bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 27 febbraio 2015

resilienza

SOPSI 2015
la psichiatria è alla deriva.
4 giorni di resilienza, vedi resilienza ovvero capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà.
bisogna pur inventarsi qualcosa in tempi di crisi, tempi di traumi, siamo relilienti, dovremmo esserlo, su dai cosa ci vuole.
vulnerability, coping, liability.
diathesis stress
differential susceptibility
vantage sensitivity
invenzioni.
per dire, giovedì pomeriggio, in chiusura del congresso:
RESILIENZA NELLA SALUTE MENTALE
Moderatore: A. Rossi (L’Aquila)
Individual Differences in Environmental Sensitivity: Diathesis-Stress, Differential Susceptibility and Vantage Sensitivity
M. Pluess (London - UK)
Modelli di resilienza in psicopatologia
A. Rossi (L’Aquila) 
Il ruolo della resilienza nella prevenzione del suicidio
M. Pompili (Roma)
così, per farsi un'idea delle idee, del linguaggio, della simpatica novità.
ho sentito, in generale, cose noiosissime, di più, cose improbabili, invenzioni, banalità.
la psichiatria sa essere così banale, così scontata, senza pensiero.
oppure parla Maggini di psicopatologia e non capisco niente, un linguaggio complicato e involuto, pieno di chiaroscuri, di citazioni, di sapere psichiatrico ottocentensco. dice che ci ha pensato al mare quest'estate, sotto l'ombrellone, a quel che mi sta incomprensibilmente dicendo ora, febbraio 26 2015. sono io il problema o è lui? certamente lui che dice questa cosa alla platea, che lancia questa bomba al narcisismo, certamente lui.
sono andata anche alle sessioni più psicodinamiche, mi sono detta: troverò qualcosa per me...e invece è andata anche peggio, dei personaggi psico-non-so, penso analisti, da mettersi le mani nei capelli. 
PSICOPATOLOGIA IN TEMPO DI CRISI: STRESS, VULNERABILITÀ E RESILIENZA Moderatori: A. Buonanno (Roma), M. Di Giannantonio (Chieti)
Tempo, trauma, psicosi 
M. Breccia (Pisa)
Esplorare il tempo: il continuum vulnerabilità-resilienza tra psicopatologia, psicoanalisi e terapia 
M. Alessandrini (Chieti)
incomprensibili, discorsi senza costruzione logica, boriosi, quasi confabulanti, anche qui una noia pazzesca.
di tutti mi sono chiesta:come siete davanti al paziente? come parlate con i vostri pazienti?
Fagiolini, che sai tutto di farmacologia e parli come un automa, sicuro di sè fino alla robotizzazione, mi ricordi il biondo Rutger Hauer - Roy di Blade Runner, come sei davanti a un paziente? come gli parli?
qualcosa ho azzeccato ma parliamo di qualcosa in 4 giorni di congresso.
capisco che quel che mi è piaciuto veramente, dove mi sono ritrovata, dove il linguaggio mi ha colto preparata, è l'ambito farmacologico, anche ancorato alla medicina, di genere e non. forse, in fondo, quel che ho scelto 25 anni, fa era la mia vocazione.
eppure ora mi oriento così diversamente, ma forse non mi oriento affatto. sono in affanno, non capisco più chi sono, farmacologa, psichiatra, psicoterapeuta. niente di nessuna delle cose, un pasticcio colossale. non ho sposato -mai- completamente un'identità, non ne possiedo nessuna.
resilienza non è da me. non mi deformo elasticamente, tendenzialmente mi perdo.

lunedì 23 febbraio 2015

esplosione Chagall


Marc Chagall (1887-1985). Bozzetto per il sipario dell'«Uccello di fuoco»

Marc Chagall. Il trionfo della musica – rappresentato al Lincoln di New York

non so, era ottobre, ci sono anata due volte, alla mostra, Chagall mi ha stregato, ma non è certo stata la prima volta (è una vecchia vecchissima storia tra noi), il suo colore è trascinante, la sua fantasia immensa, i  suoi caratteri ingenui e universali. galline, polli, mucche, omini sui tetti, o in un angolo che fanno la cacca, la vita e la morte, l'amore e il sogno, la musica e la religione, le fiabe e l'olocausto, la Russia e l'ebraismo, il rosso e il blu. 
difficile tenere tutto insieme, infatti i suoi quadri esplodono, letteralmente.

sabato 21 febbraio 2015

Certi cambiamenti del corpo mi fanno pensare a quelle vie che percorri da anni. Un bel giorno un negozio chiude, l’insegna è scomparsa, il locale è vuoto, c’è un cartello affittasi, e ti domandi cosa c’era prima, cioè la settimana scorsa

guardo i giochi di luce, che filtra dalla tapparella.
sono le 5 del pomeriggio, c'è il sole, le giornate si sono allungate.
guardo i quadratini di luce e penso che l'inverno sta finendo.
sono spensierata, letteralmente, in quel momento.
cè perfino della bellezza che percepisco.
improvvisamente compare un pensiero.
lo sto facendo senza nessuna consapevolezza, non mi sono domandata nemmeno per un attimo se tutto questo avrà delle conseguenze.
pensavo fosse un controllo, solo un controllo, l'ultimo, anzi il primo, nel 2006.
avevo extrasistoli a raffica, ero passata dalla cardiologia e trattenuta per fare una marea di esami.
tra questi, un'ecocardiografia.
alla fine del consulto il collega mi consiglia una terapia antipertensiva: sono destinata, mi dice.
ignoro la prescrizione.
per anni.
poi il mio destino mi incontra e l'ipertensione si fa sentire, a novembre, con notti insonni in preda a pulsazioni, cardiopalmo, sudorazioni notturne spaventose.
il mio destino: ipertensione, anche notevole.
ed inizia la mia terapia mattutina, quella che si prende tutte le mattine per tutto il resto della vita.
ed eccomi lì, su un fianco, durante l'ecocardiografia cardiaca, a giocare con la luce a quadretti sul paravento che separa il lettino dalla scrivania del medico.
focalizzo un particolare apparentemente paradossale ma a ripensarci testimone della mia sicumera. entrando nella stanza della cardiologa mi sono accomodata dalla parte della scrivania destinata al medico, non al paziente. mi pensavo ancora dotata dei super poteri del grande dottore.
ma sono una paziente, sono dall'altra parte della scrivania. 
(impara)
e il verdetto lo conferma: insufficienza mitralica moderata.
ed eccolo lì il mio declino. mi proietto nel mio futuro, vecchia, malata, vedo la mia prossima storia clinica, vedo tutti i farmaci che progressivamente collocherò in cucina, la dose scritta sulla confezione , il promemoria. penso a Pennac, e al suo libro Storia di un corpo (http://nuovateoria.blogspot.it/2012/12/body-wolrds-la-salute-e-la-vita-nel.html) , capisco che sto entrando in quella fase della vita in cui il corpo cede, in cui dall'onnipotenza che ci illude di essere eterni si passa alla certezza quotidiana che siamo transitori.
è da settembre che sto male, tosse folle per un mese a settembre, otite catarrale con ipoacusia a ottobre per 5 settimane, notti insonni e diagnosi di ipertensione a novembre, ripetute sedute dal dentista fino a dicembre per problemi reiterati ai denti, neoformazioni dermatologiche trattate con il laser a gennaio, di nuovo tosse, perdita totale della voce per 5 giorni e ancora dolore all'orecchio e mal di gola trapassante questa notte. febbraio.
capisco, non potrei non capirlo, che tutto questo impegno di orecchie, gola e voce girano intorno alla parola, da mesi. girano intorno alla questione del mio lavoro, dell'emissione della parola e dell'ascolto, girano intorno al riconoscimento della mia persona e del mio riconoscere l'altro. sono stati mesi improntati dal trauma, che vivo ogni settimana, a ogni notizia che ricevo.
sono negata, la mia parola  è negata, non parlo e non ascolto più.
qualcosa sta cambiando, non mi sono mai ammalata per anni, improvvisamente il mio corpo cade dall'alto, si schianta.
qualcosa è inesorabilmente cambiato.
e pensare che l'inverno sta quasi finendo.


Passiamo la vita a confrontare i nostri corpi. Ma, una volta usciti dall’infanzia, in maniera furtiva, quasi vergognosa. A quindici anni, sulla spiaggia, studiavo i bicipiti e gli addominali dei ragazzi della mia età. A diciotto o vent’anni il gonfiore sotto il costume. A trenta, a quaranta, gli uomini paragonano i capelli (guai ai calvi!). A cinquant’anni la pancia (non metterla su), a sessanta, i denti (non perderli). E adesso, in queste adunate di vecchi avvoltoi che sono le nostre autorità tutorie, la schiena, i passi, il modo di asciugarsi la bocca, di alzarsi, di infilarsi il cappotto, l’età, insomma, semplicemente l’età.
Storia di un corpoDaniel Pennac

venerdì 20 febbraio 2015

vanessa winship

fotogiornalismo e un gran tocco di umanità.
le fotografie di Vanessa Winship sono pregevoli, comunicative. sono una narrazione.
al Palazzo delle Stelline la mostra si sviluppa con delle prefazioni dell'autrice a ogni blocco fotografico. si è spinta in varie parti del mondo, nei Balcani, sul Mar Nero, in Georgia, in Anatolia, in Almeria, negli Stati Uniti, questi i luoghi presentati nel percorso fotografico della mostra. le sue prefazioni mi sono piaciute moltissimo, le ho trovate ricche, riflessive, piene di spunti molti interessanti che mi fanno pensare al modo in cui questa persona orienta il suo lavoro. un lavoro di indagine che non mente. se penso alle tante foto che ho visto in questo mese, da Mccurry e Elgort, mi rendo conto che qui, con la Winship, siamo in un'altra dimensione, la foto che dice quel che è. non c'è edulcorazione, non c'è manipolazione, non c'è posa, non c'è niente se non quel che c'è da vedere. non c'è nemmeno sensazionalismo, nemmeno trauma, nemmeno carne dilaniata, non c'è shock, c'è quel che c'è da vedere. non c'è la spettacolarizzazione della foto, solo quel che c'è da sapere. siamo nel bianco e nero, non c'è il colore a dare vita e luce, non c'è la bellezza del mondo.
ed è così che la foto diventa narrazione, anche poetica, della vita ai confini del globo. perchè la Winship si spinge ai margini dei territori, in luoghi di decadenza come le Georgia, o di stagnazione, come il Mar Nero. c'è una forte connessione tra la fotografia e una precisa presa di posizione dal punto di vista narrativo. fotografa la vita dentro un contesto storico che collassa, che decade, che si sgretola, che trascina via detriti del passato. ma la gente ci vive dentro, come può, adattandosi al paesaggio e alle risorse. ci sono i confini, le frontiere, le identità, la vulnerabilità delle etinie e il corpo. ci sono corpi nelle foto, corpi che incarnano la storia. quindi l'effetto è doppio, narrativo sul piano storico e di cronaca sul piano attuale, è la vita che scorre dentro la storia, che vi assiste senza saperlo.
l'effetto fotografico, soprattutto nel suo insieme, nello sguardo che emerge dal gruppo di fotografie per ogni luogo di narrazione, è davvero sorprendente, molto toccante, autentico, senza veli, profondo e sinceramente partecipe.
una scoperta per me fantastica, una fotografa nel vero senso della parola, una ricercatrice, un'esploratice. una persona.








Comunicato Stampa: 
Dal 17 dicembre al 15 febbraio (ma è stata prolungata fino al 22 marzo) la Fondazione Stelline presenta la personale di Vanessa Winship organizzata dalla Fundación Mapfre di Madrid: oltre 100 fotografie in bianco e nero ripercorrono attraverso un’ampia panoramica tutta l’opera dell’artista, dall’inizio della sua carriera, giovane fotografa nei Balcani, fino ai suoi ultimi lavori ad Almerìa.
Vanessa Winship è un’artista polivalente, i cui lavori analizzano la profondità dei temi della frontiera dell’identità, della vulnerabilità e del corpo, il tutto in uno spazio geografico ricco di intensità ed emozioni, dove l’instabilità dei confini va di pari passo con il mutare dell’identità storica contemporanea.
Le sue serie offrono uno spunto di riflessione su come il corso della storia riesca a modellare le forme del paesaggio e a lasciare il segno sui corpi dei suoi abitanti, ma anche sulle loro caratteristiche e sui loro gesti. Il viaggio e i suoi incontri con l’”altro” sono temi fondamentali della sua vita e della sua fotografia. Un paesaggio umano, che si impone sui conflitti politici e sociali ed emerge tra le rovine di mondi in decadenza. Un recente passato (edifici, sculture commemorative e mezzi di trasporto) procede in direzione opposta alle persone che si muovono tra di esse. La Winship descrive la componente mitica e leggendaria di questi luoghi e allo stesso tempo li destabilizza. Vengono certamente evocati gli eventi storici che hanno segnato queste regioni, ma la Winship pone l’enfasi più alta sulla microstoria di ognuna di esse: le attività del tempo libero, gli interni delle scuole, le condizioni di lavoro e le diverse forme di socializzazione e di culto religioso.
Le fotografie realizzate fino al 2011 tracciano una mappa personale dei confini dell’Europa e dei loro punti di contatto con l'Asia.Il suoparticolaremetodo di lavoro ha dato origine a serie come “Imagined States and Desires: A Balkan Journey”, “Black Sea: Between Chronicle and Fiction”, “Sweet Nothings: Schoolgirls of Eastern Anatolia” e “Georgia. SeedsCarried by the Wind”, che uniscono spazio pubblico e privato, concentrandosi su un evento e sulla costruzione di un ritratto in posa.
“Ospitare un’artista come Vanessa Winship è come fare un itinerario in un mondo che muta, nei confini e nella percezione storica dell’evoluzione –dichiara PierCarla Delpiano, Presidente Fondazione Stelline. Il tema del cambiamento alla vigilia di Expo2015 è particolarmente attuale nella Milano di oggi che diventa metropolitana. Come si intuisce nel dibattito culturale: grandi eventi, contaminazione, apertura. Grazie alla Winship abbiamo la possibilità di vedere ritratta la storia che cambia nei confini e nell’identità, particolarmente contestuale al momento storico che viviamo”.
Nel 2011, la Winship è stata la prima donna a ricevere il prestigioso premio Henri Cartier-Bresson per la fotografia. Il suo progetto vincente è stato “Shedances on Jackson. UnitedStates”, una serie che si concentra sui segni del declino dell’American Dream, visibile sia sulla superficie della terra che nelle caratteristiche umane e nel linguaggio del corpo. Nel 2014, su incarico della FUNDACIÓN MAPFRE, la Winship si è recata ad Almería (Spagna), per rappresentarne la notevole diversità geografica, lo sradicamento e la storia fatta di alterne vicende. Questi ultimi due progetti rivelano una progressiva scomparsa delle forme umane e l'emergere di un paesaggio che diventa eloquente attraverso il suo apparente silenzio e la sua immobilità. Il senso di un territorio di frontiera, la vulnerabilità della terra e il peso del passato, suggeriti dalla serie “Almería. Where Gold WasFound”, mettono questa regione in connessione con le altre parti del mondo su cui si è posato lo sguardo fotografico di Vanessa Winship.

Vanessa Winship (nata a Barton-upon-Humber, Regno Unito, nel 1960) è oggi uno dei nomi più acclamati della fotografia internazionale. Il suo stile non è meramente documentario, ma si concentra su temi quali la frontiera, l'identità, la vulnerabilità e il corpo. Sin dagli anni ’90, la Winship ha lavorato in diverse aree geografiche, tra cui i Balcani, il Mar Nero e il Caucaso, che nell'immaginario collettivo sono luoghi associati all'instabilità e ai tempi oscuri del recente passato e alla mutevolezza dei confini e delle identità. 


lunedì 16 febbraio 2015

se telefonando

ma chi diavolo è questa Bianca Atzei che canta -canta?- Ciao amore ciao di  Tenco?
ma chi sei?
ma lo sai cosa stai cantando? -cantando?
no.
certo che no.
è chiaro che no.
sono su un palco, discutibile ma notevole, dovrei essere competente sulla materia che porto e invece sono molto ignorante nella materia che porto.
non è che siccome scrivo poesie sono un poeta, e non è che siccome canto -canto?- sono un catante.
non è che siccome canto Rose rosse me lo posso permettere...Raf, va bene la bronchite, vai a casa per favore.
si potrebbe pensare che io abbia una fissazione. magari è così e no ne sono consapevole. l'unica serata del festival di Sanremo che ascolto volentieri è quela delle cover. ne ho già parlato più volte, anche 2 anni fa, in occasione di un Ciao amore ciao cantato da Marco Mengoni (http://nuovateoria.blogspot.it/2013/02/ciao-amore-ciao-tenco-vince-il-festival.html). 
altra musica, altra storia. 
qui siamo nell'oceano della disperazione.
sul Corriere ho letto un commento che recitava qualcosa che somigliava a Bianca Atzei -ma chi è?- si schianta con Ciao amore ciao.
ecco, si, rende l'idea dello sfracello. uno schianto ad altissima velocità.
mi scoccia proprio questa cosa, non si fa, non si cherza con Tenco.
non si prende un monumento per farne ciotoli.
che non si ripeta mai più.
mi sono gustata invece il buon Nek, che ho avuto modo di apprezzare in alcune occasioni, con Se telefonando.
ora, questa canzone mi piace da pazzi, come molte del suo genere, come molte del suo tempo. canzoni per lo più canate da Mina, amatissima da mia madre, come posso non averle in mente? le ho in mente tutte. è la televisione della mia infanzia, Canzonissima e altre trasmissioni di intrattenimento, rigorso bianco e nero e fiumi di canzoni con quella voce che faceva crollare i muri.
perchè, diciamolo, il buon Nek fa una discreta operazione musicale ma sull'amore già "finito" non ce la fa. no no, non ce la fa e quindi diventa fini....to, spezzato in due con una pausa netta. e no, caro mio, Mina no, si sa, ce la faceva eccome: il suo "finito" non si spezza, si articola e basta.

ma al di là della potenza vocale impareggiabile, l'interpretazione a Sanemo di Nek mi piace, sento che ha colto lo spirito della canzone. 
quel se telefonando mi fa pensare agli sms di oggi, ai quali a volte si affida la vita, perfino il sesso, il senso di un amore, la fine di un amore, se mai di amore si trattava. si faceva scrupolo invece, lei, di chiamarlo al telefono e di fargli male. come si dice una cosa così, è già finita, al telefono? buona domanda, domanda di altri tempi. dei miei, per l'appunto. e questa domanda bisognerà proprio farsela. ma anche a vedersi ci si fa male, anche guardandosi negli occhi, quel messaggio è senza scampo, comunque.
canzone breve, intensa, drammatica. poche parole, tutte le parole che servono.
io me la immagino tutta la scena.
poi lei si staglia, nel video, forse di Milleluci?, con quella sua fisicità così totalizzante, tra corpo bocca occhi e voce, voce voce. è un corpo che canta, Mina, la voce parte da ogni parte di quel suo corpo importante, ma senza bisogno di quelle braccia che, così spesso vedo oggi, vanno da tutte le parti. canta, canta e basta, il suo volto inquadrato che mi parla.
e il ricordo di mia madre schianta me.
Nek ci mette la sua arte, e va bene così.


racconta Maurizio Costanzo, coautore della canzone:
«Ricordo bene quel giorno», sospira Maurizio Costanzo. «Lei si avvicinò al pianoforte e cominciò a cantare. Fu un’emozione indimenticabile».
Lei sarebbe Mina.
«Sì. Eravamo a via Teulada, Mina era arrivata con il suo produttore Luciano Gigante. Disse solo: datemi lo spartito. E in un istante, come in una magia assoluta, "Se telefonando" diventò sua».
Al piano c’era Ennio Morricone.
«Uno dei coautori. Niente male, no?».
Com’era nato il brano?
«Era il ’66. Io e Ghigo De Chiara lavoravamo alla nostra trasmissione "Aria condizionata". Ci serviva una sigla. Ghigo conosceva Morricone e lo chiamò. Ennio insisteva con la storia della sirena di Marsiglia».
La sirena di Marsiglia?
«Morricone ripeteva: all’inizio la musica di "Se telefonando" vi farà pensare alla sirena della polizia. Po-pi po-pi. Poi esploderà mentre procede. Scrissi le parole e riuscii a imporre il gerundio nel titolo. Non era mica facile far accettare una cosa del genere. Ma funzionò, a quanto pare».

Lo stupore della notte
spalancata sul mar
ci sorprese che eravamo sconosciuti
io e te.
Poi nel buio le tue mani
d'improvviso sulle mie,
è cresciuto troppo in fretta
questo nostro amor.
Se telefonando
io potessi dirti addio
ti chiamerei.
Se io rivedendoti
fossi certa che non soffri
ti rivedrei.
Se guardandoti negli occhi
sapessi dirti basta
ti guarderei.
Ma non so spiegarti
che il nostro amore appena nato
è già finito.
Se telefonando
io volessi dirti addio
ti chiamerei.
Se io rivedendoti
fossi certa che non soffri
ti rivedrei.
Se guardandoti negli occhi
sapessi dirti basta
ti guarderei.
Ma non so spiegarti
che il nostro amore appena nato
è già finito.

giovedì 12 febbraio 2015

the big picture

Galleria Sozzani.
The big picture
Arthur Elgort.
foto di moda, foto di donne e anche qualcos'altro, poco altro.
nel mondo in bianco e nero campeggiano maxi foto a colori, pregevoli.
il pubblico è quello di corso Como, alla moda, fashion, tiratissimo, molti gay.
io a che fascia appartengo?
a volte l'evento è più legato al pubblico che all'oggetto dell'evento. questo evento attira un pubblico affamato di icone, di idoli, di feticci. di un oggetto dal consumo rapido e mai soddisfacente, quell'oggetto cibo che non sazia mai e richiede subito il boccone successivo, bulimia senza fondo.
esagero? mah, credo di no.
in questo caso l'oggetto dell'evento ha su di me un fascino minimo. la moda e il suo mondo non mi procurano nessun movimento interiore, al massimo provo fastidio per l'aspetto consumistico ormai epocale e irrefrenabile, e la prosopopea della bellezza femminile di facciata, una noia gigantesca.
dell'oggetto in questione mi coglie solo quello fotografico, quando la foto va al di là della chimera- bellezza, della noiosa perfezione fisica, dell'abito mascheramento divino, sembianti di eternità.
“Alcune delle migliori immagini le ho riprese quando non stavo lavorando: le modelle che si stavano preparando, la gente nelle strade. Fugaci momenti fra le riprese. Quello è il momento quando si può catturare la gente come davvero è e vedere cosa si cela nelle persone. In quei momenti veri non si può imbrogliare”, così scrive Arthur Elgor, osannato come un personaggio innovativo nel modo della ritrattistica fashion, "le sue modelle – Stephanie Seymour, Christy Turlington, Linda Evangelista, Naomi Campbell, Kate Moss, Patti Hansen, Karlie Kloss – non sono vittoriose e ingombranti presenze, ma leggere, quotidiane, bellissime. Colte nelle loro imperfezioni, in momenti di pausa, poco truccate, in scarpe da ginnastica, con lo sguardo distante", così recita invece il comunicato stampa della mostra.
davvero? non so, a me sembra, nella maggior parte dei casi, tutta una gran posa che certo non disdegna perfezione e glamour, e, solo in una felice minoranza, anche una buona prova di fotografia.










martedì 10 febbraio 2015

Locke

il traffico è scorrevole.
se non sa cosa dire alla donna che sta partorendo suo figlio, per lui una sconosciuta, se non ha parole per garantire una sua presenza affettiva, il traffico è scorrevole.
ovvero sono in macchina, guido con prudenza, conosco la strada e controllo il traffico. anzi tutto è sotto controllo e quindi tutto funzionerà al meglio, anche senza amore.
predilige e sceglie un senso pratico, una razionalità che tutto risolve, un senso di giustizia cosmico e universale, una programmazione ferrea, una pignoleria ossessiva, un controllo assoluto, per Ivan Locke il mondo gira così.
precede nella sua claustrofobica scatola, smista il mondo al telefono, crede di dirigere persone e cose con la forza di volontà, con la ragione, il senso di giustizia. 
al contrario di suo padre, questo fantasma che lo perseguita, lui farà la cosa giusta.
si occuperà di questo figlio che nasce per colpa sua.
un figlio nato per colpa, ovvero fuori dal controllo. la mancanza di controllo è colpa, vivere nel caos è colpa.  la sua vita senza padre è stata caos, ora tutto risponde alla ferrea legge del controllo e, secondo Locke, il controllo è giustizia.
ma i conti li ha fatti male, Ivan Locke. al controllo non risponde nulla, solo la costruzione dei suoi grattacieli. non la vita.
non basta consultare la cartellina, chiamare il vigile per il blocco della strada, trovare operai di fortuna per rimettere in tensione i cavi, garantire il C6 per la colata di cemento. mentre costruisce il palazzo,  demolisce la sua vita.
convinto che basterà fare la cosa giusta per sistemare tutto, per contrapporsi a suo padre, in realtà guida verso il suo destino, dritto e inesorabile. non c'è cosa giusta, rispondere alla colpa di questa nascita significa fare del male a sua moglie e ai suoi figli. anche lui farà del male come lo ha fatto suo padre. non potrà sistemare il nascituro extraconiugale, sostenere la madre sola e alla deriva e al contempo tenere lavoro e figli.
e lo capisce Locke, guidando nella notte, lo capisce. pur nella cosa giusta, nella sua decisione, nella sua responsabilizzazione, qualcuno pagherà comunque, lui, i suoi figli, sua moglie. non scapperà, è vero, eroe di un tempo malato che tutto lascia alle spalle noncurante e immaturo, terrà fede alla sua parola senza mentire sull'amore che non prova, ma il dolore, che teme più della morte, lo coglierà.
e piange alla voce del suoi figli, il loro rancore per l'abbandono lo colpirà duramente. ora sono confusi, non capiscono, ancora non sanno. impareranno che anche il padre sbaglia, come il suo prima di lui, che l'imprevedibile è dietro l'angolo, che la vita non è misurabile e non è una colata di calcestruzzo, ma che sfugge al controllo, che è dolore e mancanza, anche nelle migliori intenzioni.
Locke, Un film di Steven Knight. Con Tom Hardy.

lunedì 9 febbraio 2015

ri-scatti

fotografie dei senza tetto di Milano. al PAC.
da non credere?
da guardare.
(moltissime foto rispetto a quelle in mostra  sul sito http://www.tgcom24.mediaset.it/cultura/ri-scatti-le-fotografie-dei-senza-fissa-dimora-in-mostra-al-pac-di-milano_2094246-201502a.shtml)

Novantacinque foto documentano realtà spesso nascoste, scelte tra i numerosi scatti realizzati in due mesi da tredici senza fissa dimora, undici uomini e due donne, indicati dai Servizi sociali del Centro Aiuto del Comune di Milano per il corso-concorso RI_SCATTI. In mostra anche i ritratti di otto dei protagonisti, scattati dal fotografo di moda e lifestyle Stefano Guindani.
La mostra è l'ultimo step di un progetto, promosso dall’Associazione Terza Settimana di Torino in collaborazione con l'Assessorato alle Politiche Sociali e l'Assessorato alla Cultura del Comune di Milano. Nato da un'idea di Federica Balestrieri - giornalista Rai e volontaria dell'Associazione Terza Settimana che si occupa di povertà alimentare con una rete di Social Market - il progetto è stato realizzato in collaborazione con l'agenzia fotografica SGP Stefano Guindani Photo ed Echo Photo Agency e con il contributo di Tod's.
Il concorso ha creato l'opportunità di un percorso di formazione professionale e di reinserimento sociale per quanti si trovano in temporanea difficoltà: attraverso un corso tenuto dai fotoreporter Gianmarco Maraviglia e Aldo Soligno di Echo Photo Agency, 13 senza fissa dimora hanno appreso il linguaggio e le tecniche della fotografia e lo hanno utilizzato per raccontare la propria esperienza di vita, misurandosi in un concorso finale. Il vincitore, l'argentino Dino Luciano Bertoli, nominato da una giuria specializzata, si è aggiudicato una borsa lavoro presso l'Agenzia SGP di Stefano Guindani.
La mostra al PAC è il risultato di questo percorso. Curata da Chiara Oggioni Tiepolo, la mostra è un racconto della vita ai margini della società, vista con gli occhi di tredici protagonisti. Attraverso le loro fotografie scopriamo dove trascorrono la giornata, cosa fanno, dove dormono, come si procurano i vestiti, dove si lavano, chi sono i loro “compagni di viaggio". Ma anche i loro sogni, le loro aspettative, la loro voglia di riscatto. Un’esposizione fotografica che analizza persone, situazioni ma anche, e soprattutto, emozioni.
In mostra sarà possibile scegliere una delle foto esposte donando da un minimo di 80 euro ad un massimo di 150 euro. Il ricavato andrà all'Associazione Terza Settimana e al Centro aiuto Stazione Centrale.










le foto sono belle, mi sono piaciute. più o meno riuscite, davvero non importa. 
mi piace l'idea del riscatto, mi piace il corso di formazione professionale, mi piace l'opportunità di reinserimento sociale che non è una forma di misericordiosa carità ma di impegno personale. alla mostra mi porge l'opuscolo dell'associazione che promuove l'iniziativa una signora, una signora "bene" di Milano, o di Torino?, una signora ricca e inanellata. anche lei cerca il suo riscatto, il riscatto dalla ricchezza, è evidente. ognuno di noi cerca il proprio di riscatto, ma non tutti lo fanno attraverso i ri-scatti fotografici.
le foto tendono a riprodurre i loro soggetti o la loro forma, la loro inquadratura. sono anonime, non sono segnalati gli autori ma si può notare per alcune una cifra stilistica che si ripete. tendono, alcune ad essere chiuse, chiuse in un mondo, chiuse nella prospettiva, in un angolo, quello della povertà, poco visibile e silenzioso, almeno di solito. Robert Frank, citato alla mostra, nel 1971, parlando delle sue fotografie contenute in “The Americans” disse: “penso che ce ne siano solo due o tre in cui ho davvero parlato con qualcuno, ma per la maggior parte del tempo sono stato in assoluto silenzio, camminando attraverso il paesaggio, attraverso la città fotografando e andandomene via. Bene, questo è il mio temperamento, di essere silenzioso e guardare solo (…) Quel che mi piaceva della fotografia era precisamente questo: che potevo andare via e stare zitto, fare tutto molto rapidamente senza coinvolgimento diretto.
il pannello che apre la mostra sostiene che questi fotografi si sono aperti a un'esperienza in cui "la miseria non la fa da padrona", ma non sono d'accordo, quella matrice si respira in ogni foto.
lei è una degli 8 fotografi finalisti, ha scelto l'anonimato, altri hanno rilasciato e pubblicato il loro nome. fotografata, insieme agli altri, da Stefano Guindani.
mi piace e mi colpisce, con quegli occhi, quel velo, quel golfino allacciato in quel modo, la scelta di non mostrarsi. o, alla fine, mostrarsi molto più degli altri, così celata la si guarda oltre modo, unica donna, la sua storia e  il suo mistero.

venerdì 6 febbraio 2015

a proposito di Davis

A proposito di Davis, l'ultimo film dei fratelli Coen, non incontra il mio gusto.
non so cosa non vada tra me e i due fratelli, ma il loro linguaggio non mi coglie.
rileggo il mio blog e ritrovo, datata luglio 2008, una critica a un altro loro film, Non è un paese per vecchi (http://nuovateoria.blogspot.it/2008/07/i-fratelli-cohen.html).
mi domando cosa non mi piaccia, neanche in questo ultimo film, qualcosa che mi convince a non riguardali più.
la storia di quest'uomo è desolante, è una storia di fallimento, di disfatta, di povertà, di miseria, di ripetizione infinita dei quotidiani gesti di desolazione. Davis non risolve la sua vita, la trascina da una situazione fallimentare a un'altra, reiterando i suoi comportamenti senza rettificare nulla. muore di freddo senza un cappotto, si porta dietro un gatto come fosse un neonato senza sapere perchè, si ritrova a risolvere gravidanze indesiderate delle sue avventure notturne venendo casualmente a scoprire che quella precedente è stata poi a sua insaputa portata a termine, suona senza speranza, perde pezzi a ogni passo, si lascia insultare senza difesa oppure reagisce in modo volgare e inconsulto.
la disperazione effettivamente ti entra dentro, a proposito di Davis.
ma qualcosa del discorso mi infastidisce. non so se è il cinismo, non so se è la sensazione che nella descrizione, desolante, non ci sia posto per la speranza. qualcosa mi dice che nella presentazione non ci sia mai un soggetto, ma solo una trascinamento sociale, un destino senza forma, una progressione che annulla qualsiasi possibilità di redenzione. non c'è mai un solo personaggio che si salvi ma una melma di umanità, un aggregato di corpi senza anima. non emerge nemmeno la sofferenza, sembra che ci sia un'affidamento alla sfortuna senza ribellione, un'affondare nella scodella di merda, come dice un personaggio repellente che compare senza senso nel film. le donne sono figure inguardabili e inascoltabili, l'amante rimasta incinta non sembra capace di un istante di riflessione ed è aggressiva in modo intollerabile, la sorella è mangiata viva da una rabbia sorda e distruttiva, l'amica che lo ospita, padrona del gatto, è un personaggio patetico.
se si presenta la desolazione la si deve differenziare dalla serenità. deve esserci la mancanza di qualcos'altro, si deve sentire che quella desolazione si contrappone a una possibilità alternativa.
se tutto è sempre una scodella di merda, si perde veramente la voglia di guardare, di capire, di riflettere e di provare una scodella di gustosa crema profumata alla vaniglia.

giovedì 5 febbraio 2015

oltre lo sguardo


a Monza c'è una mostra di Steve Mccurry.
sono foto recenti e altre meno, foto del suo repertorio.
ci sono installazioni video che lo vedono raccontare le sue massime, la sua metodologia di lavoro.
quello del fotografo non è un lavoro d'istinto ma di lavoro paziente e ragionato, di lento e cauto avvicinamento, di esplorazione, di indagine. di sguardo appunto.
le sue foto sono notoriamente strepitose, lo sono anche quelle esposte a Monza.
amo i suoi colori, sopra ogni cosa. in un mondo fotografato in bianco e nero, Mccurry ama il colore delle cose, diciamolo, la verità delle cose. il suo colore è vita.
l'allestimento della mostra è particolare, nelle sale della Villa Reale -bellissima anche d'inverno nella bruma e nel gelo- non potrei dire che mi sia piaciuta. entrando ho pensato che ci fossero dei lavori di ristrutturazione in corso. invece scale e pannelli di legno fanno da supporto alle foto ma quelle nei corridoi consegnano veramente un'impressione di precario, di imbiancatura delle pareti, di muratura, in fortissimo stridore con l'eleganza inarrivabile del palazzo appena ristrutturato. nelle sale adiacenti la situazione migliora con soluzioni originali ma non degne del talento esposto. perchè Mccury ha un talento straordinario, forse il curatore della mostra meno.
in un paio di siti di fotografia e cultura (http://www.designboom. com/art/steve-mccurry-villa-reale-di-monza-oltre-lo-sguardo-designboom-10-31-2014/; http://culturefor.com/2014/11/12/steve-mccurry-villa-reale-di-monza/)  ho trovato le foto di Mccurry inquadrate proprio nell'ambito delle cornici di supporto scelte per l'occasione e mi consento di immaginarle in una presentazione migliore.
lo sguardo vuole la sua parte.












Ho imparato a essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te.
Steve Mccurry.

lunedì 2 febbraio 2015

io cerco uno spazio ulteriore. lui voleva l’infinito

accanto a quel blu così forte e allucinato, previsione di infinito senza materia, senza vincoli nè legami, di Klein, lì accanto c'è la materia, o immateria, di Fontana.

Fontana mi piace moltissimo, dagli angeli del Diocesano, ai tagli sulla tela, allo schizzo di luce al neon, in questo caso, dominante sul blu di Klein. le ricerche dei due artisti, accostati in questa mostra,  dialogano lungo un itinerario che mette a confronto le loro opere principali attraverso accostamenti tematici e visivi, affidati a soluzioni espositive specifiche: ne è appunto un esempio il colloquio immaginario tra il segno del neon di Fontana del 1951 – elemento centrale e ormai iconografico della collezione permanente del museo del novecento– e la riproposizione della grande installazione di Pigment pur di Klein , presentata nel maggio del 1957 a Parigi. la stanza del museo, così allestita, è stata chiamata Il cielo in una stanza: la luce, il blu. 
Klein dice: “Il pigmento puro, esposto per terra, diventava un dipinto da pavimento e non più da parete: lo strumento per fissarlo era così il più immateriale possibile, vale a dire la stessa forza di attrazione, che non alterava i singoli grani di pigmento […]. Il solo problema era che l’uomo sta naturalmente in piedi e guarda l’orizzonte.
anche Fontana si interroga sullo spazio, sulla materia, sul movimento della materia.

e i suoi interrogativi mi piacciono. i tagli mi fanno pensare a una domanda. cosa c'è dietro la tela? si apre uno spazio sufficiente e porsi il problema, a sbirciare oltre, ma non abbastanza grande per trovare una risposta. e posso assicurare che quei tagli si vedono, si sentono, come si sente il blu di Klein. mi piacciono le palle tonde grosse massiccie con grandi sbreghi, lacerazioni, tagli slabbrati sulla superficie. sono grossolani eppure potenti e quelle faglie beanti son sempre la stessa domanda: oltre, dopo, dall'altra parte c'è qualche altro posto?
si chiamano Nature, realizzate nel 1960 "Trenta grandi sfere in terracotta, con dei grandi tagli e buchi",e aggiunge: "Sono molto contento, è il nulla! La morte della materia, è la pura filosofia della vita".
Klein rappresenta lo spirito nuovo. È diverso da un pittore espressionista come Rothko, che è interessato alla vibrazione luminosa dello spazio, e da Pollock, che vuole distruggerlo, farlo esplodere, rompendo il quadro. È diverso da me, perché io cerco uno spazio ulteriore. Lui voleva l’infinito.” dice Lucio Fontana, nel 1967.
certo Klein cerca una ricostruzione dell'universo, tocca la trascendenza, Fontana è qui, alla fine, è  in verità legato alla materia seppure desidera annullarla, non la polimerizza, non cerca l'essenza, è sessuale è sensuale, è donna, buco, utero, grandi labbra: circondiamo il nostro vuoto, gli stiamo intorno.
se Fontana vuole cogliere la quarta dimensione, l’obiettivo prometeico di Klein è la “capture du vide”, splendido nonsenso Zen in grado di sintetizzare il mezzo e il fine, l’opera umana e la ricerca dell’Essere, scrive Davide Parlato su Revolart.
al termine della mostra i due talenti si confrontano frontalmente. da una parte Fontana con il Campione olimpico, dall'altra Klein con il ritratto di Claude Pascal.
oro e blu,  ancora una tinta uniformemente distribuita che trasforma il fine in un mezzo, nella ricerca della pura spiritualità, nella sospensione della carne con uno sfondo che riflette la luce ma non trasmette le forme e un corpo statuario, muscolare, squadrato ma senza peso. 
Klein e Fontana.

domenica 1 febbraio 2015

Stoner

è un libro di Johm Williams.
a 40 anni dalla sua pubblicazione, dopo un lungo oblio, viene riabilitato e indicato con un libro straordinario.
ne parla Le lettura del Corriere della sera, lo cita Recalcati in una sua conferenza, lo leggo anche io, me lo faccio regalare a natale.
Ho scoperto che Stoner parla in realtà di William Stoner, un ragazzo di campagna che riesce a entrare all’università del Missouri nel 1910 per poi diventare lì docente fino alla sua morte nel 1956. Con semplicità e grande forza espressiva, vengono passate in rassegna le delusioni che ne scandiscono la vita, e che la rendono deprimente solo in apparenza, perché siamo portati a identificarci con Stoner: i suoi fallimenti sono i nostri. Il romanzo è lucido nella sua compassione e, sebbene verso la fine ci si possa commuovere per il protagonista, risulta rassicurante perché l’idea di fondo è che non si è mai soli nella sofferenza: tutti soffriamo. Ma è lo stoicismo di Stoner di fronte al dolore e alla perdita a rendere così singolare questo romanzo. La sua portata drammatica sta tutta nell’atteggiamento di serena accettazione del protagonista verso ciò che gli accade. Questa passiva resistenza è ciò che lo rende un libro eccezionale, proprio perché diverso dalla maggior parte dei romanzi, dove il protagonista è sempre parte attiva nella catena di eventi drammatici che si dipana intorno a lui.
 Bret Easton Ellis, La lettura, 2014

non so se è quello che scriverei di questo romanzo.
la figura di Stoner è un turbamento. è una vita comune e, forse, è un destino comune al nostro, il suo.
quel che mi risulta evidente è la dimensione di una divisione soggettiva, lo scarto tra una vita vissuta e quella sognata: Stoner non è quel che avrebbe potuto essere, quel che avrebbe voluto essere.
Stoner, per tutta la vita, abdica al suo desiderio.
rinuncia di continuo a vivere, e sarebbe stata una gran fatica, in accordo al proprio desiderio, rinuncia a tutto, fino all'esaurimento completo delle sue risorse, fino a morirne.
l'unico momento, tra l'altro bellissimo, in cui il desiderio gli parla ed egli è disposto a perseguirlo, è quello della folgorazione per la letteratura e il suo studio. Stoner parte dalla facoltà di agraria e incespica nell'esame di letteratura inglese. capisce dalla fatica che gli costa prepararlo, dal pensiero che lo studio gli produce, dall'inciampo che questo esame gli procura, dall'ossessione per l'insegnante che tiene il corso che, la letteratura inglese,  è quel che desidera sapere nella vita.
capì che non poteva gestire l'esame di letteratura inglese come faceva con gli altri corsi...continuava a riflettere sulla parole che Archer Sloane diceva in classe, come se sotto al loro piatto significato si nascondesse una chiave che l'avrebbe condotto lì dove doveva andare.
ecco che il desiderio fa capolino, ecco che Stoner ne legge i segnali, e li asseconda.
"Cosa significa il sonetto? Cosa le sta dicendo, Mr Stoner? Cosa significa questo sonetto?" Stoner alzò lo sguardo con lentezza, riluttante. "Significa", disse, e sollevò le mani in aria con gesto vago. "Significa", ripetè, e non riuscì a terminare la frase .
significa è la vita che assume un senso, il senso del nostro desiderio. nel momento in cui lo incontra gli manca la parola, balbetta e si ferma, qualcosa gli parla e sarà per sempre. e Stoner insegnerà, con passione e dedizione,  tutta la vita. per il resto, la sua vita sarà una disfatta dopo l'altra, il matrimonio, l'amore, la figlia, i rapporti con i colleghi saranno segnati dal fallimento, dalla rinuncia, dalla passività, dalla depressione. dal non senso. è svilente questa figura, è deprimente, è, a tratti, angosciante. è particolarmente avvilente la sua sottrazione sul piano genitoriale, vede la figlia infelice nelle intenzioni manipolatorie e distruttive della madre e non fa nulla per impedirlo. indolente, si ritira dal suo ruolo paterno, lascia correre, vola le spalle, non si frappone come padre con la sua legge regolatoria alla voracità materna e la figlia cresce infelice, sara un'alcolizzata. 
Stoner è tutti noi? no, penso di no, è quel noi che rinuncia e vive nella ripetizione dei sintomi, nella disperazione, nella vuota ossessione dei gesti sempre uguali.
Stoner  un personaggio in sè privo di interesse che la narrazione letteraria rende molto interessante. la letteratura funziona da rappresentazione dell'assoluto, di ciò che altrimenti non si può dire, rende possibile l'impossibile.
come si potrebbe rappresentare la rinuncia ad abitare il proprio desiderio? così, con Stoner. ed è interessante che nel romanzo il personaggio sia solo Stoner, raramente indicato con il suo nome, William, per lo più Willy o Bill. è interessante perchè la mancanza della nominazione, del nome proprio, denota proprio il vuoto cha abita il personaggio, l'impossibiltà a vestire la propria identità.
sono rimasta folgorata dalla descrizione della sua morte, pagine sensibili e forti, indimenticabili, in cui l'abbandono della vita segna il momento della sua comprensione.
Gli sembrava di essersi svegliato da un lungo sonno, si sentiva ristorato. Era primavera inoltrata o inizio estate, ma forse più inizio estate, a giudicare dall’aspetto delle cose. Le foglie del grande olmo nel cortile sul retro erano ricche e lucenti e l’ombra dell’albero era così fresca che gli sembrava di non riconoscerla. L’aria aveva uno spessore, una pesantezza che riempiva gli odori dolci dell’erba, delle foglie e dei fiori, mescolandoli e tenendoli sospesi. Respirò di nuovo, profondamente. Sentì il rantolo del suo respiro e la dolcezza dell’estate che gli si raccoglieva nei polmoni. E avvertì anche, con quel respiro che fece, qualcosa che si spostava dentro di lui, in fondo, e spostandosi fermava qualcos’altro, immobilizzandogli la testa in modo che non potesse più muoversi. Poi la sensazione passò e si disse: ecco come deve essere. Gli sovvenne che avrebbe dovuto chiamare Edith. Poi capì che non l’avrebbe fatto. I moribondi sono egoisti, pensò. Vogliono il momento tutto per sé, come dei bambini. Riprese a respirare, ma ormai c’era qualcosa di diverso in lui che non sapeva definire. Seppe che stava aspettando qualcosa, una specie di conoscenza, ma gli sembrava di avere tutto il tempo del mondo. Udì il suono distante di una risata e voltò la testa in quella direzione. Un gruppo di studenti stava attraversando il suo cortile sul retro, per tagliare la strada; correvano chissà dove. Li vide distintamente, erano tre coppie. Le ragazze avevano gambe lunghe e aggraziate sotto ai vestitini estivi, e i ragazzi le guardavano allegri e incantati. Camminavano leggeri sull’erba, quasi senza toccarla, senza lasciare tracce del loro passaggio. Stoner li guardò mentre sparivano dalla sua vista, fin quando non poté più scorgerli. E per un lungo istante, dopo che furono svaniti, il suono delle loro risate continuò ad arrivare fino a lui, lontano e inconsapevole, nella quiete di quel pomeriggio d’estate. Cosa ti aspettavi?, pensò di nuovo. Una specie di gioia lo colse, come portata dalla brezza estiva. Ormai ricordava a malapena di aver pensato al fallimento, come se avesse qualche importanza. Gli sembrava che quei pensieri fossero crudeli, ingiusti verso la sua vita. Vaghe presenze si affollavano ai bordi della sua coscienza. Non riusciva a vederle, ma sapeva che erano lì, a raccogliere le forze in cerca di una palpabilità che non era in grado di vedere né di sentire. Si stava avvicinando a loro, lo sapeva. Ma non c’era alcun bisogno di correre. Poteva ignorarle, se voleva. Aveva tutto il tempo del mondo. Una morbidezza lo avvolse e un languore gli attraversò le membra. La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato. La testa si voltò. Il comodino era carico di libri che non toccava da tempo. Vi lasciò scorrere la mano per un istante e si stupì della sottigliezza delle dita, dell’intricata articolazione delle giunture mentre le fletteva. Sentì la forza dentro di loro e lasciò che prendessero un libro dal mucchietto sul comodino. Era il suo libro che cercava, e quando la sua mano lo prese, sorrise vedendo la copertina rossa tanto familiare ormai sbiadita e consumata dal tempo. Poco gli importava che il libro fosse dimenticato e non servisse più a nulla. Perfino il fatto che avesse avuto o meno qualche valore gli sembrava inutile. Non s’illudeva di potersi ritrovare in quel testo, in quei caratteri scoloriti. E tuttavia, sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta. Aprì il libro, e mentre lo faceva, il libro smise di essere il suo. Lasciò scorrere le dita sulle pagine e sentì un fremito, come se quelle fossero vive. Il fremito gli attraversò le dita e corse lungo la carne e le ossa. Ne era profondamente cosciente e aspettò fino a sentirsene avvolto, finché l’eccitazione di un tempo, simile al terrore, non lo immobilizzo nel punto in cui era steso. La luce del sole, attraversando la finestra, brillò sulla pagina e lui non riuscì a vedere cosa c’era scritto. Le dita si allentarono e il libro che tenevano si mosse piano e poi rapidamente lungo il corpo immobile, cadendo infine nel silenzio della stanza.