschi del quotidiano Süddeutsche Zeitung. 
la mostra è bella. punto e basta. sono poche foto e questo è un grandissimo pregio: si guardano tutte e bene. si leggono tutte e bene. la bellezza sta nella foto, nella sua capacità di fermare il tempo e renderlo eterno. queste che ho scelto le trovo spettacolari, o dal punto di vista fotografico o semplicemente emotivo. sono stupefatta dall'immagine dei soldati che sembrano sparare contro il nulla, un muro, una luce, un riflesso di se stessi; da quella dei soldati che combattono in mezzo a una natura terrificante, alberi morti, fantasmi e spettri della terra e del mondo; da quella di una feritoia di luce, uno sguardo ridotto orizzontale sul mondo fuori, e la paura dentro.
e le bombe si lanciano a mano, con la faccia di chi solo sta compiendo un mestiere, nulla più.
da vedere, per pensare.

 PGM 2 - MRE00143976 - ARCHIVIO MARY EVANS
SOLDATI TEDESCHI SPARANO ATTRAVERSO UN BUCO NEL MURO MENTRE SI RIPARANO IN UNA TRINCEA CHE PASSA ALL’INTERNO DI UN EDIFICIO SUL FRONTE OCCIDENTALE IN FRANCIA. NEL COMPLESSO, LE BATTAGLIE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE SI SVOLSERO IN CAMPO APERTO E RARAMENTE ALL’INTERNO DI CENTRI ABITATI 1914



 PGM 31 - HIP00006349 - ARCHIVIO HERITAGE
L’AFFONDAMENTO DELL’INCROCIATORE TEDESCO BLÜCHER NEL MARE DEL NORD DURANTE LA BATTAGLIA NAVALE DI DOGGER BANK, COMBATTUTA TRA LA FLOTTA INGLESE E QUELLA TEDESCA AL LARGO DELLA COSTA OLANDESE. L’EQUIPAGGIO CERCA DI METTERSI IN SALVO BUTTANDOSI IN MARE. DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE LE INNOVAZIONI TECNOLOGICHE IN CAMPO NAVALE FURONO SORPRENDENTI. LE NAVI NON SOLO SI DOTARONO DI UNA CORAZZATURA MOLTO PIÙ SPESSA E DI MOTORI MOLTO PIÙ POTENTI MA IMBARCARONO CANNONI DI GROSSO CALIBRO CON GITTATE CHE RAGGIUNSERO I 20 CHILOMETRI. 24 GENNAIO 1915

 PGM 27 - RDA00016454 - ARCHIVIO RUE DES ARCHIVES
UN CAPPELLANO MILITARE CAMMINA TRA I CADAVERI DI SOLDATI FRANCESI SUL FRONTE OCCIDENTALE. LA PRIMA GUERRA MONDIALE PROVOCÒ CIRCA 16 MILIONI DI MORTI E 20 MILIONI DI FERITI. DUE TERZI DEI 10 MILIONI DI SOLDATI UCCISI PERSERO LA VITA DURANTE IL COMBATTIMENTO: LA PIÙ GRANDE CARNEFICINA DELLA STORIA AVVENUTA SUI CAMPI DI BATTAGLIA. UNA FOLLIA DI CUI SI RESERO TUTTI CONTO TROPPO TARDI. E CHE NESSUNO RIUSCÌ A FERMARE. 1914/1918

 PGM 32 - SSP00011868 - ARCHIVIO SSPL – SCIENCE & SOCIETY PICTURE LIBRARY
UN PILOTA TEDESCO MENTRE SI LANCIA DAL SUO AEROPLANO ALBATROSS IN FIAMME DOPO ESSERE STATO ABBATTUTO SOPRA LE LINEE NEMICHE. COSÌ RACCONTA LA FOTO L’AVIATORE INGLESE CHE L’HA SCATTATA: “L’AEREO TEDESCO HA COMINCIATO UNA
DISCESA CONTROLLATA E IL PILOTA DEL MIO AEREO HA PUNTATO NELLA SUA DIREZIONE PER ANDARGLI DIETRO. QUINDI L’HO VISTO ANDARE IN FIAMME ... IL CALORE DEVE ESSERE STATO TERRIFICANTE. IL PILOTA INFINE SI È BUTTATO FUORI …” 1914/1918


 PGM 28 - SZG00070561 - ARCHIVIO SCHERL / SUDDEUTSCHE ZEITUNG
SOLDATI INGLESI GIOCANO A CALCIO CON LE MASCHERE ANTIGAS NELLE IMMEDIATE RETROVIE DEL FRONTE OCCIDENTALE.
A USARE IL GAS PER PRIMI FURONO I FRANCESI, CHE SI SERVIRONO DI QUELLO LACRIMOGENO, RELATIVAMENTE PERICOLOSO. MA A UTILIZZARE PER PRIMI IL GAS CON L’OBIETTIVO DI UCCIDERE SU VASTA SCALA FURONO I TEDESCHI: NELLA SECONDA BATTAGLIA DI YPRES NELL’APRILE DEL 1915 ATTACCARONO FRANCESI, CANADESI E ALGERINI CON GAS AL CLORO. SECONDO I RAPPORTI UFFICIALI, DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE CI FURONO 1.176.500 CASI DI INTOSSICAZIONE NON LETALE E 85.000 MORTI PER L’USO DEI GAS. 1917

 PGM 7 - TOF00014036 - ARCHIVIO TOP FOTO
UN ASSALTO DELLE TRUPPE BRITANNICHE SUL FRONTE OCCIDENTALE. I SOLDATI RESTANO IN ATTESA DEL LORO TURNO PER USCIRE DALLA TRINCEA SOTTO IL FUOCO DELLE BOMBE NEMICHE. DIFFICILE NON CONDIVIDERE L’ANSIA E LA PAURA CHE DOVEVANO PROVARE GLI UOMINI IN PROCINTO DI LANCIARSI ALL’ASSALTO. 1914/1918

 PGM 39 - TOF00014473 - ARCHIVIO TOP FOTO
CAVALLERIA AUSTRIACA PATTUGLIA UN TRATTO DEL FRONTE. L’UTILIZZO DELLA CAVALLERIA ERA ANCORA MOLTO DIFFUSO DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE, SOPRATTUTTO SUL FRONTE ORIENTALE DOVE LA GUERRA FU MENO DI TRINCEA E PIÙ DI MOVIMENTO A CAUSA DELL’ENORME ESTENSIONE DEI TERRITORI TOCCATI DAL CONFLITTO. LA CAVALLERIA TUTTAVIA ERA SEMPRE MENO UTILIZZATA PER ANDARE ALL’ASSALTO DELLE POSIZIONI AVVERSARIE E AVEVA SEMPRE PIÙ COMPITI DI RICOGNIZIONE. POLONIA, 1914

 PGM 19 - TOF00014878 - ARCHIVIO LIGHTROOM / TOP FOTO
MITRAGLIERI DELLA COMPAGNIA DI COMANDO DEL REGGIMENTO 23° FANTERIA SPARANO CON UNA MITRAGLIATRICE 37 MM MENTRE AVANZANO CONTRO LE POSIZIONI TRINCERATE DEI TEDESCHI SUL FRONTE OCCIDENTALE. MOLTI BOSCHI, COME QUELLO IN CUI STANNO AVANZANDO, FURONO DISTRUTTI DAI CONTINUI COLPI DI ARTIGLIERIA ASSUMENDO UN ASPETTO SPETTRALE CHE DIVENNE TIPICO DELL’ICONOGRAFIA DELL’EPOCA SUL CONFLITTO. FRANCIA, 1918

PGM 13 - RDA00115421 - ARCHIVIO RUE DES ARCHIVES.
FOTOGRAFIA SCATTATA SUL FRONTE OCCIDENTALE ATTRAVERSO IL VISORE DI UNA MITRAGLIATRICE FRANCESE. SULLO SFONDO SI INTRAVEDONO LE TRINCEE TEDESCHE. È PROPRIO GUARDANDO DA UNO DI QUESTI VISORI CHE IL FAMOSO GENERALE FRANCESE MANOURY FU FERITO FRANCIA, 1914/1918


 PGM 53 - TOF00035721 - ARCHIVIO TOP FOTO
UN AVIATORE BRITANNICO LANCIA CON LA MANO UNA BOMBA SUL NEMICO DURANTE UNA MISSIONE SUL FRONTE OCCIDENTALE. L’ABITUDINE DI SCRIVERVI MESSAGGI SOPRA ERA FREQUENTE DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE.
PIONIERI DELL’UTILIZZO DELL’AVIAZIONE IN GUERRA FURONO GLI ITALIANI DURANTE L’INVASIONE DI LIBIA DEL 1911/1912.  1914/1918


le immagini sono tratte da Tips Images e le didascalie dalla mostra alla Casa di Vetro.