bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

domenica 31 maggio 2015

torna alle Gratie a riveder la Dama

Il credito, il fieno e le armi: fu così che nacquero i baüscia 
 
Se tuttora nel sistema bancario internazionale si usa il termine lombard per definire il tasso di sconto, è perché questa usanza creditizia inventata per ovviare al divieto medievale dell’usura fu l’invenzione dei banchieri milanesi che, nei due secoli prima del primato fiorentino, agivano in tutto il continente. Infatti quando Filippo IV di Francia decise di rimpinguare le sue finanze, fece la festa prima ai Templari, poi agli ebrei e in ultimo ai milanesi, che a Parigi rappresentavano allora tutti i banchieri della nostra penisola. 
Questa ricchezza dei lombardi era dovuta a due elementi. La formidabile rivoluzione agricola che i monasteri attorno a Chiaravalle avevano generato (inventando grazie alle marcite una raccolta di fieno già due mesi prima di quella naturale) consentiva alle cavallerie viscontee un anticipo di carburante per guerreggiare vittoriose. Poi s’era sviluppata una industria bellica fatta di armorari e spadari (le vie a loro dedicate esistono tutt’ora in città) dove fiorirono i prototipi dei casciavit. Il tutto generava danaro e il danaro generava banche. E nella testa dei Visconti elaborò ineluttabilmente la psicologia del baüscia, la quale portò Gian Galeazzo (1351-1402) all’apice dell’avventura e dell’ambizione politica. 
Aveva egli iniziato bene sposando nientemeno che Isabelle de Valois, figlia del re di Francia Giovanni II, squattrinato per via della guerra dei Cent’anni allora al suo culmine e talmente felice dell’arrivo di danaro fresco da fare del suo genero il conte di Vertu, il quale sempre col danaro si fece elevare al rango di duca dall’imperatore Venceslao. Arrivò, al momento della sua infausta morte, a controllare un territorio che si estendeva da Belluno ad Asti e da Bellinzona a Pisa, Siena ed Assisi. A lui si deve l’inizio della Fabbrica del Duomo nel 1386 e la Certosa di Pavia dieci anni dopo. Solo l’oratoria potente di Coluccio Salutati lo tenne fuori da Firenze, e il cancelliere della Repubblica gli dedicò un testo storico nel 1400, il noto De tyranno, intuendo la sua volontà d’unire la penisola in un’unica monarchia. 
Milano fece la sua rivoluzione repubblicana a metà secolo, ma il capitano scelto per difenderla ne divenne poi il primo duca sforzesco, Francesco, genero di Gian Galeazzo. 
Intanto il Duomo cresceva con manovalanze artistiche da tutto il continente e le biblioteche si arricchivano con codici altrettanto internazionali. Galeazzo Maria Sforza si sposava ad Amboise con Bona di Savoia, cresciuta presso la corte di Francia perché cognata di Luigi XI. E Bernardino Luini ritraeva la duchessa rimasta vedova e reggente dopo l’assassinio del marito, mentre Leonardo veniva a corte a Milano chiamato da Lodovico il Moro e, guardando al Bergognone che guardava i fiamminghi dopo essersi ispirato al bresciano Foppa, inventò lo stile nuovo e il cavallo del Castello, che fu distrutto quando i francesi di Luigi XII conclusero con l’innovativo tiro diritto del cannone la gloriosa stagione milanese nel 1499.

Philippe Daverio
Corriere della sera, 9 marzo 1015

non so bene cosa emerga di tutto questo, alla mostra Arte Lombarda, dai Visconti agli Sforza, a Palazzo Reale, a Milano. la mostra offre un  percorso attraverso i secoli considerati ‘l’età dell’oro’ di Milano e della Lombardia: dall’inizio del Trecento, quando Azzone Visconti prende stabilmente il potere, fino al momento in cui l’invasione francese mette fine all’autonomia del ducato sforzesco.
di certo la mostra è sontuosa e ricca.
emergono l'arte, la produzione, la ricchezza, la magnanimità e la ricerca del bello.
si cita la fabbrica del Duomo.
ricordo, in particolare, Gian galeazzo e  Filippo Maria Visconti, da ultimo Ludovico il Moro.
ma alla densa esposizione non corrisponde, secondo me, una buona narrazione.
da una mostra ben fatta esco sapendone di più.
da questa sono uscita pressappoco come sono entrata.
le indicazioni scritte erano ridondanti.
le spiegazioni dell'audioguida veramente poco interessanti.
non ho colto il punto, non ho fatto una ricostruzione nella mia testa, ho visto una marea di "cose" e non saprei collegarle alla storia delle dinastie di Milano.
non ho visto, nè letto nè sentito, una storia.
forse non era una buona giornata per andare a una mostra...chissà.

alcune opere, però, mi hanno colpito per la bellezza. indubbiamente.
Michelino da Besozzo, Ghepardo (inizi del XV secolo)
Giovanni Antonio Boltraffio, Giovane con freccia e mano al cuore in figura di san Sebastiano (1469 circa)

Michelino da Besozzo o Stefano di Giovanni, Madonna del roseto (Madonna col Bambino e Santa Caterina) (1420)


Bonifacio Bembo, Tarocchi di Filippo Maria Visconti (1442)

conclude la mostra il sonetto di Antonio Cammelli che giocando tra la dedicazione alla Vergine (Notre-Dame) della chiesa di Santa Maria delle Grazie e la presenza nel tempio della tomba della duchessa Beatrice d'Este invitava il duca, Ludovico il Moro, a rientrare in città.
Ritorna, Ludovico, se tu puoi:
ciascun qua ti desia, ciascun ti chiama,
torna acquistar l'honore e la tua fama,
torna hor che ‘l vitio suol regnar nel roi.
Deh, torna a riveder li servi tuoi,
torna all'alma città che ti richiama,
torna alle Gratie a riveder la Dama,
e spera in lei, che in lei ben sperar puoi.

messa alla fine della mostra mi ha fatto pensare davvero a un moto nostalgico, al richiamo a una ricchezza perduta. ma, si sa, non la penso così...l'età d'oro è qui, anche adesso, come allora.

mercoledì 27 maggio 2015

Expo di sera buon tempo si spera

biglietto serale, 5 euro, metrò 2 euro...tutta la vita!!
non potevo resistere a questa movida modaiola a Expo.
e ci sono andata.
il meglio: l'inizio e la fine.
ma anche in mezzo non è andata male.
tanta strada, ci vogliono gambe buone e piedi sani per andare a Expo.
a fine serata non ero tanto in me, qualche bagliore allucinatorio c'è stato. la stanchezza tira pessimi scherzi.
il metrò mi ha portata dritta al Padiglione Zero e me lo sono visitato.
bello, si cammina dentro, si guarda. una forma di fruizione immediata, non mediata dalla parola, solo sensoriale. modalità contemporanea, modalità adolescenziale. modalità di sicuro effetto e di successo allargato. di consenso unanime. l'ultima sala è difficile da lasciare...difficile uscire...sarebbe meglio restare...








poi mi sono addentrata nei vicoli, diciamo così, poi nel decumano, tra qualche padiglione ancora aperto, tra i baracchini dello street food, in una marea di gente, una folla oceanica.
ho visto il giardino del Bahrain.
mi sono fatta di Ramen e di crepe al cioccolato.
ho notato stordita la vitalità del padiglione olandese.
ho guardato stupita l'uccello aereo della Repubbica Ceca.
non potevo credere alla proposta del padiglione thai di mangiare cibo pronto in scatola da far scaldare al momento.
non sono riuscita ad andare in Cina.
sono entrata in Vietnam, ma solo per un attimo.
da lontano ho visto il Brasile, ma è chiaro che questa è solo l'infarinatura, per il fritto bisogna tornare.




ho notato compiaciuta il padiglione Italia.
e mi sono goduta lo spettacolo pirotecnico dell'albero della Vita.
alla fine ho pensato di essere spersonalizzata, derealizzata, disorientata nello spazio e nel tempo e ho deciso di tornare a casa mia, per riprendermi da 'sto viaggio lisergico in giro per il mondo.

lunedì 25 maggio 2015

Conchigliette nere, cozze giallognole, baffi turchini, sputi color rosso d'uovo

leggendo Pasolini e dei suoi ragazzi di borgata non mi aspettavo di trovare tanta poesia.
tra li mortacci sua, ammazza quanto so' gajardi, addò va sto 'ncefalitico, si stagliano luminosi degli scorci descrittivi incantati, pause di anima e di luce accecanti in mezzo a esistenze sordide, miserie, disagiate, emarginate. intermezzi di luna, di sole, di vento, di nuvole, di bagliori interrompono l'andare inesorabile, a volte anche sornione e scanzonato, della vita marginale e sfrattata dei suoi ragazzi, per lo più destinata al peggio, raramente a un'integrazione possibile, nemmeno desiderata.

Conchigliette nere, cozze giallognole, baffi turchini, sputi color rosso d'uovo
Cominciava a schiarire. Sopra i tetti delle case si vedevano striscioni di nubi, sfregati e pestati dal vento, che, lassù, doveva soffiare libero come aveva soffiato il principio del mondo. In basso, invece, non faceva che ciancicare qualche pezzo di manifesto penzolante dai muri, o alzare qualche carta, facendola strusciare contro il marciapiede scrostato o sui binari del tram. Come le case si allargavano, in qualche piazza, su qual che cavalcavia, silenzioso come un camposanto, in qualche terreno lottizzato dove non c'erano che cantieri con le armature alte fino al quinto piano e praticelli zellosi, allora si scorgeva tutto il cielo: coperto da migliaia di nuvolette piccole come pustole, come bollicine, che scendevano giù verso le cime svanite e dentellate dei grattacieli in fondo, in tutte le forme e tutti i colori. Conchigliette nere, cozze giallognole, baffi turchini, sputi color rosso d'uovo; e in fondo, dopo una striscia d'azzurro, limpido e invetrito come un fiume della terra polare, un nuvolone color bianco, tutto riccio, fresco e immenso che pareva il Monte del Purgatorio.

scendeva radendo a far sprizzare di luce, o a patinarlo di lucore, il piano dell'orto
La luce della luna lo investiva tutto, grande com'era, che non ci si vedevano i recinti dell'altra parte. La luna era ormai alta alta nel cielo, s'era rimpicciolita e pareva non volesse più aver che fare col mondo, tutta assorta nella contemplazione di quello che ci stava al di là. Al mondo, pareva che ormai mostrasse solo il sedere; e, da quel sederino d'argento, pioveva giù una luce grandiosa, che invadeva tutto. Brilluccicava, in fondo all'orto, sulle persiche, i salci, i petti d'angelo, le cerase, i sambuchi, che spuntavano qua e là in ciuffi duri come il ferro battuto, contorti e leggeri nel polverone bianco. Poi scendeva radendo a far sprizzare di luce, o a patinarlo di lucore, il piano dell'orto: con le facciatelle curve di bieta o cappuccina metà in luce e metà in ombra, e gli appezzamenti gialli della lattughella e quelli verde oro dei porri e della riccetta. E qua e là i mucchi di paglia, gli attrezzi abbandonati dai burini, nel più pittoresco disordine, che tanto la terra faceva da sola, senza doversi tanto rompere il c... a lavorarla.

il cielo si stendeva, proprio lì sopra Tiburtino, come sopra l'imbuto d'un cortile, e la luna si appoggiava, spaurita, sugli orli lucenti di qualche macchia di vapore vagante
Da una parte il cielo era tutto schiarito, e vi brillavano certe stellucce umide, sperdute nella sua grandezza, come in una sconfinata parete di metallo, da dove, sulla terra, venisse a cadere qualche misero soffio di vento. Dall' altra parte, come ci si voltava, verso Roma, c'era ancora brutto tempo, con dei nuvoli grevi di pioggia e fulmini, che però s'andavano sbrillentando all' orizzonte cosparso di lumi. Da un'altra parte ancora il cielo si stendeva, proprio lì sopra Tiburtino, come sopra l'imbuto d'un cortile, e la luna si appoggiava, spaurita, sugli orli lucenti di qualche macchia di vapore vagante. 

dietro tutto quel bianco il cielo si fece nero, e contro quel fondale nero come l'inferno, le facciate rosa e bianche della Casilina brillavano come carte di cioccolatini
Come imboccarono la Casilina, cominciò a soffiare il vento e delle colonne di polvere bianca e d'immondezza cominciarono a girare qua e là sui larghi e sugli spiazzi, suonando sui fili della ferrovia di Napoli come su una ghitarra. In quattro e quatt'otto, dietro tutto quel bianco il cielo si fece nero, e contro quel fondale nero come l'inferno, le facciate rosa e bianche della Casilina brillavano come carte di cioccolatini. Poi anche quella luce si offuscò, e fu tutto scuro, spento, ormai freddo, sotto gli sfregamenti delle ventate che riempivano gli occhi di granelli di polvere. I quattro s'andarono a riparare sotto un portoncino appena in tempo per non prendersi addosso il primo rovescio d'acqua. Tuonava con dei rimbombi che pareva che sei o sette cupoloni di San Pietro, messi dentro un bidone che li potesse contenere tutti, fossero sbattuti uno contro l'altro lassù in mezzo al cielo, e i loro botti si sentissero poi un po' fasulli qualche chilometro discosto, dietro le file delle case e dei quartieri o verso San Lorenzo, o chissà in che posto, proprio magari là dove c'era ancora un po' di cielo azzurro e ci volavano i passeretti.

Ragazzi di vita
Pier Paolo Pasolini
1955

domenica 24 maggio 2015

Piano City tra natura e grattacieli

Iris Hond doveva suonare sabato sera al Wheatfield di Porta Nuova, ma il rischio di pioggia ci ha portato dentro la fondazione Catella adiacente al parco. non è stata la stessa cosa, anche perchè il concerto per pianoforte è iniziato con 45 minuti di ritardo. imperdonabile. ma lei è un'olandese bellissima e deliziosa, uno schianto di donna con mani di fata, bel concerto, comunque. mi sono consolata con la luce delle nove di sera sul mio adorato Cesar Pelli, tutto slancio e riflessi.
questa mattina ai giardini di Villa Reale echeggiava musica ovunque, io mi sono fermata da Mattia Gregorio, al suo pianoforte, musica soul jazz, tra tanta gente beata alberi natura cinguettii bambini e luce di sole, e ho fatto molto bene. lui bravo e umile, simpatico e riconoscente, si è fatto amare moltissimo dal folto pubblico e ci ha riperti tutti di numerosi bis. un incanto. indimenticabile


ho poi proseguito al laghetto dei giardini stessi, dove un certo Pino de Vita non mi è sembrato altrettanto simpatico, anzi, tutta una propaganda dei suoi dischi e, di fatto, la gente ha ricambiato con freddezza la sua ansia di notorietà e commercio. ma suonava con il rumore dello sciabordio dell'acqua sottostante...infine c'erano tanti pianoforti ad attendere la gente tra il PAC e la GAM.

alle 17, al Parco City Life, una timidissima Anna Maria Morici (dove l'ho già vista??) ha eseguito un bel concerto per pianoforte con brani di Chopin, Haydn, Ravel, Messiaen. ero a casa mia, dalle mie parti, curiosavo con lo sguardo tra la gente, l'altissima torre (tre torri della fermata del metrò lilla), le case nuove -invendute- le ruspe dei lavori ancora in corso, le gru, che mi piacciono sempre tanto.

Piano City 2015.
Milano infinita.

giovedì 21 maggio 2015

double bind and around

Juan Muñoz
Double Bind and  Around
A cura di Vicente Todolí

La mostra Hangar Bicocca presenta “Double Bind & Around”, la prima mostra personale in Italia dedicata a Juan Muñoz, a cura di Vicente Todolí. L’artista, scomparso nel 2001, è stato uno dei protagonisti della scultura contemporanea degli ultimi due decenni del Novecento. 
Definito dalla critica uno degli artisti più complessi e singolari del nostro tempo, Juan Muñoz era solito parlare di sé come di un “storyteller”. Tra gli artisti più significativi a emergere nel periodo che segue la dittatura franchista in Spagna, è stato un interprete visionario e artefice di un’arte che pone al centro la figura umana. Capace di creare contesti stranianti, mondi fittizi abitati da bizzarri personaggi come acrobati, ventriloqui, ballerine e nani solitari, le sue opere danno forma a possibili narrazioni. 
 “La scultura avvolge lo spazio che occupa, restringendolo dall’ estremità al centro in tutta la sua estensione, come un foglio che volteggia nell’aria prima di posarsi sul tavolo o sul suolo” (da Juan Muñoz, “Writings/Escritos”, a cura di Adrian Searle, ediciones de la Central, Madrid 2009). 
Il suo interesse per l'arte dell’illusione lo ha portato a trasmettere un forte senso di ambiguità ed enigmaticità, dove i confini tra realtà e finzione si assottigliano, accrescendo un articolato gioco di contraddizioni e paradossi.
L'installazione Double Bind rappresenta la più significativa creazione dell'artista, morto nel 2001 all'età di 48 anni, pochi mesi dopo la sua realizzazione. Concepita ed esposta negli spazi della Turbine Hall all'interno del progetto Unilever Series presso la Tate Modern (Londra, 2001), non è mai più stata ricostruita. Double Bind viene ripresentata riadattandola completamente su una superficie di 1.500 metri quadrati e intervenendo sui volumi verticali dello spazio ex industriale di HangarBicocca. Formata da una serie di scenari oscuri e da elementi architettonici che giocano sul contrasto tra visibile e invisibile, tra realtà e illusione, essa si compone strutturalmente di tre piani e due ascensori in continuo movimento. Dal piano superiore, il visitatore fruisce della visione di una superficie con forme geometriche che contiene buchi e condotti reali e illusori. Al livello intermedio, invece, appaiono figure scultoree singole o in gruppo bloccate nei loro atteggiamenti in una dimensione temporale e spaziale indefinita. Muñoz crea un insieme architettonico asettico attraverso elementi strutturali, come griglie e finestre sbarrate. E’ l’artista stesso a definire l’esperienza dello spettatore come se si trovasse in una città anziché in un museo (da Double Bind at Tate Modern, Tate Publishing, Londra 2001). La mostra Double Bind & Around, nel suo complesso, raggruppa alcune delle opere più importanti di Juan Muñoz, tra cui The Wasteland (1986), formata da un pavimento di pattern geometrici colorati e dal manichino di un ventriloquo poggiato su una mensola, Waste Land (1986), dove il ventriloquo è collocato su un muro di fronte a un pavimento optical, e Many Times (1999), formata da una “folla” di figure dal volto orientale disposte nello spazio le cui espressioni raffigurano dei ghigni taglienti. Sono presenti inoltre diversi Conversation Piece, gruppi scultorei sviluppati dai primi anni Novanta: sono composti da figure anonime collocate in spazi altrettanto generici. I personaggi, le cui forme ricordano quelle umane, hanno delle strutture sferiche al posto delle gambe. Ciascuna figura occupa lo spazio, assumendo pose diverse, mentre conversa, osserva o ascolta fatti ed eventi che rimangono taciuti e incomprensibili allo spettatore. I personaggi di Hanging Figures (1997) sono invece raffigurati in pose inverosimili mentre fluttuano nell’aria come acrobati. Quest’opera è ispirata al capolavoro di Edgar Degas Mademoiselle La La al Circo Fernando del 1879 in cui l'artista rappresenta un’acrobata con un ardito scorcio dal basso.

l'Hangar Bicocca è un posto unico.
e questa mostra gli rende giustizia.
non posso immaginare luogo più consono alla straordinaria comunicativa di questo autore e delle sue opere.
la vastità degli spazi, la possibilità di camminarci dentro, pressochè soli, e di prendere direttamente la misura dell'arte, la nudità grezza e muraria industriale delle pareti, la ricostruzione su due piani di Double Bind e la possibilità di perdercisi, tutto concorre a fare di questa visita un'esperienza.
mi sono sentita dentro un'opera teatrale, a una rappresentazione scenica istantanea, me co-protagonista, dell'estraniamento.
superlativo.
non si entra dall'entrata principale ma di lato, percorrendo all'esterno i muri altissimi della struttura, camminando, nel mio caso nella notte, intorno a questo magazzino post industriale dalle imponenti fattezze neo archeologiche. si entra e si scorgono, di lato, le torri di Kiefer, sua magnificenza. bene, so dove sono.
ma poi non lo so più, le figure piccole, ma alla mia altezza, di Muñoz, sono mute ma parlano, eccome se parlano. sono assordanti di mutismo e cecità. e mi fanno sentire incapace di comunicare, sola, sperduta, oppressa.
c'è un effetto magico, direi, in questi personaggi che, se hanno le gambe, sono senza piedi, e se non le hanno, si reggono come su sacchi arrotondati sferici. sono fissi ma in movimento, hanno mani espressive e movimenti del busto, alcuni hanno occhi ciechi, si avvicinano e si parlano, sembrano scappare e rincorrersi.
sono, dunque, dei paradossi, sembrano morbidi ma hanno superfici dure e taglienti, di resina. c'è una contraddizione palpabile che ti coglie e ti mette in imbarazzo. cerco di parlare loro, sono ridicola?, o sto parlando a me stessa, a una me stessa ingabbiata in un movimento probabile ma impedito dalla mia stessa natura, dura e coriacea.
cammino e penso, alzo gli occhi e vedo figure galleggianti nell'aria, non sono impiccati, sono tenuti in aria da una corda che entra nella gola, una specie di cappio esofageo, una tortura inimmaginabile, un soffocamento stritolato di aria e di parola.
salgo le scale scricchiolanti di una struttura metallica e mi trovo al piano superiore di un luogo agghiacciante: ascensori, vuoti, emergono dal basso su una superficie molto ampia e luminosa piena di buchi, reali e virtuali, provenienti da un luogo sottostante, misterioso. mi viene in mente Metropolis, la città superiore e il mondo operaio agli inferi, ora sono sopra ma potrei passare di sotto in qualsiasi momento, la vita è imprevedibile.
sotto, invece, si sta al buio, spiragli di luce arrivano dai buchi, che non suono vuoti, ma abitati da figure che guardano contro un muro, che entrano in una fessura, che si siedono, che portano abiti e indossano stoffe, potrei dire, abitano l'ignoto.
non si calca la mano, non c'è angoscia, c'è una grande domanda, un enorme punto di domanda nella testa, una gran solitudine, una dimensione umana che in fondo si conosce, è nota a tutti, l'alienazione.
alla fine entro in un'enorme sala, un grande magazzino dalle pareti grezze, cemento scrostato, c'è una scala a chiocciole infinita che porta a un piano superiore; immagino, lassù, un luogo che porta dritto all'infinito senza ritorno. in basso, al mio livello ci sono decine di persone (?) quelle con le gambe ma senza i piedi, parlano tra loro, sono orientali, hanno occhi a mandorla, ridono, si dicono cose, fanno movimenti con le braccia, scostano i cappotti, sono tutti parte di una grande comunità...e io...sono fuori da tutto, esclusa.
chiedo e faccio domande: perché ridi? ma nessuno mi risponde, mi ignorano. ridono ma non sono felici, di questo sono sicura, ridono solo della loro superiorità, del potere dell'esclusione che hanno su di me.
è questo il seme della paranoia.

una mostra, meglio, una passeggiata indubbiamente interessante, quella con le creature di Muñoz.
e con se stessi.













martedì 19 maggio 2015

Milano è centro di una compiuta civiltà alimentare

bene , cibo molto cibo, siamo un via vai di proposte culinarie.
perché la sensazione, ripeto la sensazione, è che Expo sia un gran ristorantone, molto cool, molto high tech, molto trendy, molto allargato e di successo, un gran successo architettonico, più che un luogo di riflessione sull'alimentazione nel pianeta.
ma ancora andare ci devo, quindi aspettiamo di vedere e rimanere attoniti e stupiti.
a farmi riflettere sulla gran tradizione culinaria di Milano, "in ogni tempo Milano è stata patria di gloriose osterie"ci ha pensato il buon Savinio e le sue pagine sul Bonola, ristorante di Milano, laboratorio di culinaria sperimentale della durata di due anni.  

Ai nostri tempi, Milano ebbe un laboratorio di culinaria sperimentale: il ristorante Bonola. Se Apollonio di Tiana conosceva tutte le lingue, a imitazione degli apostoli i quali acquistavano questa conoscenza soltanto nel giorno della Pentecoste, Bonola conosceva tutte le cucine del mondo, e da questo universale della gastronomia aveva dedotto con molta pazienza, con molta intelligenza, con molto studio, una cucina "sua". Bonola era un mistico del gaudii palatali.
Il locale era di modesta apparenza, ma non entrava da Bonola chi voleva. Bonola aveva una clientela sceltissima, gente che si faceva fare tutto su misura: le scarpe, le sigarette, i pasti. I suoi clienti Bonola li conosceva uno per uno, intimamente, nella vita e nei gusti. Dirò meglio: i suoi clienti Bonola se li sceglieva da sé. A ciascun cliente egli preparava una cucina personale, piatti che "somigliavano" al cliente, riflettevano i suoi desiderii, illustravano il suo carattere. Erano "pasti ritratto".
Un giorno entrò da Bonola un tale. Fu come l'apparizione di un uomo nero, di un bruto, di un mostro infoiato in mezzo a un girotondo di bianche educande. I clienti si guardarono esterrefatti, ciascuno la forchetta sospesa sul proprio ritratto culinario. Bonola spedì con molta discrezione un cameriere ad avvertire l'intruso che quello non era posto per lui; ma quegli si risentì, fu insistente, cocciuto.
"Facciamo pagare molto caro" confidò il cameriere con l'untuosità di un consigliere spirituale.
"Pagherò" ribattè colui, e volle la lista delle vivande. Gli dissero che da Bonola la lista delle vivande non c'era.
"Fatemi mangiare lo stesso".
Bonola, secondo il suo costume, compose il pranzo da sè: un brodino, due uova su canapè di asparagi, qualche cosuccia per terminare. E finito colui di mangiare, Bonola gli presentò il conto: 270 lire.
Citato in pretura, Bonola dimostrò che ci aveva rimesso: gli asparagi li aveva fatti venire dall'Egitto, la cottura delle uova all'occhio di bue gli era costata 200 lire di cognàc.
Nel firmamento delle culinaria milanese, Bonola fu appena una cometa: brillò due anni, e poi passò.

Alberto Savinio
Ascolto il tuo cuore, città

ironia, aristocrazia, privilegio. contro la cultura dell'eccesso. forse un no expo?

domenica 17 maggio 2015

un anno sull'altipiano - ho tanti ricordi come se avessi cent'anni

«il lettore non troverà, in questo libro, né il romanzo, né la storia. Sono ricordi personali, riordinati alla meglio e limitati a un anno, fra i quattro di guerra ai quali ho preso parte. Io non ho raccontato che quello che ho visto e mi ha maggiormente colpito. Non alla fantasia ho fatto appello, ma alla mia memoria.»
un'ora di spettacolo, un attore che legge, due musicisti che suonano, luci e pubblico.
e, prima di tutto, un testo. un libro.
una storia e LA storia, la nostra.
gli ingredienti di una torta semplice, semplicemente perfetta.
arrivati al Franco Parenti ci offrono un calice di vino bianco, Vermentino buono e bello freddo, in tema con il libro, l'anno sull'altipiano di Asiago è quello di una brigata sarda, tra il '16 e il '17.
scrive Emilio Lussu.
voce recitante Daniele Monachella
chitarra classica/loop station Andrea Congia
launeddas/fiati/percussioni Andrea Pisu
disegno luce Andrea Tocchio.
 
Il tenente generale comandante la divisione, ritenuto responsabile dell’abbandono ingiustificato di Monte Fior, fu silurato . In sua sostituzione, prese il comando della divisione il tenente generale Leone. L’ordine del giorno del comandante di corpo d’armata ce lo presentò «un soldato di provata fermezza e d’esperimentato ardimento». Io lo incontrai la prima volta a Monte Spill, nei pressi del comando di battaglione. Il suo ufficiale d’ordinanza mi disse che egli era il nuovo comandante la divisione ed io mi presentai. Sull’attenti, io gli davo le novità del battaglione. 
– Stia comodo, – mi disse il generale in tono corretto e autoritario. 
– Dove ha fatto la guerra, finora? 
– Sempre con la brigata, sul Carso. 
 – È stato mai ferito? 
 – No, signor generale. 
– Come, lei ha fatto tutta la guerra e non è stato mai ferito? Mai? 
 – Mai, signor generale. A meno che non si vogliano considerare tali alcune ferite leggere che mi hanno permesso di curarmi al battaglione, senza entrare all’ospedale.
 – No, no, io parlo di ferite serie, di ferite gravi. 
 – Mai, signor generale. 
 – È molto strano. Come lei mi spiega codesto fatto?
 – La ragione precisa mi sfugge, signor generale, ma è certo che io non sono stato mai ferito gravemente. 
– Ha preso lei parte a tutti i combattimenti della sua brigata? 
– A tutti. 
– Ai «gatti neri»? 
– Ai «gatti neri». 
– Ai «gatti rossi»? 
– Ai «gatti rossi», signor generale. 
– Molto strano. Per caso, sarebbe lei un timido? 
Io pensavo: per mettere a posto un uomo simile, ci vorrebbe per lo meno un generale comandante di corpo d’armata . Siccome io non risposi subito, il generale, sempre grave, mi ripeté la domanda
– Credo di no, – risposi. 
– Lo crede o ne è sicuro? 
– In guerra, non si è sicuri di niente, – risposi io dolcemente. 
E soggiunsi, con un abbozzo di sorriso che voleva essere propiziatorio: – Neppure di essere sicuri. 
Il generale non sorrise. Già, credo che per lui fosse impossibile sorridere. Aveva l’elmetto d’acciaio con il sottogola allacciato, il che dava al suo volto un’espressione metallica. La bocca era invisibile, e, se non avesse portato dei baffi, si sarebbe detto un uomo senza labbra. Gli occhi erano grigi e duri, sempre aperti come quelli d’un uccello notturno di rapina. Il generale cambiò argomento. 
 – Ama lei la guerra? 
Io rimasi esitante. Dovevo o no rispondere alla domanda? Attorno v’erano ufficiali e soldati che sentivano. Mi decisi a rispondere. 
– Io ero per la guerra, signor generale, e alla mia Università, rappresentavo il gruppo degli interventisti 
– Questo, – disse il generale con tono terribilmente calmo, – riguarda il passato. Io le chiedo del presente. 
 – La guerra è una cosa seria, troppo seria ed è difficile dire se... è difficile... Comunque, io faccio il mio dovere –. E poiché mi fissava insoddisfatto, soggiunsi: – Tutto il mio dovere. 
 – Io non le ho chiesto, – mi disse il generale, – se lei fa o non fa il suo dovere. In guerra, il dovere lo debbono fare tutti, perché, non facendolo, si corre il rischio di essere fucilati. Lei mi capisce. Io le ho chiesto se lei ama o non ama la guerra. 
– Amare la guerra! – esclamai io, un po’ scoraggiato. Il generale mi guardava fisso, inesorabile. Le pupille gli si erano fatte più grandi. Io ebbi l’impressione che gli girassero nell’orbita. 
– Non può rispondere? – incalzava il generale. 
– Ebbene, io ritengo... certo... mi pare di poter dire... di dover ritenere... Io cercavo una risposta possibile. 
– Che cosa ritiene lei, insomma? 
– Ritengo, personalmente, voglio dire io, per conto mio, in linea generale, non potrei affermare di prediligere, in modo particolare, la guerra. 
– Si metta sull’attenti! 
Io ero già sull’attenti. 
– Ah, lei è per la pace? Ora, nella voce del generale, v’erano sorpresa e sdegno. 
– Per la pace! Come una donnetta qualsiasi, consacrata alla casa, alla cucina, all’alcova, ai fiori, ai suoi fiori, ai suoi fiorellini! È così, signor tenente? 
– No, signor generale. 
– E quale pace desidera mai, lei? 
– Una pace... 
E l’ispirazione mi venne in aiuto. 
– Una pace vittoriosa.

l'attore mi piace moltissimo, legge, interpreta ma non recita, partecipa, mi coinvolge e non perdo una sola parola della sua lettura.
amo moltissino i reading, sono episodi di cultura e intrattenimento, sono delle perle di vita.
mi piace la musica, esalta il testo, mi fa sentire la drammaticità delle parole e dei ricordi, di quella memoria.
mi torna in mente il film di Olmi, Torneranno i prati, mi tornano in mente le immagini della mostra di Rovereto, La guerra che verrà non è la prima, 1914 - 2014, bellissima esposizione, ricca di evocazioni e testimonianze, installazioni, disegni, incisioni, fotografie, dipinti, manifesti, cartoline, corrispondenze, diari, molto materiale che non si può dimenticare.
ascolto e, non so perché, mi vengono in mente soprattutto le immagini della condanna a morte di Cesare Battisti, un reportage fotografico preciso, puntuale, tragico, angosciante, inesorabile.
qualcosa di inesorabile, di folle, di crudele mi coglie ogni volta che leggo o assisto a qualcosa di questa Grande Guerra, qualcosa a cui nessuno voleva partecipare e per cui a milioni sono morti.

« Sentivo delle ondate di follia avvicinarsi e sparire. A tratti, sentivo il cervello sciaguattare nella scatola cranica, come l'acqua agitata in una bottiglia. »

testo di valore civile, testo morale, testo da leggere.

venerdì 15 maggio 2015

Armani silos

In questo grande spazio di 4.500 metri quadrati che si sviluppa su quattro piani,edificio costruito nel 1950 originariamente utilizzato come magazzino per i cereali, vi attende una selezione ragionata di abiti dal 1980 a oggi. La selezione, che non segue un criterio cronologico, racconta la storia e l’estetica dello stilista ed è suddivisa per temi, temi che hanno ispirato e che continuano a ispirare il lavoro creativo di Giorgio Armani. Al piano terra, la sezione Stars e la sezione dedicata al Daywear. Al primo piano la sezione Esotismi. Al secondo piano, Cromatismi. Al terzo e ultimo piano la sezione Luce. 
















moda, lusso, eleganza, bellezza.
ambienti soffusi, luce giusta, scale giuste, ragazzi giusti.
tutto veramente chic.
sembra un tempio, una chiesa, una religione.
un po' di piacere, e di gusto, e anche un sorriso...sono solo vestiti...seppure alcuni bellissimi, seppure molto lavoro, seppure molto guadagno, seppure industria e commercio, seppure molta fama e jet set.