bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

martedì 30 giugno 2015

chiostro dell'Incoronata

queste sono soddisfazioni.
sono davvero contenta che il mio blog abbia tanto seguito e tanto credito.
come scrivo che l'Arianteo al Mercato Metropolitano è un'indecenza (http://nuovateoria.blogspot.it/2015/06/arianteo-e-mercato-metropolitano.html) eccomi accontentata da Spazio Cinema, evidentemente mio devoto lettore, che allestisce ben due nuovi spazi all'Arena Civica e, attenzione attenzione, nel chiostro dell'Incoronata!! lo dicevo io che cortili e colonne e spazi storici sono il doveroso e necessario ambiente per il cinema all'aperto e non colate di cemento che richiedono ore per il solo avvicinamento.
ora, incoronata, so che la mia missione è giusta.

lunedì 29 giugno 2015

l'eccellenza

come dicevo, mi piace Paolo Giordano.
ho letto più volte suoi articoli trovandomi perfettamente a mio agio, trovandoli intelligenti, trovandomi stupita per il totale accordo.
ricordo bene quello sulla preghiera laica degli studenti dell'università Padova, fotografati a terra nella stessa posizione dei ragazzi della strage al College di Garissa in Kenia.
In un certo senso, la performance di Padova è stata un modo di pregare per gli studenti kenioti, di pregare in maniera laica, adeguata a un tempio dell’istruzione e del sapere, uniti non da una fede ma dall’appartenenza comune all’idea di università - qualcosa che non ha veri confini territoriali né temporali, qualcosa di universale, come suggerisce la parola. Spesso la preghiera collettiva è servita anche a questo, ad allargare momentaneamente i limiti meschini della compassione individuale, per abbracciare qualcosa di più grande e, altrimenti, inafferrabilen un certo senso, la performance di Padova è stata un modo di pregare per gli studenti kenioti, di pregare in maniera laica, adeguata a un tempio dell’istruzione e del sapere, uniti non da una fede ma dall’appartenenza comune all’idea di università - qualcosa che non ha veri confini territoriali né temporali, qualcosa di universale, come suggerisce la parola. Spesso la preghiera collettiva è servita anche a questo, ad allargare momentaneamente i limiti meschini della compassione individuale, per abbracciare qualcosa di più grande e, altrimenti, inafferrabile.
ricordo quello su Domenico Maurantonio, lo studente di 19 anni morto a seguito di una caduta dalla finestra di un albergo i cui alloggiava nel corso di un agita scolastica.
ricordo quello sul bosone di Higgs, unico articolo che tratti di fisica delle particelle che io abbia mai avuto il bene di capire...va ricordato che Giordano è un fisico...un fisico che sa scrivere è un miracolo della natura.
La fatica che agli scienziati è richiesta per strappare un’altra piccola porzione di passato aumenta esponenzialmente mano a mano che si procede all’indietro, come se il mistero dell’Inizio ci prendesse in giro, o volesse a tutti i costi restare inconoscibile. Ora, il salto dall’energia della prima presa dati di Lhc - 8 TeV, quanto è bastato per rivelare il bosone di Higgs - all’energia attuale servirà, forse, a chiarire di che cosa sia fatto quel 25% di materia del cosmo che non vediamo, non percepiamo, ma sappiamo essere lì (venticinque percento: non proprio un’inezia). E servirà, forse, a svelare per quale meccanismo, dopo una fase brevissima di sostanziale parità, la materia abbia prevalso sulla sua gemella eterozigote, l’antimateria. La fatica che agli scienziati è richiesta per strappare un’altra piccola porzione di passato aumenta esponenzialmente mano a mano che si procede all’indietro, come se il mistero dell’Inizio ci prendesse in giro, o volesse a tutti i costi restare inconoscibile. Ora, il salto dall’energia della prima presa dati di Lhc - 8 TeV, quanto è bastato per rivelare il bosone di Higgs - all’energia attuale servirà, forse, a chiarire di che cosa sia fatto quel 25% di materia del cosmo che non vediamo, non percepiamo, ma sappiamo essere lì (venticinque percento: non proprio un’inezia). E servirà, forse, a svelare per quale meccanismo, dopo una fase brevissima di sostanziale parità, la materia abbia prevalso sulla sua gemella eterozigote, l’antimateria.

ora, ieri pomeriggio mi sono letta su La lettura un suo articolo sulla benedetta questione della scuola, della buona scuola, articolo che ne riprende altri già scritti sul settimanale in un dibattito aperto su cosa si potrebbe fare per fare della scuola una buona scuola e, ancora una volta, mi trovo allineata sulla posizione del buon Giordano.
quel che mi urta della questione scuola è la questione dell'eccellenza. questa eccellenza non è la questione ma è l'antiquestione. questa preoccupazione sull'eccellenza è ridicola e irritante, è acefala e cieca, se l'eccellenza c'è emerge, l'eccellenza che preme a tutti fa di tutto il resto uno SCARTO. quel che preme, invece, è una politica scolastica delle differenze, è lo sguardo su quel che non eccelle ma sommerge, è l'abbandono scolastico altissimo, orde di giovani che a 16 anni non studiano e non lavorano, orde di giovani che occupano il suolo scolastico senza interesse e reietti come inadeguati perchè non rispondono allo stimolo.
la domanda della scuola deve essere posta lì, è un'interrogazione basilare, è l'unica possibile, è il punto di partenza di qualsiasi riforma, di qualsiasi questione politica e civile. dobbiamo aggiungere altre valutazioni? altri giudizi? studenti e insegnanti? relegarci, e affondarci, al voto e al merito quando in classe non abbiamo nemmeno ottenuto l'ascolto di  un minuto? chi sono le persone, perché gli studenti sono persone, che abbiamo di fronte?
in Italia sono pari al 17% i giovani che al 25esimo anno di età non hanno né un diploma né competenze per svolgere un’attività lavorativa. il 17%, non proprio un'inezia.


La scuola è un'aliena
Più di un anno fa La lettura ha avviato con lo scrittore Paolo Giordano una riflessione sulla qualità dell'istruzione e il suo futuro. Cioè sulla qualità della democrazia e il futuro del paoese. Oggi, passato un altro anno scolastico e nel pieno di un tumultuoso passaggio parlamentare e politico, Giordano chiude il cerchio del ragionamento. Ma le prospettive non si annunciano felici.

Giorni di maturità. Le troupe dei telegiornali si appostano davanti alle scuole superiori, quasi sempre le stesse: licei classici o scientifici nei centri delle grandi città, Milano e Roma, istituti con tradizioni gloriose alle spalle. Gli studenti intervistati sono vispi, forbiti, vistosamente preparati. Sperano che da tradurre esca Cicerone, ma temono sia l’anno di Tacito. È palese, nondimeno, la loro dimestichezza con entrambi. 

 La celebrazione degli esami di maturità si ripete identica ogni giugno, ed è un bel rito per un Paese civile. Si festeggiano i nuovi adulti, si dà loro il benvenuto nell’altro mondo. Ma quest’anno, per la prima volta, ascoltando gli intervistati avverto qualcosa che non va, qualcosa di sbagliato. Non di sbagliato in loro, certo che no, ma in noi, mentre ci trastulliamo nella contemplazione di quella meglio-gioventù. Come se quei ragazzi, così profondamente immersi nelle materie che hanno studiato, così partecipi del proprio percorso scolastico, non fossero davvero rappresentativi della scuola italiana nel suo complesso. È plausibile che io sia semplicemente condizionato dagli scontri degli ultimi mesi, dai malumori diffusi, eppure: i ragazzi con «IL» Castiglioni-Mariotti stretto sotto il braccio mi sembrano delle incarnazioni. Di chi? Di un archetipo, di un’idea astratta, dello studente immutabile, «eterno». Quello curioso, fragile, consapevole e soprattutto adeguato al sistema, l’emblema, insomma, della scuola virtuosa e funzionante che a molti di noi piace vedere proiettata ancora e ancora dal proprio passato. Nascosto dietro ognuno, tuttavia, s’intravede una schiera ben più nutrita di coetanei. Si apprestano anch’essi all’esame, ma con il distacco e l’abulia che ne ha inficiato quasi ogni giorno di vita da scolari. Entrano ed escono dai cancelli degli istituti, senza che telecamere e microfoni indugino su di loro, così come loro non indugerebbero un istante più del necessario dentro quell’istituzione che hanno sempre avvertito così lontana. 

Non si tratta della distinzione collodiana fra somari e ragazzi assennati (nella quale, tuttavia, dimostrano di credere ancora in parecchi, fino a elevarla a una strana forma di manicheismo), né c’è bisogno di interrogare i dati sull’abbandono scolastico o i risultati nei test internazionali: il fatto che la scuola come la conosciamo sia oggi un involucro alieno e incomprensibile ai più è qualcosa di palpabile nell’aria. D’altra parte, può darsi che questo distacco fra il modo di trasmettere il sapere e la sensibilità comune tra i giovani sia iniziato ben prima di quanto non sospettiamo, che fosse già in atto nella mia generazione e in quella sùbito precedente, quella degli attuali quarantenni, benché in una forma non tanto diffusa da lasciarcene accorgere. È un dubbio che sorge guardando all’oggi. L’efficacia di un sistema educativo, infatti, è misurabile al meglio solo nel lungo termine, dalla capacità o meno della struttura acquisita come allievi di resistere al tempo e alle trasformazioni. «La paidéia, o la maggiore età — scrive Umberto Curi in La porta stretta —, non è uno stato al quale si possa accedere attraverso l’infusione di talune conoscenze, e dal quale non si possa recedere. Né si tratta di qualcosa che possa essere considerato acquisito definitivamente, e che perciò si lascia alle spalle quell’altro stato, caratterizzato solo dalla mancanza di ciò che dopo venga posseduto». 

Ebbene, negli adulti di oggi la scuola non ha lasciato tracce davvero evidenti. Lo testimoniano la diserzione improvvisa dei lettori, la maniera di fruire (o di non farlo affatto) della cultura, la scioltezza con la quale ci si è scrollati di dosso l’impostazione canonica del pensiero e, più in generale, il modo di vivere e funzionare dominanti. Il sapere scolastico è spesso rimasto incapsulato fra una spiegazione in classe e il voto di una verifica, senza produrre alcunché di duraturo. Qualcosa che a scuola doveva attecchire, una certa resilienza alla regressione, per lo più non ha attecchito. E rischia di farlo sempre meno. 

Si può pensare di riformare l’istruzione senza prima riflettere su questo, insistendo nel voler costruire le condizioni ottimali intorno a quello «studente eterno» che forse si è già estinto da un pezzo? Oppure converrebbe finalmente spostare lo sguardo — senza pregiudizio, bensì con disponibilità e compassione — sui ragazzi seduti dietro i banchi? Sarebbe certo una piccola rivoluzione, come un cambio di paradigma copernicano: invece di tenere fisso al centro il sistema di per sé, con le sue regole e le esigenze di chi vi opera, posare l’ago del compasso su chi deve usufruirne, su chi necessita d’imparare. 

Ma ecco, provvidenziale, l’arrivo delle vacanze estive. Suonata l’ultima campanella di questo quadrimestre tumultuoso, non è troppo chiaro con che cosa rimaniamo. Centomila nuovi insegnanti, forse. Sicuro è, tuttavia, ciò con cui non rimaniamo: una visione nuova della nostra scuola. Il consulto più esteso del quale si abbia memoria non ha prodotto alcuna immagine di ciò che l’istruzione potrebbe e dovrebbe essere domani. Soltanto piani di assunzione, possibili rimescolamenti della burocrazia interna, sfoghi di rabbia e varie istanze particolari. L’ispirazione pedagogica, tanto nelle proposte del governo quanto nelle reazioni a tali proposte, è stata del tutto inafferrabile, forse assente dal principio. 

Qualcuno denuncia che il confronto pubblicizzato sia stato in realtà di facciata, che il governo sia andato avanti con i paraocchi e i tappi di cera nelle orecchie. Possibile. Ma, per quanto mi è stato dato di sentire, le obiezioni hanno tradito una miopia alquanto simile. A parte qualche allusione vaga all’importanza della storia dell’arte e delle lingue straniere, e a parte i soliti nostalgici per i quali «ci vorrebbero più ore di latino» (e il mondo sarebbe d’un tratto un posto migliore?), non si è discusso affatto di ciò che bisognerebbe insegnare, di come insegnarlo e, soprattutto, di come sono cambiati coloro ai quali l’insegnamento è rivolto. Chi sono gli adolescenti di oggi? Quali bisogni hanno? Come funziona il loro apprendimento? I programmi ministeriali e i criteri di valutazione sono sintonizzati con la realtà tecnologica, multiculturale, priva di gerarchie standard e sottilmente perversa nella quale vivono? Ma almeno su queste domande, il governo e il fronte a muso duro degli insegnanti sono apparsi solidali: non sono questioni urgenti. Se i professori saranno finalmente stabili e appagati, il resto verrà da sé. Vedrete. «La buona scuola c’è già, in Italia», rassicura il premier alla lavagna. L’istruzione è e dev’essere quella che è sempre stata, quella che abbiamo conosciuto noi; i ragazzi devono imparare ciò che noi abbiamo imparato e secondo gli stessi percorsi. Al massimo, per non sembrare troppo antichi, possiamo spiegarglielo con la «lavagna elettronica». 

Paolo Giordano

giovedì 25 giugno 2015

le ossessioni della Milanesiana

Le dannazioni dell'amore o dell'odio, intrecciate in modo indissolubile fino al legame folle e persecutorio, sono il fulcro di un romanzo di culto come "Che tu sia per me il coltello" di David Grossman. Anche per questo motivo è proprio lo scrittore israeliano a inaugurare il 22 giugno la sedicesima edizione della Milanesiana, la rassegna ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, e quest'anno dedicata proprio al tema "Manie/ossessioni". Il festival, che amplia il programma cittadino di ExpoInCittà, prende l'avvio appunto lunedì 22 giugno con Grossman, nella serata "Ossessione, scrittura, musica", al Teatro Grassi, con un reading dello scrittore (che riceverà anche il premio "Rosa della Milanesiana"), e con gli interventi di Sergio Escobar e Andrée Ruth Shammah, chiusi dal concerto della Barcelona Gipsy Klezmer Orchestra.

A  "La verità e le sue ossesisoni" è dedicata la serata di mercoledì 24 al teatro Grassi, con un prologo del rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, Giovanni Puglisi, e un'introduzione di Ferruccio de Bortoli. Seguiranno le letture di due scrittori che riceveranno tra l'altro il Premio Montblanc - La Milanesiana “Protagonisti del cambiamento”, cioè Paolo Giordano, già premio Strega con il suo "La solitudine dei numeri primi", e lo scrittore svizzero Joël Dicker, autore di un libro divenuto cult, "La verità sul caso Harry Quebert". A conclusione, il concerto del compositore e pianista Michael Nyman.

lunedì 22 c'ero, e anche mercoledì 24.
volevo sentire Grossman, volevo sentire Giordano.
e ho fatto molto bene.
Grossman è uno scrittore di grandi capacità narrative e ha letto un bel pezzo sull'ossessione della gelosia, con quella meticolosità descrittiva che sa cogliere il punto, sa cogliere il godimento che sta nel dolore, sa cogliere la follia umana, indomabile, che si cela dietro la ricerca ostinata di quel che ci fa più male. non fa sermoni su Israele e l'ebraismo al contrario della Shammah che oltre a fare un'introduzione confusa e mal condotta, senza continuità e scomposta, si infila dritta nell'oscurità della polemica ebraica, creando il gelo, creando la solita spaccatura tra olocausto e questione palestinese. 
la Sgarbi non è simpatica, è piuttosto sbrigativa, niente convenevoli e pochissimi sorrisi.
è pressochè perfetta dalla vita in su, curatissima nella capigliatura e negli orecchini, quai sempre pessima nella scelta delle scarpe, a volte dei vestiti.  ho anche visto domenica, al Mexico, il suo film Per soli uomini, un racconto su allevatori di pesce ambientato sul delta del Po, e ne sono uscita con una nausea furibonda causa l'uso della macchina da presa senza punto fisso, come fosse un occhio umano che si sposta da un soggetto all'altro, ravvicinatissima, sopra sotto, davanti e dietro, provocandomi una crisi cenestopatica intensissima che mi è costata almeno tre ore di malessere. non si tratta, dunque, di un buon effetto cinematografico, eppure l'idea documentaristica aveva dei pregi, sprecati per inesperienza tecnica registica.
non si può pensare di saper fare tutto.
perchè la Sgarbi, la Milanesiana, la sa fare, e bene.
amo questa rassegna da anni e cerco disperatamente di sentire tutte le letture che posso, mi piace molto questa forma di divulgazione culturale. capisco che c'è una gestione che tende a ripetersi, alcuni personaggi circolano da anni, c'è quasi una consuetudine domestica -con fratello e amici carissimi-, ma la formula letteraria, o la presentazione cinematografica, con chiusura musicale mi è molto congeniale.
ieri sera mi è piaciuto molto il giovane Paolo Giordano, mi piace come scrive, mi piace cosa e come lo scrive. amo molto i suoi articoli sul Corriere della Sera e su La lettura, possiede una grandissima dote, l'onestà intellettuale.
il suo pezzo, personalissimo, di ieri sera sul nonno Ernesto e la traumaticità della sua disturbata figura nella sua vita è stato veramente pregevole. non mi è piaciuto Joël Dicker, autore di La verità sul caso Harry Quebert, dice cose poco pensate sull'ossessività dello scrivere, confonde ossessione con passione, ossessione con bulimia. no, non ci siamo, è approssimativo.
fantastici, nelle due serate, gli intrattenimenti musicali. strepitosa la Barcelona Gipsy Klezmer Orchestra, un insieme di vocazioni musicali provenienti da tutto il mondo concertati con maestria e animati da una fantastica cantante, inusuale e intenso il concerto del compositore e pianista Michael Nyman che si è svolto durante la proiezione di un curiosissimo documentario dello stesso (anche lui affetto da uso indiscriminato ma meno traumatico della videocamera) in una qualche città sudamericana, supppongo, durante un set fotografico di procaci e improvvisate modelle da strada.

la presentazione di ieri sera, affidata a Ferruccio de Bortoli e a Giovanni Puglisi, mi ha regalato, in tema di ossessione sulla verità, una bella poesia di Saba

Amai

Amai trite parole che non uno
osava. M'incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.

Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l'abbandona.

Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.

Umberto Saba

quel che intuisco è che c'è molta confusione nel gergo comune tra ossessione e mania, passione e ostinazione, ripetizione e coazione, e vedo che in tutta la rassegna non c'è nessun oratore competente in materia...

mercoledì 24 giugno 2015

don't shoot the painter

curiosa questa mostra.
sono andata per via del titolo.
Don't shoot the painter.
fantastico.
della mostra mi è piaciuta la pienezza, i colori, l'insieme.
tutto così fitto, così denso, così ricco.
sono tante le opere tutte addensate in poche sale che la vista mi andava insieme, contenta.
 l'effetto scenico complessivo era divertentissimo.
allegro.
vitale.
le sale della bellissima Gam erano ricoperte da pannelli, un colore per ogni stanza, che riproducevano le sale della Gam stessa. uno sfondo di quadri su cui erano sovrapposti altri quadri, quelli in mostra.
un effetto sorprendente, e gioioso.
forse non mi ricorderò tutti i quadri, alcuni li ho notati più di altri, ma quel che non mi sfugge...è l'importanza della pittura!!


"Pensando a una mostra sulla pittura, abbiamo riflettuto anche sul modo di trasformare l’esperienza stessa della mostra in un dipinto. Abbiamo quindi deciso di appendere i quadri sopra altri quadri. Usando come sfondo immagini degli spazi esistenti nel museo, con tutta la sua collezione. Ne consegue l’impressione di veder fluttuare i quadri, una particolare quadreria surreale, dove le opere abbandonano la propria fisicità e diventano ciò che sono, simboli contenenti immagini, storie e idee”, ha affermato Bonami, curatore della mostra.



...quest'anno è la volta della pittura perché, sostiene Bonami spiegando le ragioni del titolo, «È un linguaggio rimasto sempre presente nell'arte contemporanea e ha trovato la sua forza anche mentre altre forme espressive, dalla performance al video, hanno tentato di sopprimerla. Insomma la pittura è un po' come il pianista nei film western: durante le risse e nei momenti di caos inizia a suonare riportando l?ordine». E tuttavia lo spettacolare incipit della mostra è affidato a una grande fotografia di Thomas Struth che riproduce, però, una sala della National Gallery di Londra con una pala di Cima da Conegliano e due quadri del Bellini davanti ai quali sostano alcuni visitatori, alter ego di noi stessi, spettatori a nostra volta di quella foto dentro la villa Reale. Allo stesso modo, la prima sezione della mostra, dedicata ai paesaggi, è un continuo rimando fra pittura e fotografia per sottolineare come i due linguaggi si siano sempre guardati reciprocamente fino al punto di confondere il pittorico con il pittoresco: una foto di paesaggio ci piace perché ci ricorda un quadro o viceversa? E che cosa stiamo effettivamente guardando: un paesaggio o l'aspettativa che ce ne siamo costruiti attraverso secoli di storia dell'arte? Ma le ambiguità con cui questa mostra sfida il visitatore non finiscono all'ingresso perché tutti i muri delle sale settecentesche sono ricoperti con enormi ingrandimenti fotografici, quasi al vero, delle stanze al piano superiore arredate con quadri e statue ottocentesche producendo così un audace corto circuito fra passato e presente, foto e pittura, riproduzione e originale, esattamente come anticipato dall'immagine iniziale di Thomas Struth. (Bonazzoli Francesca, Corriere della Sera)




un'esperienza inedita, la dimostrazione che a volte la cura della mostra fa la mostra, anche più della mostra stessa, comunica un'idea al di là dell'idea stessa.
molti quadri sono bellissimi, stranianti, ne ho riportati alcuni.
qui Enzo Cucchi.


Alla Gam “Don’t shoot the painter”, 100 dipinti dalla Ubs art collection

Da mercoledì 17 giugno in mostra, visibili per la prima volta al pubblico italiano, oltre 100 tra le maggiori opere della UBS Art Collection dagli anni ‘60 ad oggi di 91 artisti internazionali.

lunedì 22 giugno 2015

smoking woman

sono andata in questa strana galleria, Tega, di Milano, e mi aspettavo di vedere alcuni quadri di Botero.
si tratta di una piccola sala, i quadri sono veramente pochi, ma questo non mi stupisce.
poi però guardo quel che c'è e non mi tornano i conti.
mi aspettavo di vedere delle tele ma non ci sono.
tipo The president del 2003, tipo The family del 2014, tipo Trainer and horse (2008).
ne rimangono davvero poche, dove sono le altre?
chiedo: quadri venduti, mi rispondono, e qualcosa è a Basilea per un'esposizione.
bene, sono contenta che qualcuno si compri i quadri di Botero, anche se è un tipo di commercio che non mi fa sperare in una ripresa economica, piuttosto mi convince di una ricchezza che rimane sempre nelle solite mani, di pochi.
mi accontento di questo, Smoking woman.
Botero mi fa uno strano effetto, una categoria corporea sovradimensionata ma non grassa. non c'è obesità, come si potrebbe pensare, c'è solo un'altra dimensione, un'altra scala, personalissima, uno sguardo oltre (dagli occhi sempre molto piccoli), un equilibrio assolutamente condivisibile. è come se si trattasse di un terzo sesso, oltre l'uomo, oltre la donna, c'è l'umanità di Botero.

venerdì 19 giugno 2015

certe notti

... la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei.
Certe notti la strada non conta e quello che conta è sentire che vai.
Certe notti la radio che passa Neil Young sembra avere capito chi sei.
Certe notti somigliano a un vizio che non voglio smettere, smettere mai.

Piccolo Teatro Strehler 
dal 18 al 21 giugno 2015 
Certe notti 
coreografia Mauro Bigonzetti 
canzoni e poesie Luciano Ligabue 
scene e video installazioni Angelo Davoli 
costumi Kristopher Millar e Lois Swandale 
luci Carlo Cerri 
Compagnia Aterballetto Fondazione Nazionale della Danza

piccolo capolavoro di danza e musica.
direi soprattutto per chi ama Ligabue (io) e chi ne conosce le canzoni (io).
direi anche per chi ama la danza.
Certe notti fai un po' di cagnara che sentano che non cambierai più. 
Quelle notti fra cosce e zanzare e nebbia e locali a cui dai del tu. 
Certe notti c'hai qualche ferita che qualche tua amica disinfetterà. 
Certe notti coi bar che son chiusi al primo autogrill c'è chi festeggerà. 
direi ancora di più per chi ammira il corpo e le sue infinite potenzialità.
non diciamo poi per chi ama l'arte e la fantasia creativa.

ma direi in generale per chi ama il bello.

mentre cantavo e mi commuovevo pensavo che i ballerini sono belli.
a fine spettacolo una signora anziana, si, anziana insieme ad altri sei amici altrettanto se non più anziani di lei, seduta nella fila sotto la mia, si è alzata, applaudendo e ridendo, e ha cominciato a decantare le bellezze dei corpi dei ballerini (maschi), con tono di voce alto, eccessivo, con enfasi sui muscoli e la mancanza di tatuaggi (che evidentemente disapprova), con evidente stato di eccitazione fisica e psichica al limite dell'esaltazione maniacale. la signora appariva disinibita e certamente attivata dalla visione conturbante del corpo, di bei corpi, in movimento.
Certe notti ti senti padrone di un posto che tanto di giorno non c'è. 
Certe notti se sei fortunato bussi alla porta di chi è come te.
C'è la notte che ti tiene tra le sue tette un po' mamma un po' porca com'è. 
Quelle notti da farci l'amore fin quando fa male fin quando ce n'è.
forse in modo meno sguaiato (ma è certo che finirò così anch'io), ho pensato, alla fin fine, la stessa cosa.
il ballerino, la ballerina, sono belli e forse la danza serve solo a questo, ad eccitare la fantasia nella visione estatica del bello.
qui poi l'esibizione corporea non si è certo risparmiata, soprattutto i maschi si sono mostrati in tutto il loro splendore ballandono spesso a torso nudo e ancora più spesso in mutande.
le donne erano più coperte ma splendide ugualmente, gambe belle snelle e tornite, adoro il corpo femminile tonico, detesto la magrezza smunta, molle, senza forma.
insomma, un tripudio dei sensi.
E si può restare soli, certe notti qui, che chi s'accontenta gode, così così. 
Certe notti o sei sveglio, o non sarai sveglio mai, ci vediamo da Mario prima o poi.

la musica è formidabile, la canzoni tra le più belle, la presentazione scenica accattivante con schermi che riportano ad altre scene di danza in paesaggi brulli e quasi desertici su dune di sabbia e sassi, le poesie tratte da Lettere d'amore nel frigo:

Un amore che comincia d’estate
È un amore in salute
È orizzontale
Seminudo
Si abbina all’allegria di canzoni furbe
Mentre qualcun altro
Porta il cane a pisciare
Sul lungomare degli astronomi.

Tutto quel sudore
Lo fa scivoloso
Ma quando cade
Sa ridere di sé
Si toglie gli anni
Tiene aperte tutte le finestre
Informa il mondo

Un amore che comincia d’estate
Non ha paura
Del cancro alla pelle
Non ha paura
Fa comodo anche agli altri
Che possono cosi
Chiamarlo stupido, 
fatuo, passeggero, virale 
di basso profilo 
di cattivo gusto 

quelli che si fingono piu’ a favore 
lasciano che si sappia 
il loro compatire 
mentre dicono 
una vita ce l’abbiamo tutti

Non è che gli abissi cambino.
Nemmeno l’idea di fortuna
Né del suo contrario
Fa solo prima a spogliarsi
Toglie un po di lavoro a san Lorenzo
Si prende cura di sé
Lasciandosi andare
Alla barba che non si fa A
l trucco che non si mette


Un amore che comincia d’estate
Si è perso la primavera
Ma non lo vedrete mai
Pensare
All’autunno 
Imminente.

stralci di dialoghi dal film Radiofreccia:
Boris: Ciccio, la radio è un hobby. Potevi essere maniaco di francobolli, di pesci gatto o di che cazzo ne so. Dai, avrai comunque le tue trecentomila al mese. Cambierai la 127 ogni tre anni, ti sposerai Ilaria, perché quelli come te sposano sempre quella che hanno conosciuto alle medie. B
Bruno: Cosa vuol dire quelli come me? 
Boris: Vuol dire quelli come te. I figli: un maschio e una femmina, se ti va male due e due. A cinquant'anni la casetta tua con tutte le grate alle finestre perché abbiamo paura degli zingari, è chiaro. Guzzerai Ilaria una volta al mese e solo quando sarete ciucchi. E poi le paste la domenica mattina, i tortelli alla vigilia, qualche petardino a capodanno. Le barzellette al bar in dialetto e l'italiano davanti al capo. Novantesimo minuto vita natural durante, la 127 lavata il sabato per portare la famiglia fuori la domenica, una vita di straordinari per comprarti lo Zodiac per le gite sul Po, e tre o quattrocento hobby nuovi perché il tempo libero ti ammazza. Gran sballo. Quelli come te sono anche capaci di fare volontariato alla croce rossa. 
Bruno: Quelli come me quelli come te li mandano affanculo.

insomma, Ligabue.
e quelli, belli, ballano e ballano e ballano.
belli e bravi, hanno un momento con dio.

http://www.aterballetto.it/video/certe_notti.mp4

giovedì 18 giugno 2015

from these hands: a journey along the coffee trail

FROM THESE HANDS: A JOURNEY ALONG THE COFFEE TRAIL è il titolo della mostra dedicata al fotografo Steve McCurry, organizzata da Lavazza e firmata dall’architetto Fabio Novembre, che sarà allestita a Milano, dal 5 giugno al 5 luglio 2015, nella Sala Colonne del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Al centro della mostra, 62 scatti realizzati da McCurry in 12 diversi Paesi: Brasile, Burma, Colombia, Etiopia, Honduras, India, Indonesia, Perù, Sri Lanka, Tanzania, Vietnam, Yemen. L’allestimento di Fabio Novembre è studiato per accompagnare il pubblico nelle atmosfere evocate dagli scatti. Le foto di McCurry sono sempre l’inizio di un viaggio in cui è meraviglioso addentrarsi. L’idea da cui è stato sviluppato l’allestimento, diventa quindi un labirinto che si integra perfettamente nelle geometrie della Sala Colonne del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia. Il visitatore potrà ammirare le opere di McCurry riprodotte su pannelli concepiti come pagine di un volume fuori scala. La bellezza e l’umanità che scaturiscono dalle immagini di McCurry è amplificata dall’allestimento di forte impatto scenico e immersivo studiato e realizzato dall’architetto Fabio Novembre.Unico comune denominatore: il caffè. Si tratta infatti delle foto più belle ed evocative scattate da McCurry nel corso di un viaggio che copre un arco temporale di oltre trent’anni sulle strade del caffè.













belle, cosa posso dire, belle queste foto.
cioè quelle di McCurry, le mie fanno schifo ma volutamente le pubblico.
perchè?
perchè non sono esposte le foto originali di McCurry ma dei pannelli luminosi, molto luminosi, che probabilmente vorrebbero esaltare la realtà fotografica ma la trasformano in cinematografica, ovvero la tradiscono.
è un'altra cosa.
nell'esposizione viene certamente cercato un effetto scenico, sia nella disposizione, come tra le pagine di un libro, sia, appunto, con questa luminosità e grandezza dimensionale che non appartengono alla fotografia originale.
e questo mi dispiace, sembra ormai impossibile rinunciare al surplus, al'eccesso, alla grandiosità digitale, all'enfasi.
non ce n'era bisogno, McCurry basta e avanza.
un'operazione di marketing, uno sgambetto al talento.

lunedì 15 giugno 2015

il Riccetto

Ragazzi di vita è un grande libro, di una drammaticità tagliente.
affiora nel sottofondo la bellezza, della natura, dei cieli e delle nuvole, di Roma capitale, del Tevere e degli angoli magici della città, eppure, quel che emerge, e ti crocifigge, sono macerie e disgregazione.
siamo nell'immediato dopo guerra, almeno all'inizio del libro, e le bande di ragazzi di borgata animano le pagine del libro con le loro vite vuote di tutto, senza case, senza tetto, senza lavoro, senza soldi, senza affetti, senza radici e senza valori, piene di piccoli furti, di espedienti meschini, di passatempi inventati, di noncuranza, di indifferenza o, a volte, di episodi drammatici, di violenza, di morte, di annientamento nel nulla.
la narrazione non chiede nulla al lettore, solo l'ascolto, del cuore, della testa. non c'è enfasi, non ci sono trucchi teatrali drammaturgici, nè strategie sentimentali, c'è solo da assistere.
assistere si, non vedo ribellione, non vedo speranza, vedo solo sopravvivenza quotidiana a dosi di cinismo e sopraffazione, di precocità delinquenziale, di disillusione senza traccia di rivendicazione sociale o di impegno politico. per i ragazzi di vita la vita scorre così, già solcata nel suo destino, dove si muore per un accidente, un incidente, un tragico scherzo. 
a tratti ho veramente patito, certi capitoli finiscono nel dubbio, nel dubbio della tragicità senza che ci sia mai, in nessun caso, l'insistere sui risvolti tragici della vita. eppure sai che è finita male, lo sai, e Pasolini ti fa immaginare, ti fa proseguire nella tua pagina interiore, ti fa costruire il dolore della perdita, la disperazione della povertà, anche morale. è questo che ho amato di questo libro, Pasolini ha costruito pagine straordinarie, dove sembra che l'indifferenza, quei li mortacci sua, il tempo annoiato, la piotta rimediata rubando a un cieco che chiede l'elemosina, le madri sfatte e furiose, la quotidianità di un'intera famiglia che si svolge entro le mura di una classe cadente in una ex scuola siano gli unici ingredienti delle storie, ma, invece, ti accompagna in un viaggio che poi sarai costretto a costruire da solo, nella più tetra solitudine, nella disperazione dell'isolamento. tu e il libro, tu e lui, tu e il Riccetto. tu.
leggevo in un'intervista a Fabrizio Gifuni, che legge il romanzo in un audiolibro, che consiglio, anzi che ordino a chiunque ami la letteratura e la lettura, e che ha interpretato in un reading a Milano, al teatro Franco Parenti il 7 giugno appena passato, quanto Pasolini fosse invaghito dei ricci, di quanto li desiderasse, di quanto ne fosse attratto. questo è un aspetto che mi incuriosisce, ovvero come, in fondo, all'intellettualità, al lavoro di una vita, all'impegno artistico, al cinema, alla poesia e alla letteratura, si contrapponga un aspetto di reale, di riccioli in testa, di corporeità, di fisicità, di seduttività omosessuale che fa di quell'artista, una persona con le sue fragilità, con il suo corpo.
«I ricci erano un’ossessione che Pasolini dichiarò in una poesia giovanile (“Danza di Narciso”), poi riscritta con la stessa struttura metrica, ma con spirito mutato, più in nero. In una di queste, in friulano, scrive: “Posso solo dire che dal male dei ricci non si può guarire”. 
Risorgono dalle pagine di un romanzo che trasformò letteratura e comune senso del pudore quei borgatari romani post bellici che al cinema saranno accattoni o appesi sulla croce, Franco, Ninetto e altri. Il Riccetto, e anche il Caciotta, il Lenzetta, il Begalone, almeno una dozzina di voci diverse in un attore strepitosamente multiplo: «L’ossessione pasoliniana prende corpo negli Anni 50 in questo che è il suo miglior affresco. Le pulsioni che attraversano la mia lettura oscillano continuamente tra un romanzo intatto nella sua bellezza e purezza senza rughe, ma che è impossibile non leggere con gli occhi del presente. C’è un momento in cui Pasolini racconta come Riccetto, in due anni, fosse già diventato un figlio di mignotta capace di ammazzare un frocio per duemila lire. Difficile non leggere in questi fulminei frammenti quello che accadde dopo, giusto quarant’anni fa. Pasolini dissemina la sua opera di riflessioni sulla morte, riesce perfino a prefigurare la stessa immagine del suo assassinio.»(Maurizio Porro, Corriere della Sera, 5/6/2015)

il linguaggio è straordinario, sia in bocca ai ragazzi di vita, sia nella penna descrittiva di Pasolini.
è un romanzo strepitoso, un romanzo di vita.

– Nun torni a Genè? – ripeté Mariuccio, deluso da com’erano andate le cose. – Rimano de qqua ancora un pochetto, – disse di lag- giú Genesio, – se sta tanto bbene de qqua! – Daje, traversa! – insistette Mariuccio con le corde del collo che gli si gonfiavano per lo sforzo che faceva a gridare. Pure Borgo Antico si mise a chiamarlo, e Fido abbaiava saltando di qua e di là, ma col muso sempre ri- volto all’altra sponda, come se chiamasse pure lui. Genesio allora s’alzò all’impiedi, si stirò un pochetto, come non usava fare mai, e poi gridò: – Conto fino a trenta e me butto. – Stette fermo, in silenzio, a contare, poi guardò fisso l’acqua con gli occhi che gli ardevano sotto l’onda nera ancora tutta ben pettinata; infine si buttò dentro con una panciata. Arrivò nuotando alla svelta fin quasi al centro, proprio nel punto sotto la fabbrica, dove il fiume faceva la curva svoltando verso il ponte della Tiburtina. Ma lí la corrente era forte, e spingeva indietro, verso la sponda della fabbrica: nell’andata Genesio era riuscito a passare facile il correntino, ma adesso al ritorno era tutta un’altra cosa. Come nuotava lui, alla cagnolina, gli serviva a stare a galla, non a venire avanti: la corrente, tenendolo sempre nel mezzo, cominciò a spostarlo in giú verso il ponte. – Daje, a Genè, – gli gridavano i fratellini da sotto il trampolino, che non capivano perché Genesio non venisse in avanti, – daje che se n’annamo! Ma lui non riusciva a attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume, di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume. Ci restava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva, veniva trascinato sempre in giú verso il ponte. Borgo Antico e Mariuccio col cane scapitollarono giú dalla gobba del trampolino, e cominciarono a correre svelti, a quattro zampe quando non potevano con due, cadendo e rialzandosi, lungo il fango nero della riva, andando dietro a Genesio che veniva portato sempre piú velocemente verso il ponte. Cosí il Riccetto, mentre stava a fare il dritto con la ragazza che però continuava, confusa come un’ombra, a strofinare le lastre, se li vide passare tutti e tre sotto i piedi, i due piccoli che ruzzolavano gridando tra gli sterpi, spaventati, e Genesio in mezzo al fiume, che non cessava di muovere le braccine svelto svelto nuotando a cane, senza venire avanti di un centimetro. Il Riccetto s’alzò, fece qualche passo ignudo come stava giú verso l’acqua, in mezzo ai pungiglioni e lí si fermò a guardare quello che stava succedendo sotto i suo occhi. Subito non si capacitò, credeva che scherzassero: ma poi capí e si buttò di corsa giú per la scesa, scivolando, ma nel tempo stesso vedeva che non c’era piú niente da fare: gettarsi a fiume lí sotto il ponte voleva proprio dire esser stanchi della vita, nessuno avrebbe potuto farcela. Si fermò pallido come un morto. Genesio ormai non resisteva piú, povero ragazzino, e sbatteva in disordine le braccia, ma sempre senza chiedere aiuto. Ogni tanto affondava sotto il pelo della corrente e poi risortiva un poco piú in basso; finalmente quand’era già quasi vicino al ponte, dove la corrente si rompeva e schiumeggiava sugli scogli, andò sotto per l’ultima volta, senza un grido, e si vide solo ancora per un poco affiorare la sua testina nera. Il Riccetto, con le mani che gli tremavano, s’infilò in fretta i calzoni, che teneva sotto il braccio, senza piú guardare verso la finestrella della fabbrica, e stette ancora un po’ lí fermo, senza sapere che fare. Si sentivano da sotto il ponte Borgo Antico e Mariuccio che urlavano e piangevano, Mariuccio sempre stringendosi contro il petto la canottiera e i calzoncini di Genesio; e già cominciavano a salire aiutandosi con le mani su per la scarpata.
– Tajamo, è mejo, – disse tra sé il Riccetto che quasi piangeva anche lui, incamminandosi in fretta lungo il sentiero, verso la Tiburtina; andava anzi quasi di corsa, per arrivare sul ponte prima dei due ragazzini. «Io je vojo bbene ar Riccetto, sa!» pensava. S’arrampicò scivolando, e aggrappandosi ai monconi dei cespugli su per lo scoscendimento coperto di polvere e di sterpi bruciati, fu in cima, e senza guardarsi indietro, imboccò il ponte. Poté tagliare inosservato, perché, sia nella campagna che si stendeva intorno abbandonata, verso i mucchi di casette bianche di Pietralata e Monte Sacro, sia per la Tiburtina, in quel momento, non c’era nessuno; non passava neppure una macchina o uno dei vecchi autobus della zona; in quel gran silenzio si sentiva solo qualche carro armato, sperduto dietro i campi sportivi di Ponte Mammolo, che arava col suo rombo l’orizzonte.

domenica 14 giugno 2015

Arianteo e Mercato Metropolitano (a ridateme Palazzo Reale)

in questo bailamme di Expo e rinnovamento global-radicale cittadino milanese mi si è persa una cosa preziosissima, ahimé.
ovvero l'Arianteo.
il cinema all'aperto è per me motivo di esistere, e resistere, in estate.
non è scomparso ma è collocato non male, malissimo.
uno schifo.
fino all'anno scorso le sedi erano tre, anzi quattro.
dicasi: cortili Umanitaria, cortile Palazzo Reale, cortile Castello Sforzesco, cortile Conservatorio.
è vero che nel primo era più facile fare una coda oceanica che non entrare (molti accidenti, molte dannazioni, a li mortacci tua direbbe il Riccetto), ma sono aperte le votazioni a quale fosse il luogo più bello, bellissimo.
il mio preferito? Palazzo Reale, posto sempre garantito, aria freschissima serale, poche zanzare, parcheggio possibile nei dintorni o metropoltana davanti all'entrata, e poi...che posto...da certe posizioni si poteva sbirciare in piazza.
quest'anno? niente di tutto ciò e solo una postazione (con meno scelta) al Mercato Metropolitano.
il MM è un luogo delizioso, a Porta Genova (e ne apriranno uno simile a Porta Romana), un mercato ben fornito al chiuso dallo stile ormai omologato e a prezzi non certo regalati, molti posti a sedere all'esterno, capannoni completamente colorati da scritte e disegni street art, diverse zone con vasconi piantati a pomodori e melanzane, una vasta aerea dedicata allo street food con ape e carrozzoni adibiti a piadine, tigelle, hamburger, cibo giapp, tortellini et al e sempre riccamente corredati di posti a sedere. destinazione da definirsi, probabilmente verrà smantellato a gennaio 2016, oppure, chissà. per ora apprezzatissimo dal pubblico milanese (che ormai mi sembra popolatissimo, arrivato al miliardo di persone se ogni, e dico ogni, luogo della città, vecchio o nuovo, è affollatissimo di gente).

ma
per il cinema all'aperto, assolutamente NON CI SIAMO.
impossibile parcheggiare, file ovunque, coda in ogni strada adiacente, unico parcheggio (carissimo, molto più del biglietto del cinema, spesa complessiva intollerabile) già completo alle 8 e 30, nessuna metropolitana vicina, nessuna, il cinema non certo adagiato in uno storico cortile milanese ma solo appoggiato su una colata di cemento contornata da una parete nera che fa da confine con il nulla esterno, in fondo al mercato, comunque difficile da raggiungere ovunque si abbia la fortuna -sudatissima- di parcheggiare. io ci ho messo, parcheggiata l'auto, 20 minuti all'andata, altrettanti al ritorno (e la zona non è bellissima di notte).
VOTO: ZERO
pubblico, ovviamente scarso.
pessima idea, da dimenticare.
ritorno immediato alle vecchie collocazioni, grazie.

giovedì 11 giugno 2015

Mr & Mrs Dream

è il secondo spettacolo francese che vedo al Piccolo Teatro e che mi entusiasma. 
il primo, ormai quasi due mesi fa è stato Cendrillon, versione (ri)scritta e diretta da Joël Pommerat della fiaba di cui siamo debitori a Perrault e ai Grimm. Il regista illumina, non solo metaforicamente, visto il ruolo preponderante della luce nello spettacolo, i lati oscuri di una storia che credevamo di conoscere a memoria. è vero, si tratta di Cenerentola, ma è come l'avessi vista e sentita per la prima volta in una versione così accattivante, così interessante, così divertente, innovativa e visivamente strabiliante da lasciarmi a bocca aperta. attori vivaci, simpatici, ipnotici, scenografie nuove, testi divertenti e intelligenti, rivisitati in termini ironici oppure riproposti in modo drammatico, immagini indimenticabili. una perla. 
poi mi ritrovo alla rassegna di danza del Piccolo e mi imbatto in 

Mr & Mrs Dream
coreografia e allestimento Marie-Claude Pietragalla e Julien Derouault
liberamente ispirato all’opera di Eugène Ionesco
con Marie-Claude Pietragalla e Julien Derouault
musiche Laurent Garnier
concezione e realizzazione grafica Gaël Perrin
concezione della realtà virtuale e tecnologia Benoît Marini
sviluppo della realtà virtuale Leïla Aït-Kaci


che bello spettacolo!! come mi è piaciuto. mi sono divertita moltissimo, mi sono goduta la danza, l'idea, il movimento, la musica, le trovate tecnologiche, l'impianto scenico, tutto. lei, Marie-Claude Pietragalla, è una ballerina classica, etoile dell'Opera di Parigi, brava ma troppo imbrigliata e riconoscibile nella sua impronta classica. lui, Julien Derouault, è un genio del movimento. vederlo ballare, e interpretare, in mezzo a quelle luci, questi testi scenici, quelle innovazioni tecnologiche è stata un'esperienza. sono comunque belli insieme, sono due corpi, a tratti un unico uno, nello spazio scenico, nella danza, nel teatro, nel cinema, nello spazio virtuale. inventano situazioni, travestiti come personaggi di Blade Runner, su campi fioriti, nello spazio cosmico in movimento, sulla tastiera di un computer o in un cerchio impazzito di lettere, nell'abside di una chiesa. a volte si ride, quasi sempre si sorride, perchè trasmettono umorismo e ironia, qualche volta la mascella pende per lo stupore dell'invenzione teatrale. per la bellezza del talento.
uno spettacolo meraviglia, sempre all'altezza, un divertimento globale, una soddisfazione cosmica e non virtuale, nonostante le apparenze, ma reale, corporea, sensazionale.
splendido.




lunedì 8 giugno 2015

nel cinema, oltre il cinema, la vita

“Io sto sempre andando a casa, sempre alla casa di mio padre.”
Novalis. (in Youth, di Paolo Sorrentino)
io anche, nonostante tutto.

giovedì sera sono andata a vedere un simpatico film brasiliano: E' arrivata mia figlia!
un titolo pessimo, da azzeramento delle idee, pericolosamente banale,  ma il film è godibile, eseguito con appropriatezza, dice bene e non si perde in spiegazioni: quel che c'è da capire sui ruoli sociali e la tirannia che si nasconde sotto mentite spoglie di democratica accoglienza, si capisce perfettamente, amabilmente.
la regista, Anna Muylaert, è presente in sala, sta facendo un tour promozionale e l'Anteo non se l'è lasciata sfuggire. l'accompagna qualcuno, un uomo, giovane, non so chi sia, e nemmeno voglio saperlo. lo cito, il meschino, solo perché ha fatto un'affermazione, al contrario, del tutto impropria, se non imbecille. nel presentarsi la gentil regista afferma di aver fatto un film all'italiana e riferisce che a Roma, il giorno prima, le hanno proprio detto che il suo sembra un film italiano. cosa voglia dire non lo so, ma la regista pare lusingata del complimento, invece l'accompagnatore esordisce con un: speriamo però che non sia come i film italiani, che sia meglio dei film italiani!
ora.
o è stato ibernato fino a ieri ed è rimasto ai film dei Vanzina.
o, purtroppo, presenta la regista brasiliana ma non è al corrente dell'attuale andamento della filmografia italiana, per gravi motivi personali e una crudele dissociazione temporo-spaziale è lì a presentare un film ma cosa sia un film non lo sa.
oppure, semplicemente, è un inetto. 
che fastidio.
potrei dire, al contrario, e senza fare un'affermazione azzardata, senza espormi a giudizi di un entusiasmo senza senso, senza sembrare una fanatica, che il cinema italiano gode di ottima salute. veramente un gran figo in splendida forma. complimenti.
"ma chi è?" chiede Michael Caine? "e' dio" risponde Harvey Keitel.
parlano della bellezza, della giovinezza, del corpo divino di chi le abita.
senza spingermi troppo in là citando film poco conosciuti e, purtroppo, scarsamente distribuiti (ma ne ho visti parecchi...), soffermandomi anche solo sulla triade di Cannes, già ampiamente citata da qualsiasi giornale italiano (ma li leggerà il meschino?), posso dire senza tema che ho visto tre bei film.
Mia madre è un bel film di Nanni Moretti, è un film che lascia il segno in chiunque abbia vissuto la perdita della madre. ma soprattutto in chi abbia avuto modo di ripensare alla propria posizione nel momento della perdita della madre, a quel momento, quello in cui sta o starà per perderla. con un colpo di genio non interpreta se stesso ma delega la sua incapacità di accettazione della morte alla Buy, sottraendosi a quegli stereotipi che vogliono, di fronte al dolore, il maschio in un modo, la donna in un altro. chissenefrega sembra dire Moretti, quel che accade è che la sorella regista non sa stare nella perdita, si ribella, ne fa una questione di principio, dunque, perdente. il fratello invece si mostra umile di fronte alla morte, a capo chino, inerme, quindi dentro, quindi prossemico, quindi senza rabbia né rancore, quindi lì, dove deve essere, disarmato e paziente. una in lotta e l'altro arreso, una lontana, presa da sè, l'altro vicino, disposto a perdersi. una lezione esemplare, con una grande Lazzarini, una commozione inesauribile, senza lacrime, per quel distacco non demandabile, inevitabile, necessario. il distacco della vita, il distacco che ci rende, per sempre, soli.
Il racconto dei racconti di Matteo Garrone è un film inspettato, una grande narrazione fiabesca, un bello spazio per vedere e sognare, il luogo di racconti carichi di significanti e legami. bellissimo il racconto dei fratelli albini, ecco eternamente presente una madre coccodrillo che tutto vuole per se, che divora ogni cosa, anche chi crede di amare ma, invece, solamente deglutisce nelle fauci, vorace di un'approvazione della propria potenza femminea: creo e distruggo. ecco ancora una volta il mito della bellezza, che è nella nostra mente non nell'obiettività della carne, letteralmente nella scorticazione, non della pelle ma dei pregiudizi, sempre mai troppo tardi per capirlo. ma il bello del film sono la fiaba, i luoghi incantati, i palazzi stupefacenti, le stanze, le gole nei boschi magici, gli animali sottomarini, gli scafandri, i draghi e gli indovini. ho immagini nella mente, ho una storia fatata dell'uomo e della donna, negli occhi.
Youth è un film meraviglioso, un capolavoro, più un omaggio all'estetica che alla giovinezza, un film perfetto e ineguagliabile, un racconto del corpo, della sua regalità e decadenza, del suo assoluto dominio e della nostra sottomissione.
"son vecchio e non si sa perchè lo sono". Sorrentino ama pontificare - a volte ci riesce benissimo- mettere frasi e farne dei monumenti, ma la sua forza sta nella musica, nell'immagine, nella costruzione delle sequenze, nella magia del racconto cinematografico. la paura della morte, della vecchiaia sorregge tutto il film e produce la bellezza, la paura fa da guida nell'incanto del corpo, del suo movimento, della musica che lo orienta. il film si compone, improvvisamente e potentemente, in una delle scene finali, quella in cui dopo la costruzione visionaria più estetizzante possibile l'inquadratura si fissa sull'immagine crudele, inaspettata, terrificante, orribile, della morte, di una donna, moglie, fissa e immobile, pietrificata su una finestra, ormai scheletro, ormai putrefatta. è lì che si fa il film, è lì che diventa verità, che ci inchioda sulla croce, è lì che ci rivela tutta la nostra fragilità: un vaso di vetro che va in mille pezzi, si scompone nel peggiore dei modi. eppure abbiamo passato una vita a venerarlo, quel pezzo di vetro. un concerto finale da capogiro, un'orchestra che fluttua su uno sfondo bianco che potrebbe essere l'aldilà, ci consola della nostra miseria, del destino scomposto che ci attende...ma quanta vita prima!!

viva il cinema italiano, viva la nostra vita fragile e mortale.

giovedì 4 giugno 2015

Brassaï, pour l'amour de Paris

bellissima, bellissima, la Parigi di Brassaï.
per chi abita in questa città, non perdetevi questa mostra, a Palazzo Morando.
incantata, Parigi di lusso, uomini in tuba e monocolo a Longchamp, Parigi da chez Maxim's, prostitute di notte, bambini al Luxembourg, donne di classe, donne disfatte, luci di notte e scalinate di giorno, baci e incontri, strade e lampioni, ponti fatati.
incantata.
che il mondo sia meglio fotografato?











Dal 20 marzo al 28 giugno saranno in mostra a Milano, al Palazzo Morando, oltre 260 fotografie di Brassaï, pseudonimo di Gyula Halász, scrittore, cineasta e fotografo ungherese naturalizzato francese, morto nel 1984. La mostra si intitola Pour l’amour de Paris e raccoglie immagini di scorci inconsueti e momenti di vita quotidiana insieme ai monumenti più conosciuti di Parigi e agli artisti più famosi che l’hanno abitata.