bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 31 ottobre 2014

il giovane favoloso (II)

non è un capolavoro il film di Mario Martone, ma lo è Leopardi. e io lo ringrazio, Martone, di questo regalo che mi ha fatto, comunque.
il film non è del tutto riuscito, si sfalda via facendo dopo un inizio strepitoso, o favoloso che dir si voglia.
la narrazione della giovinezza di Leopardi a Recanati è entusiasmante, la conoscenza del poeta è esaltante, l'incontro con la sua poesia, la sua passione, la sua rivolta è commovente.

tutto quel che segue, soprattutto l'ultima parte, la permanenza a Napoli, è ormai noiosa, ma il finale vesuviano con la sua ginestra è nuovamente convincente.
mi è piaciuto tanto Elio Germano, quanto mi piace quel ragazzo e quanto somiglia a mio fratello!, quel suo esserci senza recitare. per me lui è Leopardi, è diventato Leopardi, con le sue espressioni, il suo godere del sole sulla faccia, dello spazio intorno, del gelato in bocca, dei dolci napoletani, della compagnia degli altri, la schiena curva sui libri e sulle lettere, lo sguardo veloce e furtivo sulla bellezza. e a quel Leopardi penso ancora, lo penso, lo ricordo, lo immagino, mi ha presa, ha colto qualcosa in me. 
finalmente mi sono liberata, come molti, forse tutti, dello stereotipo leopardiano e ho notato qualcosa di diverso, di sorprendente, di inaspettato. mi sono ritrovata partecipe alle fughe dalla prigione del padre, alla ribellione allo statuto familiare e sociale opprimente e soffocante, alla rivoluzione passionale di uno spirito piegato dalla malattia ma non nello spirito. che cuore indomito!
"Non mi parli di Recanati", scrive a Giordani, suo maestro e fonte di immensa speranza di evasione, "m’è tanto cara da somministrarmi idee per un trattato d’odio per la patria".
il film si dipana per blocchi e alcuni passaggi sono inspiegabili e alcune lungaggini sono disturbanti. quel che rimane, indimenticabile, è la natura di Leopardi, il suo ragionare sulla vita e l'infelicità, la sua filosofia che si ostina a volere spiegare la disperazione che appartiene alla vita di tutti, universalmente (indipendentemente dalla malattia), la sua rabbia e la sua ribellione, la sua poetica. in questo il film regala qualcosa di miracoloso, un dono misterioso, la poetica che racconta il dolore senza mai essere depresso. 

questa è la bellezza del film, il recupero di una figura statuaria e altissima della nostra letteratura ma sempre lontana, distante, sempre  presentata come una piaga insostenibile, una rottura tremenda. e invece no, ecco Leopardi raccontare la sua visione della vita, che non si salva né con la fede né con la ragione (caso mai con l'amore e quanto ne declama l'esigenza) senza mai essere depresso. Leopardi è vivo, pulsante, pensante, appassionato, vivace, curioso del mondo, delle cose e della vita. è vivo più che mai. ed ecco che la mia adesione è totale e penso che così dovrebbero raccontarcelo a scuola e farcelo amare. ed Elio Germano è capace di passarmi tutta questa preziosità declamando l'Infinito senza recitarlo, raccontandomelo e facendomi rabbrividire, facendomi guardare, in altri versi, la sua Silvia con gli occhi di un ragazzo innamorato e schivo. 
dovrebbe sempre essere così, che qualcuno ci racconti la storia con autenticità e amore, con conoscenza e bellezza, scevra da pregiudizi, tramandati e mai rivisti con secolare stanchezza scolastica, da visioni ottuse senza spirito critico.
resta dunque un film importante, molto importante, per me, per la scuola, per i giovani e chi insegna loro. meravigliose le scene sulla "vile prudenza" del padre e della madre, della Recanati dolce ma noiosa e sepolcrale, dell'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa.
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo?

 (La Ginestra)

lunedì 27 ottobre 2014

Furore

intanto è difficile immaginare, per me, un titolo più bello, nella traduzione italiana.
FURORE.
il titolo originario è THE GRAPES OF WRATH, letteralmente i grappoli d'ira.
il libro di John Steinbeck è biblico, apocalittico, epico. non lo dico certo io, lo si legge ovunque.
la mia passione è nata dalle prime pagine, una descrizione, che lascia senza fiato, delle tempeste di polvere (dust bowl) che hanno sotterrato tutto, uomini e case, fede e speranza, raccolto e vita, ed è l'inizio di una miseria senza fine, come senza fine è il sogno californiano, terra del latte del miele. questa antitesi è sempre presente, in tutto il romanzo, la degradazione della fame, della povertà e della perdita che però non cede mai alla disperazione, grazie alla speranza nella redenzione, nella resurrezione, nella forza dell'uomo: "Tutto quello che vive è sacro".

Dorothea Lange

CAPITOLO 1. 
 Nella regione rossa e in parte della regione grigia dell'Oklahoma le ultime piogge erano state benigne, e non avevano lasciato profonde incisioni sulla faccia della terra, già tutta solcata di cicatrici. Gli aratri avevano cancellato le superficiali impronte dei rivoletti di scolo. Le ultime piogge avevano fatto rialzare la testa al granturco e stabilito colonie d'erbacce e d'ortiche sulle prode dei fossi, così che il grigio e il rosso cupo cominciavano a scomparire sotto una coltre verdeggiante. Agli ultimi di maggio il cielo impallidì e perdette le nuvole che aveva ospitate per così lungo tempo al principio della primavera. Il sole prese a picchiare e continuò di giorno in giorno a picchiar sempre più sodo sul giovane granturco finché vide ingiallire gli orli d'ogni singola baionetta verde. Le nuvole tornarono, ma se ne andarono subito, e dopo qualche giorno non tentarono nemmeno più di ritornare. Le erbacce si vestirono d'un verde più scuro per mascherarsi alla vista, e smisero di moltiplicarsi. La terra si coprì d'una sottile crosta dura che impallidiva man mano che il cielo impallidiva, e risultava rosa nella regione rossa, bianca nella grigia. 
 Nei solchetti scavati dall'acqua la terra si sgretolò in rigagnoli di polvere minuta, tosto percorsi da innumerevoli processioni di formiche e formiconi. E sotto le sferzate ogni giorno più crudeli del sole le foglie del giovane granturco perdevano la loro baldanza e la loro durezza; s'inchinavano, dapprima, e poi, man mano che s'infiacchiva la loro colonna vertebrale, si prostravano. E venne il giugno, e il sole diventò selvaggio; le strisce brune, sulle foglie del granturco, si estesero dagli orli fino a toccare le colonne vertebrali. Le ortiche si sfrangiarono, si raggrinzirono, invecchiarono. L'aria era afosa e il cielo più pallido e di giorno in giorno la terra incanutiva.
 Sulle strade, mulinate dalle ruote dei carri e trebbiate dai ferri dei cavalli, la crosta della massicciata andò in frantumi e creò la polvere. Le minime cose animate sollevavano questa polvere per aria: gli uomini camminando sollevavano nuvolette che s'alzavano fino alla loro cintola; i carri, nuvole più dense che raggiungevano le cime delle siepi; le automobili, nuvoloni che oscuravano il sole. E a tutta questa polvere occorreva molto tempo per ricadere e posare.
 Verso la metà di giugno le nuvole dei cielo, alte, pesanti, gravide di pioggia, si mobilitarono nel Golfo ed iniziarono la loro marcia di invasione nel Texas. Gli uomini nei campi levavano gli occhi verso di esse e annusavano l'aria e rizzavano diti bagnati di saliva per ragguagliarsi sulla provenienza del vento. I cavalli diventavano inquieti. Le nuvole passando lasciarono precipitare parte del loro carico e s'affrettarono ad invadere altre contrade, lasciandosi alle spalle il cielo pallido come prima e il sole feroce, e nella polvere crateri pieni d'acqua, e nei campi di granturco chiazze rinverdite.
 Passate le nuvole arrivò un venticello che, sospingendole verso settentrione, faceva mormorar sommesso il granturco annaffiato. Passò un giorno e il vento aumentò d'intensità e di costanza. La polvere s'alzò dalle strade e coprì le ortiche dei fossi e si spinse anche addentro nei campi di granturco. Il vento si fece impetuoso e si accanì nel rodere la crosta lasciata dall'acqua nei campi. A poco a poco il cielo si oscurò, per i turbini di polvere che il vento sprigionava dalla terra e trascinava via. Il vento si fece più impetuoso e sbriciolò la crosta formata dalla pioggia e la polvere turbinò per i campi trascinando nell'aria piume grigiastre, come spirali di fumo. Il granturco, flagellato dal vento, emetteva suoni secchi, rovinosi. La polvere impalpabile non ricadeva ormai più sulla terra, ora, ma si disperdeva nell'oscurità del cielo.
 Il vento si fece ancor più impetuoso e guizzando di tra le pietre sollevava con violenza paglia e foglie morte e piccole zolle di terra, lasciando tracce al suo passaggio, al pari d'una nave tra i flutti. Il sole splendeva rosso nell'aria oscura e fredda. Una notte il vento impazzò, zappò furiosamente la terra attorno alle radici del granturco, e il granturco si mise a lottare per difesa contro il vento agitando le sue foglie indebolite, ma nella lotta le radici risultarono denudate delle zolle di terra protettrice ed ogni pianta risultò inclinata nella direzione del vento.
 L'alba venne, ma non il giorno. Nel cielo grigio apparve un sole rosso, un fioco cerchio rosso che emanava una scialba luce crepuscolare, e col progredire delle ore il crepuscolo ripiombò nella tenebra e il vento fischiò ed urlò sul granturco abbattuto.
 Uomini e donne stavano tappati in casa, e quando dovevano uscire si annodavano una pezzuola davanti alla faccia per filtrare la polvere e portavano occhiali da automobilista per proteggersi gli occhi.
 La notte fu nera come l'inchiostro, perché le stelle non potevano penetrare attraverso la polvere per raggiungere la tetra, e le luci accese nell'interno delle case non arrivavano nemmeno sull'aia. Ora l'aria e la polvere erano mescolate insieme in parti uguali. Le case erano ermeticamente chiuse, con tutte le fessure delle porte e delle finestre otturate da stracci; ma la polvere penetrava ugualmente negli interni, così impalpabile che risultava invisibile, e si posava come polline sui tavoli, sulle seggiole, sui piatti, sulle pietanze. Gli esseri umani se la spazzolavano di dosso, mentre strati di polvere s'erano accumulati sulle soglie delle case.
 A metà della notte il vento s'allontanò e lasciò il paese in pace, perché l'aria densa di polvere smorzava ancor più della nebbia ogni rumore d'intorno. Le creature umane, coricate nei loro letti, udirono che il vento era caduto: fu il cessare del vento a destarle. Ma non s'alzarono, continuarono a giacere immobili tendendo l'orecchio al silenzio. Poi i galli cantarono, ma con voci smorzate, e le creature umane si rivoltarono impazienti nei loro letti aspettando il mattino. Sapevano che occorreva molto tempo alla polvere per ridiscendere a terra e lasciar pura l'aria. Difatti, venuto il mattino, la polvere restava sospesa come nebbia, e il sole era di sangue. Per tutta la giornata e così per tutto il giorno seguente piovve polvere, ricoprendo in modo eguale tutta la terra. Si posò sul granturco, s'accumulò sulle filagne delle staccionate, sui fili di ferro, sui tetti, sulle ortiche, sugli alberi.
 Gli esseri umani uscirono dalle case e annusarono l'aria pungente e calda proteggendosi le nari contro la polvere. E i piccoli, i bambini, uscirono anch'essi, ma senza gridare, senza correre come avrebbero fatto dopo un comune temporale. Gli uomini s'appoggiarono coi gomiti sulle staccionate e osservarono il granturco rovinato, quasi secco ormai, con solo qualche strisciolina di verde sotto la pellicola di polvere. Gli uomini non parlavano, e si muovevano appena. E le donne uscirono di casa e vennero a mettersi vicino ai loro uomini per sapere se era questa la volta che i loro uomini si sarebbero dati per vinti. Le donne senza farsi vedere studiavano i visi dei loro uomini; perché al granturco si poteva, alla fin fine, rinunciare, purché fosse salvo qualcos'altro. I piccoli, lì vicino, disegnavano figure nella polvere coi diti dei piedi, e anch'essi inconsciamente studiavano i visi dei genitori, per vedere se si sarebbero dati per vinti. Studiavano le facce dei genitori e disegnavano figure nella polvere. I cavalli all'abbeverata, prima di arrischiarsi a bere, col labbro superiore spazzavano il pelo dell'acqua. Dopo un poco, i visi degli uomini perdettero la loro stupefatta perplessità ma acquistarono un'espressione dura, collerica, ostile. Allora le donne capirono che erano salvi, che gli uomini non si davano per vinti, e allora ardirono domandare: Cosa facciamo? e gli uomini risposero: Chi lo sa, ma le donne capirono che erano salvi, e i piccoli capirono che erano salvi. Le donne e i piccoli avevano l'intima convinzione che nessun disastro era catastrofico se i loro uomini non si arrendevano. Le donne rientrarono in casa alle loro faccende, e i piccoli cominciarono a giocare, ma con discrezione, sulle prime. Col progredire del giorno il sole, meno rosso, ricominciò a scaldare la terra impolverata. Gli uomini, seduti sui gradini d'accesso alle loro case, s'occupavano a disegnar figure in terra servendosi di fuscelli o di sassolini. Non parlavano; meditavano, calcolavano.

giovedì 23 ottobre 2014

ASEM, lo spreco e l'orrore del privilegio.

leggo sul Corriere queste considerazioni esaltanti su ASEM, Milano, i milanesi, la polizia, l'esercito, la guardia di finanza, i carabinieri e le prove generali su sicurezza ed efficienza in previsione di EXPO 2015, ma non le condivido.
se le cose sono andate bene mi fa tanto ma tanto piacere ma il fastidio che ho provato è difficilmente descrivibile.
e non credo che la gente, quella che cammina per strada, che guida le macchine nel traffico, che paga le tasse, che fatica da bestia e che vota, abbia gradito quel che ha visto e vissuto e temo che la distanza tra la gente, la stessa di prima, e i signori dei vertici, europei ed asiatici, ma direi dei vertici in genere, sia ormai abissale.
vada per le misure di sicurezza in zona fiera, esattamente dove abito io!!, passi il casino mondiale per entrare e uscire dalla zona, per parcheggiare, per andare al supermercato e in farmacia (40 minuti dalla Coop a casa mia quando in tempi normali ce ne vogliono al massimo 5), passi.
ma non passano 4 auto della polizia a sirene spiegate per ogni auto blu con i vetri oscurati per andare dalla fiera a Palazzo Reale per la serata di gala con Napolitano. 
non passano 4 auto della polizia a sirene spiegate per ogni auto blu con i vetri oscurati per andare dall'albergo 5 stelle di piazza Repubblica all'aeroporto di Linate.
no, non ci siamo.
ci sta la scorta ma non di fermare il traffico con disagi inimmaginabili per una città già pesantemente congestionata, e provata gravemente da una crisi irrisolvibile, solo per favorire il lusso, i privilegi scandalosi di una classe politica dirigente che ha già perso ogni rispetto.
i signori della politica possono farsi il tragitto in coda come tutti i cristiani perché, almeno in teoria, sono cristiani pure loro. e stare al loro posto, silenziosi e moderati, cercando magari di passare inosservati e non di mostrarsi in modo così clamoroso e volgare, uno schiaffo alla gente comune che si ammazza per sopravvivere. pornografia del potere. e non mi soffermo su alcuni particolari raccapriccianti che ho letto sul giornale che, per motivi a me oscuri, sono riportati pensando forse di inorgoglire i milanesi ma che, personalmente, mi fanno solo pensare allo scredito, allo spreco di denaro pubblico, alla miseria e disoccupazione imperante, per imprese che di epico non hanno assolutamente nulla, anzi.
il denaro circola solo e sempre tra chi ne ha già a bizzeffe, senza senso nè bisogno.

martedì 21 ottobre 2014

strepitoso Giacometti

"Tutto il percorso degli artisti moderni è in questa volontà di afferrare, di possedere qualcosa che sfugge continuamente... È come se la realtà fosse continuamente dietro i velari che si strappano. Ce n'è ancora un'altra, sempre un'altra."
Alberto Giacometti

una meraviglia, finita troppo in fretta.
un biglietto molto salato, al Gam di Milano, per sole 60 opere (comprese le fotografie che opere non sono). una delusione tremenda mi ha colto quando ho duvuto capire che le sale erano FINITE.
io non avrei finito più di vedere le opere di questo strepitoso artista.
un genio.
il GAM, Galleria di Arte Moderna di Milano, è un luogo fantastico, situato vicino al PAC, Padiglione di Arte Contemporanea (e ci divertiamo con queste belle sigle), alla Villa Comunale di Milano. giovedì sera, città deserta (eppure è un gran casino poco lontano da qui con l'ASEM, vertice Europa Asia, che impazza in zona fiera e nel centro di Milano), siamo in due ai giardini pubblici di Porta Venezia e dentro la mostra. SOLI. sale preziose, ambienti eleganti, cortili ariosi, tutto è silenzio, tutto è solitudine, luna in cielo e sfondo nero nero, è bellissimo vedere le mostre da soli, non è usuale in questa pazza e frenetica città.
bene, Giacometti riporta alla Bellezza, all'Arte, al Talento, e della follia e pazza folla ci si dimentica.

A cura di Catherine Grenier, direttore e capo curatore della Fondazione ‘Alberto e Annette Giacometti' di Parigi, da cui arrivano le oltre 60 opere in mostra, l'esposizione è promossa dal Comune di Milano-Cultura, organizzata e prodotta dalla Gallera d'Arte Moderna di Milano e da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE ed è la prima di 4 grandi mostre dedicate alla scultura che saranno ospitate dalla GAM di Milano, recentemente riallestita.
Il visitatore potrà seguire, attraverso le sculture, i dipinti e i disegni realizzati tra gli anni Venti e Sessanta, l'evoluzione artistica di Giacometti, dai suoi inizi in Svizzera alla maturità, trascorsa perlopiù nell'atelier di rue Hippolyte-Maindron a Parigi: un percorso cronologico che si articola in cinque sezioni, costituite a loro volta da diversi gruppi tematici, e che permette di ripercorrere la carriera dell'artista: dall'esordio a contatto con il Post-cubismo e il Surrealismo, all'età più avanzata, durante la quale il filo conduttore diventa la perpetua ricerca di qualcosa che gli sfugge.

l'arte di Giacometti tocca il cuore, le sue forme allungate, la sua figura umana così unica così inconfondibile, i suoi quadri, quegli sguardi fissi e severi dagli occhi cerchiati, quel tratto inconfondibile, quel fratello Diego, quella moglie Annette, tutto mi piace, tutto mi smuove.
"Una testa, per me è divenuta un oggetto completamente sconosciuto e senza dimensioni."
dopo la fase cubista, più corposa, più spessa, le forme si allungano, si stravolgono, si svuotano. questa immagine dell'uomo mi commuove moltissimo, mi fa sentire addosso la stanchezza, il peso del vivere, la fatica, la fame del lager, la fame di libertà, il trascinamento. la carne si svuota ma l'anima rimane, pur incarcerata in un corpo così esile, così fragile. siamo noi.










Giacometti nasce in Svizzera, nella sua parte italianofona precisamente a Borgonovo di Stampa nel Canton Grigioni, il 10 ottobre 1901. Suo padre, pittore, trasferì molto presto la vocazione artistica al figlio il quale, giovanissimo, iniziò le sue prime esplorazioni nel mondo della plastica e pittorica. Dopo aver frequentato la Scuola di arti e di mestieri a Ginevra si sposta a Parigi dove incontra i nuovi linguaggi dell'arte che emergono nella capitale francese, primo fra tutti il cubismo. In seguito partecipa attivamente al movimento surrealista aderendo ai suoi principi artistici almeno fino al periodo prebellico. Successivamente Giacometti diventa un artista più realista interessandosi di tematiche esistenziali e del rapporto tra uomo e natura ma anche dei rapporti con i suoi familiari, il fratello e la madre. Il suo stile inequivocabile prevede la realizzazione di figure umane ridotte all'essenziale percorse da movimenti plastici sulla superficie del corpo che seguono linee essenziali per l'artista. Le teste sono ancora più ridotte e informi.

l'uomo è ridotto a sembianza, la sua occupazione dello spazio è rarefatta, non scompare ma esiste in sottrazione, ridotto al nulla, a un profilo nello spazio, a un profilo nel vuoto che lo circonda e che, allo stesso tempo, sostiene. è una traccia, un residuo di sè, un segno che cammina, provvisorio. era anche il tempo di Sartre quello di Giacometti, il tempo dell'essere e il nulla.


"Da allora, tra il vedere un cranio davanti a me o un personaggio vivo la differenza è diventata minima..., il che mi ha sempre piuttosto scosso. All'opposto, lavorando sul personaggio vivo - e quasi con orrore - arrivavo, se insistevo un po', a vedere quasi il cranio attraverso."
l'arte è l'unico modo per superare il terrore, la ricerca estetica diventa espressione di una ricerca, di una domanda incessante sull'uomo, la sua natura, la sua fine, la sua morte. mi piace tanto Giacometti, la sua arte mi parla molto chiaramente.
"Perché sento il bisogno, sì il bisogno, di dipingere volti? Perché sono... come si può dire?... quasi allucinato dai volti delle persone, e questo da sempre?... Come un segno ignoto, come se ci fosse qualcosa da vedere che non si vede al primo colpo d'occhio, eh? Perché?"

lunedì 20 ottobre 2014

il giovane favoloso

bisognerà riprendere in mano Leopardi, leggerlo in modo nuovo e naufragare dolcemente nel suo mare.

Dolce e chiara è la notte e senza vento, 
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti 
Posa la luna, e di lontan rivela 
Serena ogni montagna. 
O donna mia, 
Già tace ogni sentiero, e pei balconi 
Rara traluce la notturna lampa: 
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno 
Nelle tue chete stanze; e non ti morde 
Cura nessuna; e già non sai nè pensi 
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto. 
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno 
Appare in vista, a salutar m'affaccio, 
E l'antica natura onnipossente, 
Che mi fece all'affanno.
...

(La sera del dì di festa)

venerdì 17 ottobre 2014

T rame

ma guarda un po' il rame, chi lo avrebbe mai detto, degno di una mostra.
e non si finisce mai di imparare.
anche il rame ha un suo perchè.
lo celebra la Triennale, un luogo in cui si coltiva l'intelligenza, con la mostra


Si tratta del primo evento espositivo che, grazie ad un approccio trasversale, mostra il rame in una luce completamente nuova. Il titolo dell'esposizione, TRAME, richiama infatti un percorso attraverso opere d'arte, oggetti di design, architettura e tecnologia il cui filo conduttore è proprio il metallo rosso che accomuna autori, provenienti da esperienze diverse, che di questo materiale hanno sfruttato le qualità formali, strutturali e plastiche in modo innovativo. In particolar modo, il rame ha riscosso un interesse crescente nell'ambito del design. 
Personalità come Gae Aulenti, Ron Arad, Luigi Caccia Dominioni, Tom Dixon e molti altri si sono cimentate nella progettazione di oggetti d'uso comune attratti dalle caratteristiche specifiche ed estetiche di questo metallo. 
Gli altri temi dell'esposizione sono l'architettura, con progetti, tra i tanti, di Renzo Piano e Steven Holl Architects, e la tecnologia. Il rame, infatti, essendo presente puro o sottoforma di leghe in microprocessori e altri componenti elettronici, è un materiale fondamentale per l'informatica e le telecomunicazioni. In medicina il rame e i suoi composti venivano impiegati già da Egizi e Greci per l'igiene personale e lo sono tutt'ora grazie alla moderna ricerca sulle proprietà antimicrobiche.

da un punto di vista artistico contemporaneo, il meglio me lo ha regalo Anselm Kiefer con UNTER DEN LINDEN, 2013, ELETTROLISI SU FOGLI DI PIOMBO RILEGATI.

un grande libro, dallo stile inconfondibile - impronta di Kiefer -, un reperto di archeologia del futuro che mi consegna, come tutte le sue opere, un senso apocalittico. non c'è scritto nulla, solo segni del passato, un passato che verrà, dopo la fine del mondo. c'è del rame a dare quella colorazione, quel rame che diventa verde quando si ossida.
per il resto la sezione dedicata all’arte contemporanea espone circa 30 opere di artisti dagli anni sessanta ai giorni nostri con le evoluzioni dell’uso del rame dall’Arte Povera alla Minimal Art fino alle tendenze degli ultimi anni. qualche invenzione, più o meno, forse meno, originale.

sono molto interessanti tutti gli usi nei trasporti, domestici, industriali, elettrici, le applicazioni tecnico scientifiche, informatiche, mediche, energetiche del rame. è impiegato nei più avanzati campi della tecnologia, in microprocessori e altri componenti elettronici, è un materiale fondamentale per l’informatica e le telecomunicazioni. in medicina il rame e i suoi composti venivano impiegati nell'antichità per l’igiene personale e lo sono ancora grazie alla moderna ricerca sulle loro proprietà antimicrobiche. nel settore dell’energia il rame è tra i principali e i più efficienti conduttori, compatibile con le tematiche ambientali.
è bellissima la parte dedicata all'architettura con almeno 10 modellini di progetti da architetti molto famosi, tra i quali Renzo Piano, Aldo Rossi, Steven Holl Architects e James Stirling, che hanno utilizzato le capacità di adattamento del rame.
Nell’ambito del design il rame è stato usato per la progettazione di oggetti comuni sfruttando la sua lucentezza, il colore unico e singolare: si può vedere in mostra una selezione di oltre cento oggetti, tra i quali anche alcuni capi disegnati da Romeo Gigli e Prada che hanno sperimentato in modo avanguardistico le proprietà del rame.



Fili di rame
Un dettaglio della stola disegnata dallo stilista italiano Romeo Gigli. Il tessuto è in filo di rame e dona all’abito una luce unica.

Grandi classici
Prima di iPhone, iPad, e iMac c’era lui, il Macintosh Classic. Uno dei primi esempi di computer ‘all-in-one’ costruito da Apple, è stato il primo modello multifunzione a costare meno di mille dollari. Nei pannelli sullo sfondo, le componenti in rame comuni a tutti i device di ultima generazione.

Architetture cangianti
In foto, la sezione della mostra dedicata all’architettura con i modellini dei più celebri progetti italiani e internazionali. Il rame è spesso prediletto da costruttori e urbanisti perché sostenibile.

Verde rame
Una foto del Museo della Scienza e della Tecnologia di Amsterdam ‘Nemo’ costruito e ultimato da Renzo Piano nel 1997. Gli elementi caratteristici del progetto sono il contenitore in rame ossidato e la rampa pedonale che collega l’ingresso con il tetto dell’edificio, interamente pedonabile.

Geometrie scultoree
In questa foto, i giochi di luce e volumi dell’installazione di rame a centro stanza. Sulla parete, l’opera di Cristina Iglesias Untitled (Diptych x)

Dialoghi tra materiali
Il rame decapato dei piedistalli sostiene le composizioni di vetro, pure e scultoree. Materiali a confronto, tra riflessioni e trasparenze.

Icone 100% italiane
Un classico di Azucena, la lampada LTA 12 Ventola disegnata da Luigi Caccia Dominioni nel 1991. Da tavolo o da terra, ha un riflettore in rame lucido. Base e piedini in ottone cromato.

(foto e descrizioni da http://living.corriere.it/lifestyle/tendenze/2014/triennale-mostra-trame-rame-5028462200.shtml

mercoledì 15 ottobre 2014

wildlife photographer of the year 2013


mostra al Museo Minguzzi, Milano.
questa, di Greg du Toit, South Africa, ha vinto il premio del concorso Wildlife photographer of the year 2013, come foto migliore tra tutte le categorie in gara (Grand title winner), ma non so perchè, direi che proprio non è la più bella.
così azzurra, così irreale.
proprio non lo capisco.
Runner-up Nature in Black and White Andrew Schoeman, South Africa

Specially commended 2013 Animals in their Environment Alessandro Bee, Italy

Commended 2013 Animals in their Environment Jérémie Villet, France

Commended 2013 Animal Portraits Douglas Seifert, USA

Joint runner-up Animal Portraits Hannes Lochner, South Africa

Commended Nature in Black and White Per-Gunnar Ostby, Norway

Commended 2013 Animals in their Environment Michael 'Nick' Nichols, USA

Commended 2013 Creative Visions Marsel van Oosten, The Netherlands

Winner Animals in their Environment Paul Souders, USA

Winner 2013 Creative Visions Jasper Doest, The Netherlands

Commended 2013 Botanical Realms Valter Binotto, Italy

Runner-up Behaviour: Cold Blooded Animals Julian Cohen, United Kingdom / Australia

Specially commended Behaviour: Mammals Valter Bernardeschi, Italy

Winner 2013 Behaviour: Mammals Joe McDonald, USA

Winner Wildscapes Sergey Gorshkov, Russia 

c'è da sbizzarrirsi, ci sono foto di diversa "natura", animali, comportamenti animali, paesaggi, piante e fiori, artisti navigati e giovanissimi. su alcune non ho dubbi, su altre molti.
la fotografia rimane un'arte interessante, la cattura del tempo in un istante. a patto che sia natura e non cultura, che sia autentica, che sia quel momento.
(sito, da guardare, http://www.nhm.ac.uk/visit-us/wpy/index.html)

lunedì 13 ottobre 2014

Segantini: i fiori sono fatti così e questa è l’arte divina


Giovanni Segantini (1858-1899), uno dei più grandi artisti europei di fine Ottocento, ebbe in Milano una vera e propria patria dello spirito, una città di riferimento per tutta la sua breve vita. Anche a seguito del trasferimento nei Grigioni, infatti, Milano continuerà a restare il fulcro della parabola segantiniana e piazza favorita per l’esposizione delle sue opere. 
Il suo avventuroso pellegrinaggio dai colli della Brianza alle creste granitiche dell’Engadina narra la storia straordinaria della creatività culturale che si sviluppò nelle valli tra l’Italia e la Svizzera all’inizio del secolo scorso. 
Prodotta da Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale e Skira editore in collaborazione con Fondazione Antonio Mazzotta la mostra partecipa a Milano Cuore d’Europa, il palinsesto culturale dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano dedicato all’identità europea della nostra città. Nell’anno che precede l’Expo, la mostra è una straordinaria celebrazione della “milanesità” dell’artista: un’intera sezione è dedicata proprio agli esordi milanesi del pittore, che con il suo ingresso all’Accademia di Brera diede il via a un promettente e fecondo percorso artistico. Pittoreschi scorci dei Navigli rievocano lo splendore della Milano di fine Ottocento. Non mancano sezioni dedicate alla natura morta e al ritratto. 
Costume grigionese, Ritratto della Signora Torelli e alcuni autoritratti, non sono in mostra solo per permettere allo spettatore di ripercorrere i legami affettivi dell’artista, ma soprattutto per testimoniare la sua indubbia potenza di ritrattista. Immancabile, poi, il percorso dedicato a Natura e vita nei campi. Un nutrito numero di quadri, tra i quali possiamo citare i bellissimi Sul balcone e L’ultima fatica del giorno, esalta il ruolo della montagna nella sua opera pittorica, che offre in mostra uno spaccato del paesaggio alpino, con le sue scene di vita nei campi, i suoi costumi caratteristici e una peculiare rappresentazione della società contadina. La sezione Natura e Simbolo, nella quale si possono ammirare i celeberrimi Mezzogiorno sulle Alpi e La raffigurazione della Primavera, esplora il dualismo iconografico caro a Segantini: una fusione tra i due opposti che determina la ricchezza del suo linguaggio. Infine, a ideale conclusione del percorso della mostra, una sezione dedicata al tema della maternità ospita L’Angelo della vita e Pascoli di primavera.


mi è piaciuto moltissimo Segantini.
non lo conoscevo, sono andata alla mostra di Palazzo Reale solo spinta dalla curiosità, un cartellone pubblicitario molto accattivamnte che mi ha fatto presagire qualcosa di bello.
leggo, rispetto a questo artista, di divisionismo e simbolismo, materia a me solo superficialmente nota.
so solo che il tratto di questo autore è molto singolare, filamentoso, e che i suoi temi sono diventati, nel corso della sua vita, sempre più ispirati al misticismo, al panteismo, alla divinità della natura.

Sento nel cuore la mia calma abituale e nel cervello come uno sbalordimento che è effetto del vento. Intorno, tutto è triste, il cielo è grigio, sporco e basso, soffia un vento di levante che geme come lontana bestia che muore, la neve si stende pesante e malinconica come lenzuolo che copra la morte, i corvi stanno tutti vicino alle case, tutto è fango, la neve sgela.

osservando, mi sono accorta che una cosa è vedere i suoi quadri da lontano o in un'immagine virtuale, una cosa è guardali da vicino.
c'è una trama, una tessitura, una composizione minuziosa che costruisce la visione globale che, in alcuni casi, ha un effetto luminoso strabiliante come nel quadro sottostante, Ave Maria a trasbordo: una visione pastorale della natività, della sacra famiglia, con un effetto di luce sconvolgente e palpitante, una creazione divina del mondo, una nascita. 
la linea dell'orizzonte divide in due il quadro. il chiarore si unisce, in alto, al cielo, in basso, al movimento dell'acqua. l'aria è sospesa, terrena ma oltre, la luce folgorante, l'effetto sacrale.

l'altro aspetto davvero singolare è la visione della natura, della forza pura e ascetica della montagna, la potenza espressiva del cielo dei prati degli animali. la natura è una divinità, un'intuizione dell'assoluto.
Segantini si è formato a Milano, cui ha dedicato quadri e ritratti, come Il Naviglio a Ponte San Marco e Ritratto della signora Torelli, ma si è evoluto artisticamente fuori dalla grande città, trasferendosi prima in Brianza, poi nei Grigioni e infine in Engadina, dove è morto, giovane a poco più di 40 anni.



l'arte, per Segantini, è un sostituto della religione, anzi, l'arte è religione e lui un vate, portatore di un messaggio al mondo, allucinato, sacrificato, devoto alla sua arte-religione, all'arte come vangelo.
Non cercai mai un Dio fuori di me stesso, perché ero persuaso che Dio fosse in noi, e che ciascuno di noi ne possedeva e ne poteva acquistare, facendo delle opere belle, buone e generose; che ciascuno di noi è parte di Dio, come ciascun atomo è parte dell’universo. Non cercai mai altra felicità all’infuori dell’unica vera, quella della conoscenza.
predica, e attualizza nella sua arte, una conoscenza superiore della realtà, attraverso la natura, eterna, divina.
uomini e animali sono sullo stesso piano, raffigurati insieme nella funzione materna (Le due madri), e la natura (dipinta en plein air) è la sua fede, la chiave di conoscenza del mondo.
giochi di luce, chiari e scuri, disegnano i movimenti della neve, il passare del tempo, il trascorrere delle stagioni, la condizione dell'uomo e la maestosità della natura. il paesaggio è il messaggio, è la spiritualità che ci circonda, per chi la sa leggere.






Io voglio che nel quadro non si veda la fatica poverile dell’uomo, voglio che il quadro sia il pensiero fuso nel colore. I fiori sono fatti così e questa è l’arte divina.


http://www.radiogold.it/notizie/8-cultura/68125-segantini-il-pittore-della-luce-e-dei-paesaggi