bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

sabato 31 dicembre 2016

infine, Soie

era book City.
era novembre,
il 19.
ore 11.
in Triennale, una marea di gente, ragazze, in visibilio per Baricco.
dispiace ci sia ancora questa mania erotica giovanile che trasforma eventi culturali in fenomeni da stadio.
percepisco fastidio.
lo riproverò più tardi nel tentativo di avere una copia firmata, impossibile, veramente impossibile, almeno due ore di coda. ciao.
la vera star è Rebecca Dautremer che illustra Seta, del suddetto autore.
questa illustratrice ha qualcosa di misterioso, non è solare, è ambigua, a tratti spigolosa, nelle foto è spesso molto diversa tra un periodo e l'altro, capelli lunghi, poi corti, poi in carne, poi magra.
strana.
durante la conferenza parla, quasi solo lei, al solito Baricco fa quello che è passato di lì per caso, maglietta bianca e golf a scollo tondo. sembra quasi annoiato. chissà.
dice poche cose, anche lui come molti ormai, cita i figli e i sistemi giovanili di guerriglia familiare.
ad ogni modo mi interessa il risultato di questa strana accoppiata, pare fortemente voluta da due giovani ragazzi che, sulla base di un sogno ovvero che Seta avesse le illustrazioni della Dautremer, hanno fregato prima uno poi l'altra facendo credere prima a uno poi all'altra che lo mandava l'altro/a. si capisce?
a Baricco hanno detto mi manda la Dautremer che è d'accordo.
alla Dautremer hanno detto mi manda Baricco che è d'accordo.
geniali, tecniche di guerriglia familiare applicate all'editoria.
ecco il libro.
l'ho riletto in poche ore, Seta non è propriamente un romanzo, è un lungo singolare racconto.
ho speso più tempo sulle illustrazioni, a volte sorprendenti.
alcune sono riferite alle situazioni e ai personaggi, altre invece sottolinenano aspetto che non hanno a che vedere con la storia ma con alcune citazioni o definizioni di Baricco.
si vede Flaubert che tira le fila di Salammbò, citato nell'introduzione.
si vedono vignette che ritraggono, in diverse riprese, il viaggio di Hervé Joncour in Giappone.
si notano Sant'Agnese e anche le larve dei bachi che producano traiettorie chilometriche di seta.
ma
l'aspetto più sorprendente e magico sono le illustrazioni della Dautremer della pioggia.
un particolare che mi fa pensare che la Dautremer abbia capito.
e forse è ciò che ha fatto decidere a Baricco che questa impresa illustrativa del suo racconto gli andava bene, anzi benissimo.
come dice lui, forse "ha fatto anche meglio di me"-

di Hervé Joncour Baricco scrive: 
Era d'altronde uno di quegli uomini che amano assistere alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi ambizione a viverla. Si sarà notato che essi osservano il loro destino nel modo in cui, i più, sono soliti osservare una giornata di pioggia.

la Dautremer riporta tre illustrazioni sulla pioggia, all'inizio a metà narrazione e alla fine, come si trattasse del filo conduttore della storia, la pioggia come metafora della vita di Hervé Joncour.


un libro prezioso, come la storia delicata che racconta, come le immagini umide, bagnate ed erotiche, che la arricchiscono.

mercoledì 28 dicembre 2016

Soie


Zenobia

Ora dirò della città di Zenobia che ha questo di mirabile: benchè posta su terreno asciutto essa sorge su altissime palafitte, e le case sono di bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi, poste a diversa altezza, su trampoli che si scavalcano l'un l'altro, collegate da scale a pioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi coperti da tettoie a cono, barili di serbatoi d'acqua, girandole marcavento, e ne sporgono carrucole, lenze e gru. Quale bisogno o comandamento o desiderio abbia spinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla loro città, non si ricorda, e perciò non si può dire se esso sia stato soddisfatto dalla città quale noi oggi la vediamo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal primo e ormai indecifrabile disegno. Ma quel che è certo è che chi abita a Zenobia e gli si chiede di descrivere come lui vedrebbe la vita felice, è sempre una città come Zenobia che egli immagina, con le sue palafitte e le sue scale sospese, una Zenobia forse tutta diversa, sventolante di stendardi e di nastri, ma ricavata sempre combinando elementi di quel primo modello. Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non e in queste due specie che ha senso dividere la città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.


sabato 24 dicembre 2016

anima bianca

La neve pose una tovaglia silenziosa su tutto.
Non si sente se non ciò che accade dentro casa.
Mi avvolgo in una coperta e non penso neppure a pensare.
Sento un piacere d'animale e vagamente penso,
e m'addormento senza minor utilità
di tutte le azioni del mondo.

Fernando Pessoa


.

Valdrada

Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d'un lago con case tutte verande una sopra l'altra e vie alte che affacciano sull'acqua i parapetti a balaustra. Cosí il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta. Non esiste o avviene cosa nell'una Valdrada che l'altra Valdrada non ripeta, perché la città fu costruita in modo che ogni suo punto fosse riflesso dal suo specchio, e la Valdrada giú nell'acqua contiene non solo tutte le scanalature e gli sbalzi delle facciate che s'elevano sopra il lago ma anche l'interno delle stanze con i soffitti e i pavimenti, la prospettiva dei corridoi, gli specchi degli armadi. Gli abitanti di Valdrada sanno che tutti i loro atti sono insieme quell'atto e la sua immagine speculare, cui appartiene la speciale dignità delle immagini, e questa loro coscienza vieta di abbandonarsi per un solo istante al caso e all'oblio. Anche quando gli amanti dànno volta ai corpi nudi pelle contro pelle cercando come mettersi per prendere l'uno dall'altro piú piacere, anche quando gli assassini spingono il coltello nelle vene nere del collo e piú sangue grumoso trabocca piú affondano la lama che scivola tra i tendini, non è tanto il loro accoppiarsi o trucidarsi che importa quanto l'accoppiarsi o trucidarsi delle loro immagini limpide e fredde nello specchio. Lo specchio ora accresce il valore alle cose, ora lo nega. Non tutto quel che sembra valere sopra lo specchio resiste se specchiato. Le due città gemelle non sono uguali, perché nulla di ciò che esiste o avviene a Valdrada è simmetrico: a ogni viso e gesto rispondono dallo specchio un viso o gesto inverso punto per punto. Le due Valdrade vivono l'una per l'altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano.

lunedì 19 dicembre 2016

Olivia

Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai , che non si deve mai confondere la città col discorso che la descrive. Eppure tra l' una e l'altro c'è un rapporto. Se ti descrivo Olivia , città ricca di prodotti e guadagni, per significare la sua prosperità non ho altro mezzo che parlare di palazzi di filigrana con cuscini frangiati ai davanzali delle bifore; oltre la grata d'un patio una girandola di zampilli innaffia un prato dove un pavone bianco fa la ruota. Ma da questo discorso tu subito comprendi come Olivia è avvolta in una nuvola di fuliggine e d'unto che s'attacca alle pareti delle case; che nella ressa delle vie i rimorchi in manovra scacciano i pedoni contro i muri. Se devo dirti dell'operosità degli abitanti, parlo delle botteghe dei sellai odorose di cuoio, delle done che ci calano intrecciando tappeti di rafia, dei canali pensili le cui cascate muovono le pale dei mulini: ma l'immagine che queste parole evocano nella tua coscienza illuminata è il gesto che accompagna il mandrino contro i denti della fresa ripetuto da migliaia di mani per migliaia di volte al tempo fissato per i turni di squadra. Se devo spiegarti come lo spirito di Olivia tenda a una vita libera e a una civiltà sopraffina, ti parlerò di dame che navigano cantando la notte su canoe illuminate tra le rive d'un verde estuario; ma è soltanto per ricordarti che nei sobborghi dove sbarcano ogni sera uomini e donne come file di sonnambuli, c'è sempre chi nel buio scoppia a ridere, dà la stura agli scherzi ed ai sarcasmi. 
Questo forse non sai: che per dire d' Olivia non potrei tenere altro discorso. Se ci fosse un' Olivia davvero di bifore e pavoni, di sellai e tessitori di tappeti e canoe e estuari, sarebbe un misero buco nero di mosche, e per descrivertelo dovrei fare ricorso alle metafore della fuliggine, dello stridere di ruote, dei gesti ripetuti, dei sarcasmi. La menzogna non è nel discorso, è nelle cose.

sabato 17 dicembre 2016

Argia

Ciò che fa Argia diversa dalle altre città è che invece d'aria ha terra. Le vie sono completamente interrate, le stanze sono piene d'argilla fino al soffitto, sulle scale si posa un'altra scala in negativo, sopra i tetti delle case gravano strati di terreno roccioso come cieli con le nuvole. Se gli abitanti possono girare per la città allargando i cunicoli dei vermi e le fessure in cui s'insinuano le radici, non lo sappiamo: l'umidità sfascia i corpi e lascia loro poche forze; conviene che restino fermi e distesi, tanto è buio. Di Argia, da qua sopra, non si vede nulla; c'è chi dice: "E' là sotto"e non resta che crederci; i luoghi sono deserti. Di notte, accostando l'orecchio al suolo, alle volte si sente una porta che sbatte.

venerdì 16 dicembre 2016

Despina

In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differentea chi viene da terra e a chi dal mare.Il cammelliere che vede spuntare all'orizzonte dell'altipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbattere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli,pensa a una nave, sa che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti via dal deserto, un veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancora slegate, o un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti,alle merci d'oltremare che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di diversa bandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pian terreno, ognuna con una donna che si pettina. Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d'una gobba di cammello, d'una sella ricamata di frange luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondolando, sa che è una città ma la pensa come un cammello dal cui basto pendono otri e bisacce di frutta candita, vino di datteri, foglie di tabacco, e già si vede in testa a una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi d'acqua dolce all'ombra seghettata delle palme, verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili di piastrelle su cui ballano scalze le danzatrici, e muovono le braccia un po' del velo e un po' fuori dal velo.
Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti.

giovedì 15 dicembre 2016

Madonna della Misericordia

che bello stare sotto quel mantello, bello sarebbe.
grande madre che tutto proteggi.
senza troppa enfasi, solo così, maestosa e seria.
sguardo basso, non vuoi certo darti arie per questo, sei già così grandiosa e solenne di tuo, non hai bisogno d'altro. non guardi l'altissimo, guardi noi.
quanto oro ancora, il rinascimento bussa alle porte ma è ancora tempo di medio evo e di evocazioni bizantine, di immensità ieratica dell'altissimo. ma tu mi rassicuri, con quei capelli biondi che si intravedono attraverso il velo sottile e quel ginocchio lievemente piegato che muove la tua veste, sei quasi umana e allora mi metto lì anch'io, in semicerchio, prima dell'anziana rugosa nel gruppo delle donne in età crescente, prima della grande decadenza.
sarà meno doloroso sentire avvicinarsi la fine, me ne farò una ragione, non sarei quello che sono se non sapessi di dover morire.
forte della tua misericordia, madonna consolatoria che ispiri devozione, darò senso alle mie giornate.


lunedì 12 dicembre 2016

Moriana

Guadato il fiume, valicato il passo, l'uomo si trova di fronte tutt'a un tratto la città di Moriana, con le porte d'alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l'uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio. Da una parte all'altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d'immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.

sabato 10 dicembre 2016

Armilla

Se Armilla sia così perché incompiuta o perché demolita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio, io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffitti, né pavimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell'acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppopieni. Contro il cielo biancheggia qualche lavabo o vasca da bagno o altra maiolica, come frutti tardivi rimasti appesi ai rami. Si direbbe che gli idraulici abbiano compiuto il loro lavoro e se ne siano andati prima dell'arrivo dei muratori; oppure che i loro impianti, indistruttibili, abbiano resistito a una catastrofe, terremoto o corrosione di termiti. 
Abbandonata prima o dopo essere stata abitata, Armilla non può dirsi deserta. A qualsiasi ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scorgere una o molte giovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogiolano nelle vasche da bagno, che si inarcano sotto le docce sospese sul vuoto, che fanno abluzioni, o che s'asciugano, o che si profumano, o che si pettinano i lunghi capelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d'acqua sventagliati dalle docce, i getti dei rubinetti, gli zampilli, gli schizzi, la schiuma delle spugne.
La spiegazione cui sono arrivato è questa: dei corsi d'acqua incanalati nelle tubature d'Armilla sono rimaste padrone ninfe e naiadi. Abituate a risalire le vene sotterranee, è stato loro facile inoltrarsi nel nuovo regno acquatico, sgorgare da fonti moltiplicate, trovare nuovi specchi, nuovi giochi, nuovi modi di godere dell'acqua. Può darsi che la loro invasione abbia scacciato gli uomini, o può darsi che Armilla sia stata costruita dagli uomini come un dono votivo per ingraziarsi le ninfe offese per la manomissione delle acque. Comunque, adesso sembrano contente, queste donnine: al mattino si sentono cantare.

la mia vita da zucchina

certo si potrebbe pensare che un film d'animazione sia adatto solo ai bambini ma questo tutto sommato lo è anche poco. una certa crudezza che non risparmia e che non compiace non è proprio quel che ci si aspetta da un cartone animato. sembrano di pongo ma sono molto reali, i bambini dell'istituto minorile. certo, quegli occhioni che quando piangono si allagano come all'apertura di una diga sono piuttosto insoliti, ma quel parlare di sesso tipica dei bambini traumatizzati che vengono a contatto con ciò che nemmeno dovrebbero sapere in età precoce è diretto e senza scampo, è come di fatto è. la tenerezza emerge, così come anche l'amarezza della separazione. la vita è separazione, a volte i bambini lo scoprono molto prima di tanti adulti che non si separano mai. il film ha qualcosa di speciale, alcuni adulti fanno schifo, altri sono encomiabili, alcuni si sporcano la bocca e l'anima, altri si prodigano e capiscono, capiscono tutto e sanno coniugare l'ascolto alla regola, indicare che anche la cruda realtà può trovare una posizione nell'armonia.
occhioni così non se ne erano mai visti (incredibile lo sguardo incredulo e mancante di tutti davanti a una madre che protegge il proprio bambino dopo una caduta sugli sci), ma nemmeno tanta poetica inesorabile verità.


La mia vita da zucchina
Un film di Claude Barras.

giovedì 8 dicembre 2016

Venezia

– Ti è mai accaduto di vedere una città che assomigli a questa? – chiedeva Kublai a Marco Polo sporgendo la mano inanellata fuori dal baldacchino di seta del bucintoro imperiale, a indicare i ponti che s’incurvano sui canali, i palazzi principeschi le cui soglie di marmo s’immergono nell’acqua, l’andirivieni di battelli leggeri che volteggiano a zigzag spinti da lunghi remi, le chiatte che scaricano ce- ste di ortaggi sulle piazze dei mercati, i balconi, le altane, le cupole, i campanili, i giardini delle isole che verdeggiano nel grigio della laguna. 
L’imperatore, accompagnato dal suo dignitario forestiero, visitava Quinsai, antica capitale di spodestate dinastie, ultima perla incastonata nella corona del Gran Kan.
– No, sire, – rispose Marco,– mai avrei immaginato che potesse esistere una città simile a questa. L’imperatore cercò di scrutarlo negli occhi. 
Lo straniero abbassò lo sguardo. Kublai restò silenzioso per tutto il giorno. 
Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D’abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d’accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell’Augusto Sonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. 
– Dimmi ancora un’altra città,– insisteva. 
 – ...Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... – riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. 
Era l’alba quando disse: – Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. 
– Ne resta una di cui non parli mai. 
Marco Polo chinò il capo. 
– Venezia, – disse il Kan. 
Marco sorrise. 
– E di che altro credevi che ti parlassi? 
 L’imperatore non batté ciglio. 
– Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome. 
E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. 
 – Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia. 
– Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. 
– Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia cosí com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei. 
L’acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell’antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano. 
– Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, – disse Polo. – Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta poco a poco.

Soie


lunedì 5 dicembre 2016

Basquiat e il tempo di esistere

mi sono mossa un po' dubbiosa, la domanda è ovviamente se queste composizioni valgano il merito di arte, di una mostra e di tanta fama.
divorato dal successo, e ad esso inadeguato, è morto a 27 anni, annegato nell'eroina nelle sue vene.
il suo godimento, famelico e istantaneo come detta la legge imperativa del nostro tempo, l'ha portato fino al fondo del godere, fino alla morte seppure eccentrico, esaltato, arricchito a riscatto di una miseria infantile umiliante.
componeva con la tv accesa, soprattutto i cartoons erano il suo sottofondo.
il suo prodotto sembra dettato dall'istante, dall'ispirazione via cavo, simboli di morte e pezzi anatomici (pare ispirati a un compendio di anatomia che la madre gli regalò durante una degenza in ospedale, a 8 anni, dopo un grave incidente), parole, cancellature (che esaltano quel che si cancella), mostri, dentature sataniche, animali mortiferi, prezzature in dollaroni. ossi di cane, scheletri a pezzi, anche duffy duck.
diciamolo, un inferno.
un'infanzia derelitta di abbandono e miseria, il destino da maledetto vissuto, incarnato, interpretato senza scampo, ma sullo sfondo di un infantilismo grafico disarmante. a me sembra il prodotto di un inconscio imbizzarrito, e lo ringrazio della sua tragica testimonianza.

graffitismo o arte, spray e spennellate pesanti, mi da l'idea di una breccia nella mente che trova il tempo necessario a mettersi su tela, quel tempo che basta, uno iato improvviso da cui fuoriesce una specie di tratto vomitato, uno sgorbio pieno di hate e hurry, rabbia e orrore, pupazzi infantili ma satanici, colore e tanto tantissimo nero.
personalmente riconosco in lui l'andamento della tragedia greca e un talento misterioso fuso a una potenza distruttrice inarrestabile. anche in lui, come nel leggere una poesia, sono attratta da un verso pittorico, in ogni opera esposta ho trovato qualcosa di geniale, un'espressione unica e singolare, qualcosa di irripetibile. una furia espressiva che non sarebbe potuta, comunque, resistere ancora a lungo, qualcosa legato al suo tempo, al tempo logico e al tempo di un rapido fulmineo e transitorio esistere.

domenica 4 dicembre 2016

un'altra pagina del vento

Leggeri ormai sono i sogni,
da tutti amato
con essi io sto nel mio paese,
mi sento goloso di zucchero;
al di là della piazza e della salvia rossa
si ripara la pioggia
si sciolgono i rumori
ed il ridevole cordoglio
per cui temesti con tanta fantasia
questo errore del giorno
e il suo nero d'innocuo serpente

Del mio ritorno scintillano i vetri
ed i pomi di casa mia,
le colline sono per prime
al traguardo madido dei cieli,
tutta l'acqua d'oro è nel secchio
tutta la sabbia nel cortile
e fanno rime con le colline

Di porta in porta si grida all'amore
nella dolce devastazione
e il sole limpido sta chino
su un'altra pagina del vento.

faccio così, ormai, quando leggo una poesia.
leggo, se capisco bene, altrimenti pazienza.
perchè?
perchè quello che cerco sono le parole.
me ne potrebbe anche bastare una.
una da sola.
o una frase.
c'è qualcosa che mi folgora, in una poesia, è uno squarcio
è un attimo
è un frammento di linguaggio che mi apre una porta della mente
un'altra pagina del vento è un capolavoro, un monumento poetico in 5 parole, che basta a tutto
nella vita potrebbe non servire altro
è un'apertura nel reale che spalanca orizzonti di immaginario
è come una porta nel tempo, che mi fa passare altrove
è un altrove.

questa poesia è piena zeppa ridondante di segni di immenso
a ognuno la sua preferita.

Andrea Zanzotto
Nel mio paese
da "Dietro il paesaggio".

venerdì 2 dicembre 2016

Anastasia

Di capo a tre giornate, andando verso mezzodì, l'uomo s' incontra ad Anastasia, città bagnata da canali concentrici e sorvolata da aquiloni. Dovrei ora enumerare le merci che qui si comprano con vantaggio: agata onice crisopazio e altre varietà di calcedonio; lodare la carne del fagiano dorato che qui si cucina sulla fiamma di legno di ciliegio stagionato e si cosparge con molto origano; dire delle donne che ho visto fare il bagno nella vasca d'un giardino e che talvolta invitano - si racconta - il passeggero a spogliarsi con loro e a rincorrerle nell'acqua. Ma con queste notizie non ti direi la vera essenza della città: perché mentre la descrizione di Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d'agate, onici , crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo.

giovedì 1 dicembre 2016

Soie

Zoe

L'uomo che viaggia e non conosce ancora la città che lo aspetta lungo la strada, si domanda come sarà la reggia, la caserma, il mulino, il teatro, il bazar. In ogni città dell'impero ogni edificio è differente e disposto in un diverso ordine: ma appena il forestiero arriva alla città sconosciuta e getta lo sguardo in mezzo a quella pigna di pagode e abbaini e fienili, seguendo il ghirigoro di canali orti immondezzai, subito distingue quali sono i palazzi dei principi, quali i templi dei grandi sacerdoti, la locanda, la prigione, la suburra. Così - dice qualcuno - si conferma l'ipotesi che ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la riempiono. Non così a Zoe. In ogni luogo di questa città si potrebbe volta a volta dormire, fabbricare arnesi, cucinare, accumulare monete d'oro, svestirsi, regnare, vendere, interrogare oracoli. Qualsiasi tetto a piramide potrebbe coprire tanto il lazzaretto dei lebbrosi quanto le terme delle odalische. Il viaggiatore gira gira e non ha che dubbi: non riuscendo a distinguere i punti della città, anche i punti che egli tiene distinti nella mente gli si mescolano. Ne inferisce questo: se l'esistenza in tutti i suoi momenti è tutta se stessa, la città di Zoe è il luogo dell'esistenza indivisibile. Ma perché allora la città? Quale linea separa il dentro dal fuori, il rombo delle ruote dall'ululo dei lupi?

Alba

Alba si muove elegante e leggiadra, ebbra di profumi e promesse, sul piano superiore dell'atmosfera l'aria conferisce a palazzi, insegne e negozi la consistenza del sogno e della liberazione, confonde l'olfatto con aromi di cioccolato e delizie al tartufo, inganna con immagini artefatte e false ma per chi si muove nella porzione sottostante, negli anfratti, negli angoli, nelle cantine, negli scantinati, nelle cucine, a contatto con calori e manovre, l'aria si fa irrespirabile e un altro volto si presenta, cupo e beffardo, traditore e puzzolente, gli scarti abbondano e la verità affiora. i cittadini di alba possono vivere nell'illusione del bello ben sapendo che non somiglia alla vita oppure tornare a contatto con il reale, scorticandosi la pelle e con le mani sporche di unto.

era surreale la domanda del carabiniere: "che macchina fotografica è la sua? che modello è? è una fotografa professionista?".
uno squarcio, un varco nella palude nebbiosa nel quale ero immersa.
il passaggio dal bello al brutto, dalla pace alla guerra, dal sereno all'alluvione, è un attimo.
un bel fine settimana, le Langhe sono un paese delle meraviglie, tutto è godimento, tra bellezza naturale, culturale e cibo, c'è da perdere la testa.
inoltre eravamo partiti convinti di morire divorati da una crepa del sottosuolo nel mezzo di una tempesta di acqua o risucchiati dell'esondazione del Tanaro, e invece, guarda, uno dei più bei fine settimana degli ultimi tempi, sole cristallino e caldo, fino a 15 gradi, che fortuna sfacciata.
inebriati dal profumo del tartufo alla Fiera di Alba, mi ritrovo incredula a ravanare dentro il mio zaino, una, due, tre volte, volevo comprare, più modestamente, un assaggio di formaggio ubriaco al barolo.
quello che penso in queste occasioni è che vengo punita, anche se non so per che cosa. vaglio rapidamente la mia vita degli ultimi tempi e mi dico: cosa ho fatto di male? è un automatismo della mia mente, non posso farci nulla, mi rubano il portafoglio nel primo week end di riposo che mi prendo da una vita, non ho mai più fatto un men che minimo viaggio da anni, la vita non me lo permette più travolti da questa crisi globale che toglie il lavoro, e, in un attimo, il destino mi si rivolta contro.
è colpa mia, pago degli errori, dio mi punisce.
di cosa?
un retaggio vigliacco bastardo della mia educazione?
cinque anni fa da Istanbul rientro di corsa a Milano, dopo solo un giorno di permanenza, per un polso rotto, non il mio, ma non fa differenza.
stessa percezione, di un destino beffardo che mi piega quando sono felice.
e il carabiniere, mentre vago nelle lande desolate della mia mente, in un mondo sottosopra abitato da mostri, mi ripesca con una domanda assurda.
l'altro, il capo, mi dice che ho l'aria sveglia, da cittadina, lei è di Milano!!, com'è possibile che sia così sprovveduta? sembrava certo che si trattasse di un contrattempo, certo anche che avrebbero ritrovato il mio oggetto prezioso, come altre volte. a ottobre, sempre alla fiera del tartufo, è stata una carneficina di portafogli. li hanno ritrovati abbandonati e svuotati, a bizzeffe. 
è stato così, ma tant'è. il destino si è divertito a farmi male, ci sto male ancora adesso, un'amarezza furibonda, una nausea sotterranea, un'idea  di inutilità e di sopraffazione mi mangiano le giornate.
la mostra di Balla alla fondazione Ferrero (si cammina respirando cioccolato) è stata bella, davvero bella, ma navigavo nella melma della mia nevrosi.
ci sono quadri di grande intensità, a testimonianza di un impegno sociale e di uno sguardo umano e fraterno, e, come Boccioni, Balla parte dal figurativo, si esalta con la rivoluzione del futurismo che scardina parole e tratti, e torna alle figure della tradizione.
anche quello, il futurismo, è stato uno squarcio, veloce e pazzo, pazzo com'è il mondo.




martedì 29 novembre 2016

Ottavia

Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città - ragnatela. C'è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c'è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s'intravede più in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno.Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d'acqua, becchi del gas,girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi,teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge.

Le città sottili.

sabato 26 novembre 2016

Isaura

Isaura, città dai mille pozzi, si presume sorga sopra un profondo lago sotterraneo. Dappertutto dove gli abitanti scavando nella terra lunghi buchi verticali sono riusciti a tirar su dell'acqua, fin là e non oltre si è estesa la città: il suo perimetro verdeggiante ripete quello delle rive buie del lago sepolto, un paesaggio invisibile condiziona quello visibile, tutto ciò che si muove al sole è spinto dall'onda che batte chiusa sotto il cielo calcareo della roccia. Di conseguenza religioni di due specie si danno a Isaura. Gli dei della città, secondo alcuni, abitano nella profondità, nel lago nero che nutre le vene sotterranee. Secondo altri gli dei abitano nei secchi che risalgono appesi alla fune quando appaiono fuori della vera dei pozzi, nelle carrucole che girano, negli argani delle norie, nelle leve delle pompe, nelle pale dei mulini a vento che tirano su l'acqua delle trivellazioni, nei castelli di traliccio che reggono l'avvitarsi delle sonde, nei serbatoi pensili sopra i tetti in cima a trampoli, negli archi sottili degli acquedotti, in tutte le colonne d'acqua, i tubi verticali, i saliscendi, i troppopieni, su fino alle girandole che sormontano le aeree impalcature d'Isaura, città che si muove tutta verso l'alto.

venerdì 25 novembre 2016

Fedora

Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello d'un'altra Fedora . Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per 1'altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro. Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsi nella peschiera delle meduse che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato), di percorrere dall'alto del baldacchino il viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spirale del minareto a chiocciola (che non trovo più la base su cui sorgere). Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L'una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.


giovedì 24 novembre 2016

Isidora

All'uomo che cavalca lungamente per terreni selvatici viene desiderio d'una città. Finalmente giunge a Isidora, città dove i palazzi hanno scale a chiocciola incrostate di chiocciole marine, dove si fabbricano a regola d'arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero è incerto tra due donne ne incontra sempre una terza, dove le lotte dei galli degenerano in risse sanguinose tra gli scommettitori. A tutte queste cose egli pensava quando desiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c'è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi.

io e Filippo

nel giro di poche settimane l'ho incontrato ovunque.
è chiaro che lui è molto interessato.
è chiaro, è il suo mestiere.
ma è altrettanto chiaro che sono molto interessata pure io.
ho perfino pensato di essere spesso nel posto giusto e al momento giusto.
visto che c'è anche lui.
insomma se c'è lui è una roba figa.
anche ieri sera, per Edipo Re e Edipo a  Colono al Franco Parenti, era lì.
che abbia una moglie?
sembrava.
e anche a BookCity all'incontro con Bailly sulla Frase Urbana.
e, sempre a BookCity, alla Triennale, per la giornata sul fotogiornalismo e l'inaugurazione della mostra FotoStorie legata a La Lettura.
perfino al Danae Festival per uno spettacolo di danza e luce, proprio niente male, all'Out Off, New Horizon.
naturalmente al MiTo per il concerto inaugurale alla Scala, memorabile e bellissimo, seduto nel palco centrale.
ovvio.
in quel caso c'era anche Sala ma non voglio montarmi la testa, seppure lo abbia incontrato ancora, il sindaco, a JazzMi in occasione di un gradevolissimo concerto su Chet Baker a Casa Verdi.
porta un loden verde e, spesso, le Clarks.
che dire.
secondo Elisabetta Sgarbi è il miglior assessore alla cultura che possa vantare Milano da molti anni a questa parte.
insomma sono molto dentro al giro e prima o poi mi presento.
ave Filippo Del Corno.

lunedì 21 novembre 2016

Nidaa Badwan, 100 giorni di solitudine

sono a BookCity e alla Sala Buzzati del Corriere.
è domenica mattina, le 11.
sono venuta per sentirla parlare, la sua storia mi aveva molto incuriosita quando la lessi sul corriere un anno fa.
parla questa lingua pazzesca che è l'arabo, mioddio com'è dura, è un muro di vocali aspirate e aspre, a volte mi domando se ci sono delle parole dietro a quegli spigoli.
invece lei sorride e ride, è vestita di nero, si adatta al lugubre novembre, dice anche di essere stata malata a lungo a causa del clima italiano, invece colorata, seppure sola, era molto più bella.
di fatto bella è.
è un'artista.
le sue foto, di narrazione della sua scelta di sottrazione dal mondo, sono incredibili, caravaggesche a tratti ma, devo dire, in certe inquadrature, mi ricorda perfino Vermeer.
luce e colore, ombra e armonia.
oggetti semplici, macchina da scrivere, vestiti arrotolati, cipolle e uova, scale a pioli.
e lei.
una prigione di libertà, un atto politico anche se all'inizio dice: la politica non mi riguarda.
scansa, o forse non lo sa, la riguarda eccome, il suo è stato un atto politico, Ulrike Meinhof ce lo diceva: "il privato è politica, l'educazione dei figli è politica, le relazioni umane sono politica perchè mostrano se l'individuo è libero o oppresso, se può agire in modo consapevole o no, se può agire liberamente o no".
qualcuno, semplicemente stupido, in sala mette in dubbio la sua veridicità: ma come, a Gaza le ragazze sono libere e felici. qualcuno, ignorante, alza la voce e aggredisce. vuoi vedere che loro sanno, noi sappiamo, e chi invece è nato e cresciuto a Gaza non sa? arroganza senza limiti, lei per un attimo si confonde, poi riprende, ha la sua narrazione da fare, oltre la stupidità umana. qualcuno, il giornalista inviato del Corriere in Israele, ricorda a questi geni che nei loro begli alberghi ci sono i privilegi, che il mondo visto dalla reception di lusso non è come quello delle strade della striscia di terra più sanguinaria e sanguinante della storia, turismo imbecille pieno di boria, di soldi, di supponenza.
Nidaa sa, sa quel che è lei, e le sue foto sono una testimonianza preziosa di una solitudine coraggiosa.





Gaza, la stanza chiusa
Gli autoritratti di Nidaa Badwan
di Davide Frattini

Il 19 novembre del 2013 Nidaa Badwan ha chiuso la porta della camera e non è più uscita per quattordici mesi. Il giorno prima i miliziani di Hamas l’avevano fermata mentre aiutava un gruppo di giovani a preparare una mostra. 
«Perché porti quei pantaloni larghi? Devi indossare il velo non quello cappello colorato di lana. Sei strana, chi sei?». 
«Un’artista». 
«Che vuol dire? Che cos’è un’artista e soprattutto che cos’è un’artista donna?». 
La stanza dell’isolamento, della prigionia autoimposta, è piccola nove metri quadrati, una sola finestra, una lampadina appesa ai fili elettrici. Le pareti sono colorate: adesso una è blu-verde oceano, quella di fronte coperta con un arcobaleno di cartoni per le uova. Cambiano come cambia l’ispirazione di Nidaa e soprattutto la luce naturale. «A volte devo aspettare ore per trovare i contrasti che sto immaginando», racconta. A quel punto lo sfondo è già allestito: strumenti musicali (un oud, una chitarra rotta), una vecchia macchina per scrivere, una cucitrice, gomitoli di lana, una scala di legno da imbianchino. Nidaa indossa il costume, risistema l’inquadratura e scatta: autoritratti dove il volto quasi non si riconosce, composizioni che a Marion Slitine, specialista francese di arte contemporanea palestinese, ricordano «le nature morte di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, i chiaroscuri di Caravaggio, le scene teatralizzate di Jacques-Louis David». Per Nidaa sono le uniche scene che vuole vedere. Non ha lasciato la stanza neppure durante i cinquanta giorni di guerra tra Israele e Hamas l’estate scorsa. La famiglia è scappata da questo villaggio nella parte centrale della Striscia e si è rifugiata verso la città di Gaza. La ragazza, 28 anni, è rimasta sotto i bombardamenti. L’opera realizzata in quelle settimane la mostra mentre si rovescia in testa un secchio pieno d’acqua e vernice rossa, un macabro «ice bucket challenge» per raccontare il sangue attorno a sé. «Questo spazio — dice mentre accarezza la macchina fotografica — mi ha dato la libertà che fuori non potevo trovare. Libertà dal grigiore e dalla bruttezza di Gaza, dall’assedio israeliano, dalle imposizioni degli uomini di Hamas». La prima foto che ha scattato sembra rivolta a loro: imbraccia l’oud e impone con il dito di piantarla a un gallo combattivo. La seconda ringrazia la madre che con il padre, i due fratelli, le tre sorelle non l’ha mai abbandonata: «Nei primi mesi di autoreclusione ho pensato di suicidarmi. La mamma ha cominciato a lasciare davanti alla porta, oltre al cibo, piccoli compiti: i pomodori da tagliare, un’insalata da preparare». Nell’inquadratura sbuccia le cipolle, piange. Alla fine di gennaio gli amici l’hanno convinta a uscire. Avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione della sua mostra «Cento giorni di solitudine», portata a Gerusalemme Est e in Cisgiordania dal Centro culturale francese. Gli israeliani non le hanno concesso il permesso di lasciare la Striscia, gli organizzatori hanno cercato di allestire un collegamento via Skype dalla sede a Gaza. Nidaa — nata ad Abu Dhabi dov’erano emigrati i genitori, tornati a Deir al-Balah nel 1996 — ha accettato: «È saltata l’elettricità, niente evento. Lo stesso problema a casa. Così uso la luce naturale: è più affidabile e non posso interrompere la relazione tra il sole e la mia stanza». Da allora ha lasciato la camera altre due volte. Quando è per strada adesso tira su il velo appena qualcuno si avvicina, porta gli occhiali scuri e tiene una mano davanti agli occhi: «Voglio guardarmi intorno il meno possibile per non rovinare le visioni che mi aspettano nella mia stanza».
(http://27esimaora.corriere.it/articolo/gaza-la-stanza-chiusagli-autoritratti-di-nidaa-badwan/)

giovedì 17 novembre 2016

Erano state mangiate dal corpo dei mariti, dei padri, dei fratelli, a cui finivano sempre più per assomigliare

Di passaggio in passaggio, senza rendermene conto, mi sentii prima sospinta verso un’adesione imbronciata, poi verso una rinnovata ammirazione per lei. Ma sì, sarebbe stato bello se si fosse rimessa a studiare. Tornare ai tempi delle elementari, quando lei era sempre la prima e io sempre la seconda. Ridare senso allo studio perché lei sapeva dargli senso. Tener dietro alla sua ombra e perciò sentirmi forte e al sicuro. Sì sì sì. Ricominciare. 
A un certo punto, lungo la strada verso casa, mi tornò in mente l’ibrido di sofferenza, spavento, disgusto che le avevo visto in faccia. Perché. Ripensai al corpo in disordine della maestra, a quello sgovernato di Melina. 
Senza una ragione evidente, cominciai a guardare con attenzione le donne lungo lo stradone. All’improvviso mi sembrò di essere vissuta con una sorta di limitazione dello sguardo: come se fossi in grado di mettere a fuoco solo noi ragazze, Ada, Gigliola, Carmela, Marisa, Pinuccia, Lila, me stessa, le mie compagne di scuola, e non avessi mai fatto veramente caso al corpo di Melina, a quello di Giuseppina Peluso, a quello di Nunzia Cerullo, a quello di Maria Carracci. L’unico organismo di donna che avevo studiato con crescente preoccupazione era quello claudicante di mia madre, e solo da quell’immagine mi ero sentita incalzata, minacciata, temevo tuttora che essa s’imponesse di colpo alla mia. In quell’occasione, invece, vidi nitidamente le madri di famiglia del rione vecchio. 
Erano nervose, erano acquiescenti. Tacevano a labbra strette e spalle curve o urlavano insulti terribili ai figli che le tormentavano. Si trascinavano magrissime, con gli occhi e le guance infossate, o con sederi larghi, caviglie gonfie, petti pesanti, le borse della spesa, i bambini piccoli che le tenevano per le gonne e che volevano essere presi in braccio. E, Dio santo, avevano dieci, al massimo vent’anni più di me. Tuttavia parevano aver perso i connotati femminili a cui noi ragazze tenevamo tanto e che evidenziavamo con gli abiti, col trucco. Erano state mangiate dal corpo dei mariti, dei padri, dei fratelli, a cui finivano sempre più per assomigliare, o per le fatiche o per l’arrivo della vecchiaia, della malattia. Quando cominciava quella trasformazione? Con il lavoro domestico? Con le gravidanze? Con le mazzate? Lila si sarebbe deformata come Nunzia? Dal suo viso delicato sarebbe schizzato fuori Fernando, la sua andatura elegante si sarebbe mutata in quella a gambe larghe, braccia scostate dal busto, di Rino? E anche il mio corpo, un giorno, si sarebbe rovinato lasciando emergere non solo quello di mia madre ma quello di mio padre? E tutto ciò che stavo imparando a scuola si sarebbe disciolto, il rione sarebbe tornato a prevalere, le cadenze, i modi, tutto si sarebbe confuso in una mota nerastra, Anassimandro e mio padre, Folgóre e don Achille, le valenze e gli stagni, gli aoristi, Esiodo e la sboccatezza proterva dei Solara, come del resto era accaduto nei millenni alla città, sempre più scomposta, sempre più degradata? 
Mi convinsi di colpo che senza accorgermene avevo intercettato i sentimenti di Lila e li stavo sommando ai miei. 
Perciò aveva quell’espressione, quel malumore? S’era accarezzata la gamba, il fianco, come una sorta di addio? 
Si era tastata, parlando, come se sentisse i confini del suo corpo assediati da Melina, da Giuseppina, e ne fosse spaventata, disgustata? Aveva cercato i nostri amici per bisogno di reagire? 
Mi ricordai il suo sguardo, da piccola, sulla Oliviero caduta dalla cattedra come una pupazza rotta. Mi ricordai il suo sguardo su Melina che mangiava lungo lo stradone il sapone molle che aveva appena comprato. Mi ricordai di Lila quando raccontava a noi bambine l’omicidio, il sangue lungo la pentola di rame, e sosteneva che l’assassino di don Achille non era un uomo ma una donna, come se avesse sentito e visto, nel racconto che ci faceva, la forma di un corpo femminile spezzarsi per necessità d’odio, per urgenza di vendetta o di giustizia, e perdere la sua costituzione.

siamo nella Storia del nuovo congnome, siamo a casa di Elena Ferrante.
e ancora mi sento spiazzata da questo stralcio di letteratura.
sottolinea pensieri sempre presenti sul corpo delle donne, lo declina in modo straordinario.
siamo il corpo delle nostre madri, forse di tutte le madri del mondo, siamo un corpo che testimonia la storia delle nostre antenate, oppure siamo capaci di diversificarci, di uscire da quella traccia e fare di noi un corpo nuovo? fuori dai solchi della miseria e del degrado, emancipate dalla cultura e dalla fatica dello studio, verso una nuova era?
la storia del cognome sarà storia antica? perderemo le tracce dei nostri padri, gli aberi genealogici si sfalderanno, non troveremo più i significanti della nostra discendenza ora che i cognomi dei padri si perderanno nelle nuove normative giuridiche che prevede anche l'acquisizione del cognome della madre? il cognome del padre dobbiamo viverlo solo come un'imposizione imperialista e maschilista del sesso dominatore e usurpatore o contiene la storia dei nostri significanti familiari? 
certo la storia del nostro corpo è segnata da quello delle nostre madri. è in quel seno, in quella piega, in quella ruga, in quel ventre, in quel vestito, in quello stile, in quel modo di camminare e di parlare che siamo cresciute e abbiamo imparato, o no, il valore della femminilità.
chi sono?
che donna sono?
come si fa a essere una donna?
sembrano domande scontate.
vi assicuro.
non lo sono affatto.
le donne si perdono dietro al proprio corpo e alla sua immagine, si perdono in abissi di dolore e di esistenze perdute mai vissute vituperate smarginate sfregiate, non dagli acidi o dagli abusi degli uomini, soprattutto a causa degli sfregi che si sono inflitte, cicatrici di ferite mai ricomposte.

domenica 13 novembre 2016

più o meno, il jazz è sempre stato come quel tipo d'uomo che non vorresti che tua figlia frequentasse



se le immagini di Venezia sfuocate e annullate non mi avevano convinto, quelle sul Jazz mi hanno entusiasmata.
al Base di Milano, solo fino al 16 novembre, sono esposte le foto di Roberto Polillo.
sono strepitose e narrano la storia, davvero entusiasmante, del jazz.
è esattamente l'immagine del jazz che mi porto dentro, certamente condizionata senza saperlo da queste immagini prima di dare loro un nome, ma anche per una corrispondenza tra l'atmosfera che percepisco ascoltandolo e quel che si imprime su queste pellicole.
ombre, fumo, buio, squarci di luce e, soprattutto, atmosfera di complicità e godimento.
come un'esperienza singolare ma condivisa, ognuno speciale ma tutti in ascolto l'uno dell'altro.



Al Base di Milano va in scena il Jazz: la mostra “Swing, Bop & Free! Il Jazz degli anni '60” presenta i ritratti dei musicisti che hanno scritto la storia dell’età d’oro del jazz, Louis Armstrong, Duke Ellington, Miles Davis, Charles Mingus, John Coltrane - giusto per citare qualche nome - immortalati da Roberto Polillo nell’intimità di un caffè, sul palco durante le prove e i concerti, al loro arrivo negli aeroporti o a passeggio per le città. Un racconto in 100 fotografie, scattate tra il 1962 e il 1974, che il fotografo milanese dedica al padre Arrigo, direttore sin dal 1965 della rivista Musica Jazz, tra i più autorevoli critici musicali e organizzatore di importanti concerti jazz in Italia, ma anche in Svizzera e sulla Costa Azzurra. La mostra, realizzata dal Teatro dell'Arte e Ponderosa Music & Art in collaborazione con Blue Note Milano e Base nell’ambito del JAZZMI, il Festival del Jazz che invaderà Milano nei primi giorni di novembre con un ricco calendario di appuntamenti, viene inaugurata il 4 novembre alle ore 19 in via Bergognone 34. Per tutte le informazioni www.jazzmi.it.

venerdì 11 novembre 2016

tutti quanti, tutti quanti, tutti quanti voglion fare il jazz

(gli aristogatti)
certo, anche io.
procedo bene, ma vedo che i prossimi concerti sono ormai in esaurimento, mi limiterò ai concerti minori.
d'altronde i costi non sono proprio da ridere, rispetto alle occasioni di MiTo qui i concerti non vanno in promozione.
ad oggi JazzMi mi ha dato due prove eccellenti ed una dubbia. e una incomprensibile.
Istanbul Sessions al Santeria Social Club mi ha vista ultima in classifica in quanto ad età media dei partecipanti ma tra i primi in quanto a perplessità sul genere, giusto un po' di Istanbul ma molto poco di jazz, ammesso che basti un sax per dire jazz. i ragazzi non la finivano più di suonare ma l'ultima mezz'ora era francamente un boato più rockettaro che altro con una batteria fuori controllo.
splendido, sabato, il trio alla Sala Verdi con le musiche di Chet Baker.
splendido il quintetto di Cazzola al teatro dell'Arte questa mattina con un omaggio alla divina, Billie Holiday.
grande bellezza e incanto, il jazz è raffinato ed elegante, lo penso in bianco e nero come nelle foto di Polillo al Base, ed è un fine afflato di intesa tra i suoi partecipanti, sembra di spiare un'intesa privata ed eccitante, una complicità senza parole.
ieri sera mi sono spinta, spendendo una cifra non indifferente per poi stare in piedi, al teatro della Triennale per un concerto intitolato Junun, un progetto multietinco di Jonny Greenwood dei Radiohead,  che coinvolge il regista Paul Thomas Anderson, il musicista israeliano Shye Ben Tzur e il gruppo indiano dei Rajasthan Express, il tutto preceduto dal documentario di ben 50 minuti (non esplicitato dal sito di jazzmi infatti la presentazione ha creato brusio e sorpresa in sala) del suddetto regista. tutto molto bello, musica basata su ritmi incalzanti, un suonare insieme, quel senso rassicurante di India che cura l'anima, turbanti in testa, l'israeliano ispirato che conduce il gruppo, islam e misticismo, musica globale...ma il jazz?



mercoledì 9 novembre 2016

prosit

come quando ho letto della vittoria dei leave.
mi si serrano i denti, ho come la sensazione che mi accada qualcosa alla bocca, denti che cadono.
e un tonfo alla mia valvola mitralica che diventa un po' più insufficiente.
e, inoltre, credevo che Veronesi fosse immortale, con il suo credo assoluto, ateo e razionalista, nella scienza si sarebbe meritato di assurgere al mito dell'eternità. forse se l'è guadagnata lo stesso, ma la scienza si è inquinata caro Umberto, si sporca le mani di atti immorali e dannosi per l'umanità, si fa spesso terreno di coltura per la perversione, portatrice dell'assenza del limite.
ad ogni modo la mia valvola svalvola, Trump presidente è il nero che cala sul mondo, americani coglioni, come molti altri d'altronde, coglioni tutti, adesso ci divertiamo, sono in molti a stappare lo champagne, Putin esulta, Assad e Erdogan ballano, Orban se la ride, Marine Le Pen ghigna, e il mondo segue l'Italia centrale, sprofonda sotto le faglie telluriche.
cin cin, al futuro del mondo.

sabato 5 novembre 2016

e fai come se nulla fosse, quando invece tutto è in atto, presente, lì nella stanza povera e un po’ buia

Arrivò il 12 marzo, una giornata mite, già primaverile. 
Lila volle che andassi presto nella sua vecchia casa, che l’aiutassi a lavarsi, a pettinarsi, a vestirsi. Mandò via la madre, restammo sole. Si sedette sul bordo del letto in mutande e reggiseno. Accanto aveva l’abito da sposa, che pareva il corpo di una morta; davanti, sul pavimento a esagoni, c’era la conca di rame ricolma d’acqua fumante. 
Mi chiese a bruciapelo: «Secondo te sto sbagliando?». 
 «A far che?». 
 «A sposarmi». 
 «Pensi ancora alla storia del compare di fazzoletto?». 
 «No, penso alla maestra. Perché non mi ha voluto far entrare?». 
 «Perché e una vecchia bisbetica». 
 Stette zitta per un po’ a fissare l’acqua che brillava nella conca, poi disse: 
 «Qualsiasi cosa succeda, tu continua a studiare». 
 «Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito». 
 «No, non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre». 
 Feci un risolino nervoso, poi dissi: 
«Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono». 
 «Non per te: tu sei la mia arnica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine». 
 Si alzo, si tolse mutande e reggiseno, disse: 
«Dai, aiutami, che senno faccio tardi». 
Non l’avevo mai vista nuda, mi vergognai. Oggi posso dire che fu la vergogna di poggiare con piacere lo sguardo sul suo corpo, di essere la testimone coinvolta della sua bellezza di sedicenne poche ore prima che Stefano la toccasse, la penetrasse, la deformasse, forse, ingravidandola. 
Allora fu solo una tumultuosa sensazione di sconvenienza necessaria, una condizione in cui non si può girare lo sguardo dall'altra parte, non si può allontanare la mano senza riconoscere il proprio turbamento, senza dichiararlo proprio ritraendosi, senza quindi entrare in conflitto con l’imperturbata innocenza di chi ti sta turbando, senza esprimere proprio col rifiuto la violenta emozione che ti sconvolge, sicché ti obblighi a restare, a lasciarle lo sguardo sulle spalle di ragazzo, sui seni coi capezzoli intirizziti, sui fianchi stretti e le natiche tese, sul sesso nerissimo, sulle gambe lunghe, sulle ginocchia tenere, sulle caviglie ondulate, sui piedi eleganti; e fai come se nulla fosse, quando invece tutto è in atto, presente, lì nella stanza povera e un po’ buia, intorno il mobilio miserabile, su un pavimento sconnesso chiazzato d’acqua, e ti agita il cuore, ti infiamma le vene. 
La lavai con gesti lenti e accurati, prima lasciandola accoccolata nel recipiente, poi chiedendole di alzarsi in piedi, e ho ancora nelle orecchie il rumore dell’acqua che sgocciola, e m’è rimasta l’impressione che il rame della conca fosse di una consistenza non diversa da quella della carne di Lila, che era liscia, soda, calma. 
Ebbi sentimenti e pensieri confusi: abbracciarla, piangere con lei, baciarla, tirarle i capelli, ridere, fingere competenze sessuali e istruirla con voce dotta, distanziarla con le parole proprio nel momento di massima vicinanza. Ma alla fine rimase solo il pensiero ostile che la stavo mondando dai capelli alle piante dei piedi, di buon mattino, solo perché Stefano la sporcasse nel corso della notte. La immaginai, nuda com'era in quel momento, avvinta al marito, nel letto della nuova casa, mentre il treno sferragliava sotto le loro finestre e la carne violenta di lui le entrava dentro con un colpo netto, come il tappo di sughero spinto dal palmo dentro il collo di un fiasco di vino. E mi sembrò all'improvviso che l’unico rimedio contro il dolore che stavo provando, che avrei provato, era trovare un angolo abbastanza appartato perché Antonio facesse a me, nelle stesse ore, la stessa identica cosa. L’aiutai ad asciugarsi, a vestirsi, a indossare l’abito da sposa che io - io, pensai con un misto di fierezza e sofferenza - avevo scelto per lei. La stoffa diventò viva, sul suo candore corse il calore di Lila, il rosso della bocca, gli occhi scurissimi e duri. Alla fine si infilò le scarpe da lei stessa disegnate. Pressata da Rino, che se non le avesse calzate ci avrebbe sentito una specie di tradimento, se ne era scelto un paio col tacco basso, per evitare di sembrare troppo piu alta di Stefano. Si guardò allo specchio sollevando un po’ il vestito. 
 «Sono brutte» disse. 
 «Non è vero». 
 Rise in modo nervoso. 
 «Ma si, guarda: i sogni della testa sono finiti sotto i piedi». 
 Si giro con un’espressione imprvvisa di spavento: «Cosa mi sta per succedere, Lenù?».

sono già al secondo, dall'amica geniale sono passata, senza che passasse un solo minuto, alla storia del nuovo cognome.
Lila e Lenù sono le mie nuove amiche. e sono mie, solo mie.
io poi delle amiche non so sempre bene cosa farmene, entrano ed escono dalla mia vita, non mantengo rapporti costanti e secolari, le persone non cambiano con me e le lascio tutte indietro.
dietro di me.
non ho voglia di raccontarmi e non ho la pazienza di spiegarmi.
sono una creatura solitaria, amo stare sola, faccio quasi tutto da sola, fermo restando che passo la mia vita ad occuparmi, e ad ascoltare per ore e giornate intere, gli altri.
ebbene, due amiche così posso permettermele e me le tengo strette. sono perfette per me e la mia solitudine.
penso che in realtà siano una persona sola, non le penso divise, sono i pensieri di una stessa mente; forse è Elena Ferrante la mia amica. la giostraia di questo gioco letterario.
io sento che non sono divise, sento che sono una, solo parlano in due.
la scrittura della Ferrante è misteriosa, come lei.
non dice mai fino in fondo, non spiega, non trova giustificazioni, fa passaggi inaspettati e a volte inconcludenti.
geniale.
geniale perché per tutto il libro pensi che l'amica geniale sia Lila ed ecco la smentita, è di Lenu' che si parla. ma ci sarà tempo per essere smentiti ancora.
il passo che ho citato è stupefacente, il turbamento per la nudità di Lila è strepitoso, è la scoperta della femminilità e il suo segreto riflessi in uno specchio, sono le parole di Lenù con il corpo di Lila. sempre due in una.
una possibilità impossibile, nella vita.
ma nel romanzo, si.

venerdì 4 novembre 2016

il gioco dell'evoluzione poteva essere condotto in molti modi

c'è una storia da raccontare.
ed è bellissima.
io non sono capace, al Mudec si.
la mostra sull'Homo Sapiens è un racconto sulla nostra storia e mai l'avevo letta così.
avverto un bel turbamento, una specie di giramento di testa, nel sapere come si sono svolte le cose, tali per cui questa razza, quella del Sapiens, è sopravvissuta e poi è cresciuta e poi si è sviluppata fino al dominio del mondo.
perché noi non eravamo l'unica eventualità possibile, di opzioni ce n'erano altre, tipo i Neanderthal, ma a loro non è andata bene.
a noi si.
e sembra che in alcuni momenti, in particolare dopo un'esplosione vulcanica apocalittica che ha modificato parte della crosta terreste e tutto il suo habitat, di Sapiens ne fossero rimasti davvero pochi in giro. eppure, solo noi siamo qui. gli altri no, si sono estinti.
insomma, c'era un'umanità alternativa a questa, ma non ce l'ha fatta. 
veniamo dall'Africa e siamo stati la terza ondata migratoria, altri ci hanno preceduto alla conquista delle terre. giunti in medio oriente, andiamo a destra o a sinistra? verso l'Europa o verso l'Asia? abbiamo raggiunto i nostri predecessori e, con questi cugini, ci siamo anche incrociati, ibridati, ma niente, alla fine solo noi siamo rimasti.
alla terra, dico, poteva andare meglio con gli altri?
un passo dopo l'altro siamo andati in Asia, in Oceania, in Europa e pure in America passando dallo scomparso stretto di Bering. anche lì, che storia ragazzi, dall'Asia ci siamo inoltrati in America passando per una terra che era abitata da mammut e che poi è stata totalmente sommersa.
ma intanto abbia fatto questo giro, poi i ponti dietro sono crollati..
quando Cristoforo Colombo ha fatto capolino sulla nuova terra- buongiorno, c'è nessuno?- non ha trovato mostri a due teste ma se stesso, qualcuno che era arrivato ai Caraibi da un'altra strada. ma sempre un Sapiens era, solo aveva già aperto l'ombrellone e si era già accomodato per il cocktail in riva al mare. -salve buongiorno, ci siamo già visti?-
siamo una sola razza dunque, siamo Sapiens, le modificazioni antropometriche che oggi ci distinguono sono acquisizioni davvero molto recenti rispetto alla storia dell'uomo, sono adattamenti superficiali che tradiscono un'apparente diversità. di fatto siano un'unica razza, un gruppo continuo.
sembra poi che sia avvenuto un miracolo, quello paleolitico, quando l'uomo ha cominciato a simbolizzare, ad astrarre, a inventare mondi possibili ma immaginari. nasce l'intelligenza simbolica e con essa l'arte, la pittura, la scultura, i monili, la musica, gli abiti, la conservazione dei defunti.
è chiaro che siamo a un punto di svolta.
emerge che il Sapiens è molto creativo, e anche molto aggressivo.
eccoci qua, siamo noi con le nostre pulsioni primarie. 
qualcuno pensa alla femminilità e la rappresenta.
qualcuno pensa alla virilità e la rappresenta.
cosa manca?
la parola, il linguaggio, altra storia incredibile, altra questione fondante.
leggo che le lingue si vanno perdendo, un'estinzione velocissima e senza ritorno, che sarà di noi e dei simboli che abbiamo creato?
e cosa accade in quella parte del mondo, il medio oriente, che è stato il crocevia obbligatorio di tutte le stirpi africane, sapiens e le altre prima di noi, che hanno conquistato il mondo emerso? proprio lì, ora come sempre, si sono svolte le guerre più sanguinose e violente.
da lì siamo passati, da lì ci siamo  moltiplicati, dopo aver vissuto nomadi di caccia e poi stanziali di agricoltura, dopo aver cominciato ad allevare bestiame e poi esserci insediati nei primi centri protourbani, da lì abbiamo cominciato a trasformare gli ecosistemi, a conservare il cibo, a commerciare, a scrivere, e a navigare.
a conquistare, a combattere, a prevalere.
e ora da lì vengono i profughi. scappano dalla guerra madre, la madre di tutte le guerre, ancora in fuga non per conquistare, solo per sopravvivere agli uomini Sapiens che tutti noi siamo, ma trasformati dalla cultura e dalla religione, dai simboli e dalle appartenenze.

al Mudec, presto, un'incredibile storia ci attende.