bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

domenica 31 gennaio 2016

scolpire carattere e pensiero

ancora una volta la scultura mi atterrisce, nel senso che mi paralizza, mi mette davanti a qualcosa che mi fa sbandare.
più della pittura, di più, mi mette difronte al mistero della materia.
dell'arte.
della creazione.
Wildt mi è piaciuto? si, mi è piaciuto.
com'è possibile che uno scultore faccia diversamente da un altro?
e un pittore diversamente da un altro?
è una domanda imbecille?
si lo è.
eppure per me la diversità è un mistero.
è il mistero della natura, della biologia, della mente, dell'arte.
i volti di Wildt non somigliano a quelli di nessun altro, e nemmeno i suoi corpi. l'ho pensato in estasi davanti a Medardo Rosso, a Alberto Giacometti, a Auguste Rodin, a Lucio Fontana.
Wildt mi sembra forte e potente, prepotente, massiccio, impositivo, imponente.
ma anche pietoso, struggente. misterioso.
i suoi volti sono unici, le fosse e segni marcati, i grandi nasi, le bocche che mostrano il palato, il pieno è spesso scavato da grandi vuoti.

 



squarcia il vuoto, lo spazio, con le sue forme. 
a volte i corpi sembrano scheletri e i volti teschi.
il richiamo alla morte è pauroso, ma è una morte che cede forza, che esalta la forma, che imprime espressività.
Wildt è pronunciato, di certo prende posizione davanti alla vita, e non sembra voler soccombere, nonostante tutto, vittorioso, a volte quasi retorico.
«Intendo l’arte non solo come fattore etico intellettuale, ma come mezzo di educazione del carattere. Esplico nel marmo le mie attività con lo scolpire carattere e pensiero.» Adolfo Wildt, 1915.

La GAM Galleria d’Arte Moderna prosegue con la mostra “Adolfo Wildt (1868-1931). L’ultimo simbolista” il percorso di valorizzazione dei nuclei più significativi delle sue collezioni scultoree. Dal 27 novembre al 28 febbraio 2016, la mostra – realizzata con la straordinaria collaborazione dei Musées d’Orsay et de l’Orangerie di Parigi - presenta un percorso dedicato alla ricerca dello scultore milanese sulla resa plastica e materica attraverso 55 opere in gesso, marmo, bronzo, accompagnate da una serie di disegni originali e alcune opere a confronto: oltre alla Vestale di Antonio Canova, opere di Fausto Melotti, Lucio Fontana e Arrigo Minerbi.

sabato 30 gennaio 2016

look up here, I'm in heaven.

ho letto un'intervista, breve meno male, alla prima moglie di David Bowie e mi sono imbattuta in descrizioni di una sessualità bulimica di gruppo e di sesso a quattro la sera prima del matrimonio e di tossicodipendenza e di abbandoni di cattiveria di figlio cresciuta da sola e di uso strumentale del sesso, di tutta questa roba importa niente, certe cose andrebbero mantenute nel più stretto strettissimo riserbo, sono cose private, personali, intime, soprattutto le pratiche sessuali, ma ormai nulla rimane più nei diari tutto è immondizia e pasto per i maiali tutto è risaputo tutto è masticato e vomitato, provo orrore per questa donna e quell'uomo, nel suo privato di allora, di cui si è parlato nei giornali, rimane l'immagine iconica e immortale anche se devo dire che ho provato un certo turbamento a immaginare scene di sesso promiscue relative a una persona che non esiste più, che non è più in vita, ho ripensato al film Shame in cui il godimento senza limite è un affiliato della morte, la pulsione di morte e la morte, ora si, si stoccano, penso che tutto quel movimento di bacino non ha dato l'immortalità, le immagini si toccano provocandomi sbandamento, è morto, morto, di cancro in un letto, ma l'arte, si, quella rimane per sempre. 
solo quella.
per il resto stiamo zitti. look up here, I'm in heaven.

venerdì 29 gennaio 2016

il gesto di Maria Teresa



un bel libro di Luigi Zoja, psicoanalista junghiano, Il gesto di Ettore.
Ettore si toglie l'elmo, abbraccia suo figlio Astianatte che piange spaventato davanti alla maschera dell'eroe, prima di andare a morire, perchè sa che andrà a morire. si umanizza, stravolge la tradizione, aprendo la strada a una forma nuova di accudimento paterno, innalza il figlio, dopo essersi tolto la maschera del combattente per ri-assumere il proprio volto, per rassicurarlo sul proprio ruolo protettivo, senza spaventarlo.

Maria Teresa Canessa, anche lei, fa il suo gesto. 
ho letto sul giornale, questa notizia, di questa donna, vicequestore della questura di Genova, sposata, 3 figli, laureata in giurisprudenza, un funzionario di polizia in servizio di ordine pubblico in piazza a Genova per la manifestazione degli operai dell'Ilva. la tensione è alta, lei parla di uno stress portato allo stremo, agitazione, forse paura.
si toglie il casco, si avvicina agli operai, stringe la mano.
parla.
l'ordine della parola.
è una donna, capelli lunghi, orecchino di perla, madre, lavoratrice.
è una donna perchè capisce, e pure ragiona, si toglie l'elmo, stempera la tensione, accoglie l'Altro, rende possibile la protesta senza esasperazione, senza collisione, senza violenza.
un uomo, più in là nella foto, la guarda, tra il sospetto e lo stupore.
è lei, è l'accoglienza, significante femminile, altissimo, ineguagliabile.
l'accoglienza, la temperanza, la pazienza.

sono ammirata.

impariamo, tutti.

anche l'Europa, come Maria Teresa, è femmina.

domenica 24 gennaio 2016

Questa città mi appartiene e io le appartengo, quasi fossi un frammento fluttuante nel suo immenso corpo.

Ascolto il tuo cuore, città.
Questa città mi appartiene e io le appartengo, quasi fossi un frammento fluttuante nel suo immenso corpo. Mi ossessiona un bisogno costante di conoscenza della sua fisicità, un bisogno di rileggere di nuovo i tratti, le parti nascoste, ma anche i luoghi noti e le sembianze più conosciute.
così si intitola la mostra su Gabriele Basilico all'UniCredit Pavillion di Milano.
già solo questa scelta mi sembra calzarmi a pennello.
e infatti, così è.
perfetto il titolo, perfetta la mostra, accompagnata anche da alcuni incontri a tema, due sono anche riuscita ad ascoltarli.
Basilico è fulminante. anche se non all'istante. strano, fulminante ma non subito. Basilico l'ho capito osservandolo, piano piano, anche conoscendolo, tramite le letture su di lui, i suoi appunti, le conferenze sul suo modo di lavorare.
ora lo guardo, tramite le sue foto, e comprendo il suo talento, coltivato con un lavoro e uno studio meticolosissimo. fare il fotografo non è mica andare in giro con la canon, santocielo no, è un lavoro, un lavoro serio, un'applicazione, uno studio, una riflessione, una filosofia. un'attesa.
chissà quanto attendeva Basilico. ore, anche giorni. 
foto senza umani, nemmeno uno,  senza macchine, luce del primo mattino. 
la sua foto è matematica, geometrica, perfetta.

Il compito del fotografo è di lavorare sulla distanza, di prendere le misure, di trovare un equilibrio tra un qui e un là, di riordinare lo spazio, di cercare infine un senso possibile del luogo.

Basilico era un architetto, e si vede, Basilico fotografa lo spazio come dimensione del vivere umano.

Quello che mi interessa in modo costante, quasi ossessivo, è il paesaggio urbano contemporaneo, il fenomeno sociale ed estetico delle grandi, rapide, incontenibili trasformazioni in atto nelle città del pianeta e penso che la fotografia sia stata, e continui forse a essere, uno strumento sensibile e particolarmente efficace per registrarlo. Fotografare la città non vuol dire scegliere le migliori architetture e isolarle dal contesto per valorizzare la loro dimensione estetica, compositiva, ma vuol dire per me esattamente il contrario. Cioè mettere sullo stesso piano l’architettura ‘colta’ e l’architettura ‘ordinaria’, costruire un luogo della convivenza, perché la città vera, la città che mi interessa raccontare, contiene questa mescolanza tra eccellenza e mediocrità, tra centro e periferia, anche nella più recente ricomposizione dei ruoli: una visione dello spazio urbano che, con un po’ di retorica, una volta avremmo definito democratica. Coltivo l’illusione e la speranza che la disponibilità a osservare e ad accettare la condizione urbana contemporanea delle nostre città possa essere un buon punto di partenza per immaginare una città e un futuro migliori.

sono straordinarie le sue foto delle città, non diciamo quanto lo siano quelle di MILANO.
la città con le sue cattedrali, intese come punti di sintesi urbana, di monumentalità cittadina, luoghi in cui la città sale in cattedra e parla di sè. cattedrale punto di incontro, città reale, città mentale.

Quello che mi interessa è l’umanità dell’architettura. È un paradosso: fotografo l’architettura, lo spazio, il paesaggio urbano senza le persone, ma penso che le mie fotografie siano profondamente dedicate all’umanità del luogo che è stato costruito da persone che non si vedono.

c'è un'estrazione del luogo dal contesto, c'è solo un luogo, e quel luogo diventa tutto, diventa storia, progetto, costruzione, vite umane, diventa città, luogo sociale, condivisione, centro e periferia. Basilico celebra i luoghi, diventano santuari, e dico tutti i luoghi, assolutamente tutti.

le sue foto le riconosco, ormai, il suo stile, lo leggo.
foto di città, come Beirut,

come le città del nord

Quei luoghi nord Europa, con il mare burrascoso, i cieli profondi, le nubi pesanti, con la pioggia insistente, il vento, il sole e la luce che cambiava continuamente, mi hanno spalancato una porta verso una nuova, grandiosa visione del paesaggio. ... Ho scoperto “la lentezza dello sguardo”. ...C’è un’immagine che racconta perfettamente queste sensazioni e queste percezioni, ed è un paesaggio di Le Tréport che ho fotografato nel 1985. Nella mia esperienza sul campo è stato un passaggio senz’altro importante, direi persino cruciale. Penso che dopo quella ripresa fotografica in quel luogo, in quel momento, molte cose siano cambiate, e in particolare il mio rapporto con il paesaggio. In quella fotografia c’è un processo di sintesi massima, è una fotografia ideale perché rimanda al luogo nella sua interezza e globalità.

ritratti di fabbriche
colte prima della trasformazione, prima che divenissero archeologia industriale.
ritratti che ricordano De Chirico, Sironi, Boccioni, la città con i suoi volti, le sue ossa, la sua struttura, il suo corpo.
attesa, metafisica, condizione permanente dell'abitare.
Per la prima volta ho visto le strade e, con loro, le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide, nette e isolate su un cielo inaspettatamente blu intenso, grazie al quale la visione consueta delle forme diventava improvvisamente inusuale. Ho saputo vedere cosi, come se non l’avessi mai visto prima, un lembo di città senza il movimento perpetuo quotidiano, senza le auto in sosta, senza persone, senza suoni e rumori. Ho visto l’architettura riporporsi nella sua essenza, filtrata dalla luce, in modo sorprendentemente scenografico e monumentale.

fotografia. nè arte, nè pittura, ma atto di conoscenza, atto come scelta di sguardo.
Gabriele Basilico, la tua città ti ha perduto.

venerdì 22 gennaio 2016

La Danza



Alfons Mucha

Le Treport



Gabriele Basilico

l'incanto dei macchiaioli



e in effetti di incanto si tratta.
bellissima mostra a museo Poldi Pezzoli.
di fatto sono due sale, 50 opere, sembra di entrare a casa di qualcuno in effetti, e l'effetto voluto è quello secondo il progetto espositivo, a casa di Giacomo e Ida Jucker,
io ho passeggiato tra le stanze parecchie volte, due tre quattro, avanti e indietro.
ero in estasi.
una pittura luminosa e viva, che bellezza tutto.
guardo Curiosità, di Silvestro Lega
e penso alle stecche delle persiane di Gadda. ma non è l'alba, è giorno pieno,  mezzogiorno. è bellissimo!!








sono inondata dalla realtà, che nitidezza assoluta.
sono al sole, ho perfino caldo, eppure scrivo con le mani ghiacciate.
capolavori.

Dal 13 novembre 2015 al 29 febbraio 2016 la casa museo di via Manzoni presenta riunite, dopo più di quarant’anni, le opere della collezione di Giacomo e Ida Jucker nella mostra “L’incanto dei Macchiaioli nella collezione di Giacomo e Ida Jucker”. La mostra racconta la straordinaria avventura collezionistica di Giacomo Jucker, esponente della nota dinastia imprenditoriale affermatasi a Milano agli inizi del Novecento Al nome di Giacomo Jucker (1883-1966) ‒ e della moglie Ida Saibene (1890-1963) ‒ è legato il collezionismo di opere d’arte del secondo Ottocento italiano, in particolare dei Macchiaioli. Dell’importante scuola pittorica Giacomo ha puntato, soprattutto, a quei capolavori ancora custoditi nelle collezioni storiche, tanto da influenzare con le proprie scelte il gusto e il mercato. Il risultato è una raccolta eccezionale, la prima dedicata al secondo Ottocento italiano di rilevanza e fama davvero internazionali Oggi l’ambizioso progetto espositivo del Museo Poldi Pezzoli, realizzato in collaborazione con l’Istituto Matteucci di Viareggio, offre al pubblico l’opportunità davvero straordinaria di rivedere, dopo oltre quarant’anni, finalmente di nuovo ricomposta questa collezione. In mostra cinquantacinque opere di eccezionale qualità e importanza, tra le quali, della scuola dei Macchiaioli: Costumi livornesi, Silvestro Lega che dipinge sugli scogli, Signore in giardino, Il pittore Eugenio Cecconi che dipinge, La strada che sale, Cavalleggeri in avanscoperta, Ritratto di popolana e Cavallo al sole di Giovanni Fattori; Curiosità, Lettura romantica, La signorina Titta Elisa Guidacci, La bigherinaia, Profilo di donna di Silvestro Lega; Il Chiostro di Santa Croce, Stradina al sole, Il Campanile di Badia e Il Mugnone alle Cure di Giuseppe Abbati; Stradina al sole, Settignano, Una via di Edimburgo, Bapin del Lilela e Strada alla Capponcina di Telemaco Signorini; Tramonto sull’Arno di Giovanni Costa; La raccolta del grano sull’Appennino di Odoardo Borrani; Lungomare di Vincenzo Cabianca. E inoltre altre celebri gemme del secondo Ottocento italiano, quali Che freddo! di Giuseppe De Nittis.

martedì 19 gennaio 2016

elencare i gelsi

infatti, mi diceva Baricco sabato sera rivedendo Totem su rai 5, quando più le parole sono precise, belle, esatte, più si fermano. sedimentano, incidono.
ma guarda, a pensarci, lo diceva ieri sera anche Recalcati al Parenti parlando di Edipo, il figlio, che le parole ci segnano, ci tatuano, sulla pelle, sul corpo, la lettera si insinua in noi, le parole si incidono come il fuoco.
le parole si incarnano.
bene, allora vale la pena ricordare quali parole ha scelto Baricco a proposito di quel gran genio di Gadda.
dalla Cognizione del dolore.
titolo magistrale, un capolavoro.
cognizione
non è sapienza, non è conoscenza, non è consapevolezza.
forse è una facoltà, una facoltà di conoscenza che si associa a un pensiero, a una riflessione.
sorprende che l'altro titolo del gran genio sia Quer pasticciaccio, sono diversi o sono uguali?, scaturiscono dalla stessa intuizione sul potere del linguaggio?

Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo ricupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza della impossibilità di dire: Io. 
L'ausilio dell'arte medica, lenimento, pezzuole, dissimulò in parte l'orrore. Si udiva il residuo d'acqua e alcool delle pezzuole strizzate ricadere gocciolando in una bacinella. E alle stecche delle persiane già l'alba. Il gallo, improvvisamente la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta. 
La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi nella solitudine della campagna apparita.

Baricco sa dire meglio di me, e queste faccende le sa fare davvero bene, e lo trovate su you tube.

accedere ed elencare i gelsi.

alle stecche delle persiane già l'alba.

parole di luce, la luce mi inonda, piano, inesorabile. e mi spiega, mi dispiega il mondo.

diamo il nome alle cose.

sabato 16 gennaio 2016

polemiche e pace nel direttissimo

che titolo è?
è di Gadda.
dal suo libro, il secondo, Il castello di Udine.
questo è l'ultimo capitolo della terza parte.
l'incipit del libro è noto come Tendo al mio fine.
è una faccenda complicata, molto complicata, un pasticciaccio, e io non ne sapevo nulla, fino a ieri sera.
alla Triennale di Milano, ieri,  alle 19, c'era una situazione, una situazione particolare, c'era Gifuni, Fabrizio, e c'era Gadda, Carlo, con questi due testi, Tendo al mio fine e Polemiche e pace nel direttissimo.
c'era anche un altro personaggio, il prof, Claudio Vela, ma lui conta meno, ha fatto la spiega, anche utile, ma anche prolissa. la gente si innervosiva. quella dietro di me è andata fuori di testa ed è stato necessario contenerla per farla stare un po' zitta.
non so se il post è su Gifuni che legge Gadda o su Gadda letto da Gifuni.
per leggere Gadda io ho bisogno di una mano e Gifuni me la da.
grazie a lui ho letto, in audiolibro, Quer pasticciaccio brutto.
altrimenti non so se ce l'avrei fatta.
Gadda è un fenomeno irripetibile, ma anche Gifuni per la miseria.
Gadda scrive che non ci si può credere e Gifuni legge che ci si crede per forza, una forza della natura.
l'incontro di queste due anime produce un effetto artistico letterario teatrale di altissimo livello.
penso alla prosa, alle parole di Gadda, al suo scrivere, e non mi capacito della incommensurabile perdita che oggi tutti subiamo nel nostro lessico, siamo dei poveretti, in miseria, falliti.
penso alla capacità con le parole di Gifuni e non mi capacito della sapienza e dell'intelligenza umana, quale maestria, quale talento. chissà, mi domando, se è anche simpatico.
da un po' di tempo ha una gran barba, era piaciuta moltissimo a Natalia Aspesi, sembrava eccitata, a BookCity, a Ottobre, alla lettura di Aritmie di Vittorio Lingiardi. e anche lì, Gifuni mi ha dato una mano.
Gifuni da corpo al testo, è un evento, le parole diventano corporee, tramite lui. 
la sua lettura, ieri sera, di quel testo mai conosciuto della difficile e complicata faccenda di Gadda scrittore è stata magistrale, io l'ho vissuta bene, il mio corpo ne godeva, la sua parola corpo ha incontrato il mio. ero dentro la storia, l'ho vissuta.

ricordo, a proposito di un uomo morto che, depositato sulla poltrona dello scompartimento, irrompe nella scena del vagone (il direttissimo) dei viaggiatori, la descrizione dell'abbandono di quel corpo, di una "stanchezza pesante che non avrebbe avuto rivincita". non avrebbe avuto rivincita, non avrebbe avuto rivincita non avrebbe avuto rivincita, mi ripeto.
indimenticabile.

Tendo al mio fine
Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge. Umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità, nellabestialità corrotto, e però atterrito dalla vanità vana del nulla, io, che di tutti li scrittori della Italia antichi e moderni sono quello che più possiede di comodini da notte, vorrò dipartirmi un giorno dalle sfiancate sèggiole dove m’ha collocato la sapienza e la virtù de’ sapienti e de’ virtuosi, e, andando verso l’orrida solitudine mia, levarò in lode di quelli quel canto, a che ilmandolino dell’anima, ben grattato, potrà dare bellezza nel ghigno. La virtù, senza il becco d’un quattrino, è pur veneranda cosa: e questo si arà da sentire nelle mie note. Era ed è la legge (2) che custodisce ed impone l’inutilità marmorea del bene, che ignora o misconosce le ragioni oscure e vivide della vita, la qual si devolve profonda: deformazione perenne, indagine, costruzione eroica. 
...
Così seguiterò il mio cammino solitario. Seguiterò a pagare e servire la necessità, conterò avaramente il poco denaro, loderò la plastile carne delle infarinate bagasce; appetirò cose non lecite; altre sognerò non possibili; e una grata sarà il termine de’ pochi miei passi. E leggerò i libri sapientissimi delli scrittori, infino a che, sopra alla mia trapassata sapienza, vi crescerà l’erba.
I pensieri più belli si dissolveranno, ogni volere, ogni gioia, ogni più ardente e tenero senso e memoria; e forse l’amore istesso della mia terra! Come avviene che di là, dietro dal monte, la rosea nube in cenere si discolori. E in sul muro, che chiude il Campo, si leggerà, mal vedibile, un segno: un segno inscritto col sangue. Crescerà ne’ vecchi muri l’urtica: e l’erba di sopra la lassitudine mia. E l’erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà. 

domenica 10 gennaio 2016

venezia, senza

ci cammino, per Venezia, e mi viene in mente quando già ci sono stata.
a Carnevale, con un ex fidanzato.
con mio padre.
con i miei figli, piccoli, a visitare il quartiere ebraico.
a teatro trasportata da Paolini.
e ho un ricordo confuso, non sono nemmeno certa che sia reale. mi addentro in una zona nera, mi capita spesso, in cui ho dei ricordi, a casa di un amico, in una casa terribile, in affitto? in giro per la città, ma quando? a fare cosa? è una fantasia? è il lembo di un sogno? eppure potrebbe essere accaduto ma gli elementi non sono sufficienti a ricostruire un fatto, un dato reale, una verità.
Venezia mi fa un effetto terribile, soprattutto al suo interno, quando dalla luce dei canali e dell'acqua ci si addentra nei vicoli. mi sento quasi male, detesto la gente, la calca, le strade strette affollate di gente e di negozi di scarsa qualità. non so se sono influenzata da una visione cinematografica o se questa chiusura claustrofobica è la mia costruzione inconscia. se per Lacan l'inconscio era Baltimora all'alba non vorrei mai che il mio siano i vicoli chiusi velenosi di Venezia. sento qualcosa di malsano, di onirico, di pauroso. cammino verso il ponte dei sospiri e sono aggredita da una rabbia furibonda verso il mondo che abito, che vivo, detesto la globalizzazione che porta orde di esseri umani ovunque, come a Praga anni fa, sono pervasa da una sensazione di disperazione, di mancanza di speranza verso l'umanità. cosa ci fa qui, sempre, sempre, tutti i giorni tutta questa gente? passo davanti al caffè Florian e di nuovo mi assale una nausea, un malessere che mi scuote, peso a quando ci entrai accompagnata da mio padre e lo vedo ora con la coda fuori -la coda per entrare al Florian? cos'è una fiera, un circo, expo?- e lo sbircio dentro molestato, abusato dai giapponesi in ciabatte e dagli americani con le magliette sudate e sfatte e dalle russe vestite come serve della gleba sotto quintali di rossetto zeppe cosce di fuori e unghie da strega. ma cos'è? cosa succede? dov'è il caffè Florian? dove avete messo Venezia? 
cammino e penso a Valera Solesin, penso alla piazza durante il funerale, all'imam e al rabbino, a questo penso camminando a Venezia, alla morte, al terrorismo universale. sono strattonata da pensieri di morte, di morte furibonda violenta, da massacri, dal non senso. 
cammino e incrocio una coppia anziana, veneziani, lei di un'eleganza inesistente, oggi, un'eleganza fuori dal mondo, fuori dal tempo, ineguagliabile, assoluta, totalizzante, lui, anche di più, un cappotto, un cappello, un capogiro. mi sento di nuovo male, mi sento come presa da un sogno, una reminiscenza, un'immagine di un film, un'archeologia, sono passata accanto a dei fantasmi, al mio fantasma, una coppia veneziana elegante e distinta, chi sono, da che mondo vengono?
sono a  Venezia e sono presa dalla mancanza di senso, cammino per i vicoli, non mi piacciono, sono stanca, vorrei la luce e l'acqua, questi ponti, questi vicoli li vorrei vuoti, diversi, li vorrei sani, senza il tempo moderno, senza la sporcizia, senza l'affanno, senza gli strattoni, senza il consumo, senza.
dove sono? dove sto camminando? in che posto sono?
non sono in me
o
ci son dentro, fin troppo.

giovedì 7 gennaio 2016

sguardo di donna

più che la mostra il posto.
forse anche più delle foto, l'allestimento.
e non è la prima volta.
i Tre Oci è un super mega luogo in quel della Giudecca, Venezia, fermata Zitelle.
quanto mi piace il vaporetto. mi ricorda lo spettacolo di Paolini, e rido.
nella miseria generale, personale e mondiale, mi sono concessa questa leccornia in una giornata, splendente e velenosa di smog, di fine anno.
forse ho visto troppe foto, in questi anni ne ho ingurgitate a centinaia, forse di più, molte delle autrici mi sono note, altre no, ma la maggior parte si. quindi poca sorpresa, comunque bellissime Donata Wenders, Shirin Neshat, Bettina Rheims, Martina Bacicalupo. e, spiritosa, con l'inconscio all'aria, Sophie Calle.
ma sono tante, non le cito tutte. ci sarebbe anche Giorgia Fiorio per carità, ma con lei ho un problema di simpatia. allestimento di Marras, si gira tra abiti armadi e pareti bordeaux, mi sento a casa, in una bella casa, toccherei tutto, vorrei una stanza, lì, tutta per me. frammenti di quotidiano, quello che tocca alle donne, che vogliano o no, ovvero gli altri, sempre gli altri, onnipresenti gli altri, una vita fatta di altri. e di molte molte molte parole. per te.
le mie foto, invece, fanno schifo, mi devo rassegnare, fotografo ma di certo non perchè ne sia capace, e via.
Donna Ferrato “Sono in grado di scattare una straordinaria quantità d’immagini del dolore privato delle persone perché questo è l’unico modo per educare le masse. Non c’è niente di più potente di una fotografia documentaria che diventa una storia dentro una storia, raccontata senza trucchi o abbellimenti”
Sophie Calle “Ho da sempre avuto l’impressione che le mie foto non potevano esistere da sole, le immaginavo all’interno di una struttura narrativa insieme alle parole. Lo stesso discorso si può fare per la scrittura. Le storie mi parevano povere senza le immagini e quindi utilizzare i due media era una conseguenza logica. In più mi piaceva fotografare e amavo scrivere”
Letizia Battaglia “La fotografia l’ho vissuta come documento, come interpretazione e tanto altro ancora. L’ho vissuta come acqua dentro la quale mi sono immersa, mi sono lavata e purificata. L’ho vissuta come salvezza e verità”
Martina Bacigalupo “Cerco di “rubare” alla natura un segreto che il tempo suo di epifania non mi permette di esplorare – ma che lo permette invece il tempo miracoloso della fotografia – che riceve le cose e le sospende, offrendoci il Tempo magico di guardare al di là del Tempo”
Diane Arbus “Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere”
Giorgia Fiorio “Le fotografie non sono mai delle risposte ma delle domande. E ognuno le legge e le interpreta come le sente. Secondo la propria sensibilità e percezione. Il fotografo in realtà non deve dire nulla di più. Non deve spiegare a tutti i costi che cosa vogliano dire le sue immagini”
Roni Horn “Le mie opere si sviluppano in modo tale da non permettere mai allo spettatore di prendere troppa familiarità, o di fare ipotesi al riguardo. […] Io non sono interessata alle risposte. Le risposte creano chiusura. E, in ogni caso, non credo che esistano risposte, le risposte sono sempre provvisorie”
Shirin Neshat “Sto cercando di mettere insieme le immagini e le storie, di trovare l’armonia tra fotografia, pittura e parole. […] Quello che cerco è l’universalità, una storia iraniana che possa valere per tutti”
Bettina Rheims “Trent’anni fa, quando volevo diventare fotografa, giravo con la mia macchina fotografica e riprendevo ciò che avveniva intorno. Poi, ho voluto vedere le donne svestirsi. Si pensa che io svesta le donne, non è vero. Io svesto i loro pensieri”
Sam Taylor-Johnson “Uso la fotografia come punteggiatura, per segnare i capitoli fondamentali della vita. Il lavoro nasce da questa sensazione di libertà mentale e spirituale”
Donata Wenders “A volte è solo un fugace istante, un gesto o un movimento improvviso, quando ci chiediamo: «Cosa sto facendo veramente con la mia vita?». Spesso abbiamo paura della risposta, ma c’è ancora tanta speranza in questo interrogarsi, ed è anche il cuore della nostra identità”

“Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione.” Susan Sontag 
25 autrici, 25 storie, 25 sguardi singolari sul mondo, sull’altro, sulla relazione. Sguardo di donna è una mostra potente di 250 immagini, che parla di diversità, responsabilità, compassione e relazione: un racconto dell’essere che ama per antonomasia, la donna, capace del “dono totale dell’anima e del corpo” (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza), con quella dedizione incondizionata alla cura delle relazioni, al rapporto con l’altro, a uno sguardo sul mondo a partire dalla propria consapevolezza. Il mezzo fotografico diviene una sorta di coscienza storica, facendosi testimone anche di quello che spesso viene nascosto. Da qui nasce la scelta di autrici che usano la fotografia come mezzo per esprimersi, di varie parte del mondo, ognuna pronta a cogliere il linguaggio dell’ umanità, dell’unicità, della differenza nelle infinite varietà dei soggetti ritratti, nell’intento di sottrarsi alla paura della diversità. La mostra, a cura di Francesca Alfano Miglietti, è una complessa drammaturgia, ricca di rimandi a varie fonti: reportage e documentari, poetiche struggenti e malinconiche, linguaggi di denuncia e di compassione. 
La caratteristica di tutte le opere è l’assoluta centralità del dialogo con il reale, una centralità che stabilisce un vincolo stretto con le forme del mondo, nel recupero di materiali di vita. Antonio Marras firma l’allestimento con una scenografia capace di trasportare il visitatore all’interno delle storie che si leggono nelle varie sale: un’esperienza nell’esperienza, in cui anche l’allestimento diventa parte fondamentale della narrazione e crea la relazione tra gli spazi della Casa e le opere fotografiche. 
La mostra si articola intorno a tre nuclei centrali, tre luoghi d’incontro. Il pianterreno è invaso da una spettacolare installazione di costumi provenienti dal Teatro La Fenice: gli abiti appesi e volutamente esibiti dal rovescio, con le fodere esposte, impongono il sovvertimento della forma e mostrano ciò che sta sotto, lo strato più intimo. 
Il secondo nucleo, il salone del primo piano, è allestito con armadi/scatola, sempre provenienti dalla Fenice, i quali, aperti, custodiscono alcune fotografie in una sorta di dialogo segreto e ravvicinato. Opere sottratte dalle varie sale che, come quelle esposte anche negli altri luoghi comuni, hanno lasciato dietro di sé un’impronta sulle pareti originarie. 
Elemento centrale dell’ultimo piano sono le “cavalle americane” (sostegni delle quinte), le quali diventano percorso, ostacolo, costruzione. Da ogni salone si accede a una serie di spazi in cui le opere sono disposte su fondo rosso veneziano leggermente scurito dal tempo immemore della Casa. Ogni stanza espone una, due, tre storie, che dialogano fra loro e con quelle delle altre, per raccontare, con sguardi diversi, la stessa storia, la storia dell’umanità.