bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 29 febbraio 2016

La luce dell’alba cominciava a filtrare fra le foglie giganti degli alberi, diradando rapidamente le tenebre e svegliando gli abitanti della foresta

il corsaro nero, che divertimento.
un'eroe come si deve, galantuomo tutto d'un pezzo, coraggioso, fedele alla parola data, inflessibile, generoso, capace di sacrificio e anche di amore.
le sue gesta e quella dei suoi amici filibustieri sono onorevolissime. corsari non significa barbari, anzi, la disciplina e l'onore sono aspetti imprescindibili dell'appartenenza a questo gruppo di combattenti per la libertà. contro gli odiatissimi spagnoli, contro quel marrano assasino di Van Guld.
va da sè che il Corsaro, bellissimo e temerario, si innamorerà della figlia di Van Guld, bellissima e coraggiosa a sua volta. va da sè che in un romanzo di avventure queste complicazioni siano come il cacio sui maccheroni. va da sè anche che lo si scopra nell'ultima pagina del romanzo e che la sventurata, senza dire una parola, si lasci collocare, senza nessuna resistenza, sulla scialuppa  che la condurrà al largo, verso la morte, perchè il nostro corsaro, nonostante tutto il suo amore, è fedele al suo giuramento, sterminare Van Guld e tutta la sua famiglia.
attonito e sgomento la vedrà allontanarsi nella nebbia dall'alto della sua Folgore, corroso dal dolore  ma fermo nella sua decisione, pure piangerà.
Tutto l’equipaggio si era precipitato a tribordo e la seguiva cogli sguardi; ma nessuno parlava. Tutti avevano compreso che qualsiasi tentativo per smuovere il vendicatore sarebbe stato inutile.
Intanto la scialuppa s’allontanava sempre. La si vedeva spiccare come un grosso punto nero sulle onde che la fosforescenza ed i lampi rendevano scintillanti. Ora si alzava sulle creste, ora spariva negli abissi, poi ritornava a mostrarsi come se un essere misterioso la proteggesse.
Per alcuni minuti ancora la si poté scorgere, poi scomparve sul tenebroso orizzonte, che dense nubi, nere come se fossero sature d’inchiostro, avvolgevano.
Quando i filibustieri volsero gli sguardi atterriti verso il ponte di comando, videro il Corsaro piegarsi lentamente su se stesso, poi lasciarsi cadere su di un cumulo di cordami e nascondere il volto fra le mani. Fra i gemiti del vento ed il fragore delle onde si udivano, ad intervalli, dei sordi singhiozzi.
Carmaux si era avvicinato a Wan Stiller e, indicandogli il ponte di comando, gli disse con voce triste:
- Guarda lassú: il Corsaro Nero piange!...
è così che finisce il romanzo ed è così che io sono rimasta appesa all'ultima parola, senza conclusione della spinosa e dolorosa vicenda, con il cuore in gola, ed è poi così che sono andata a leggermi il seguito...la Regina dei Caraibi...
e mi sono pacificata.
tutto bene grazie al cielo.
il romanzo è nel suo genere strepitoso, divertente e appassionante.
quel che non mi aspettavo, nel vortice delle fantastiche avventure narrate, è la sconfinata conoscenza di Salgari su flora e fauna caraibiche. i dettagli sui fiori, sulle piante e sugli animali nelle più minute e incredibili derivazioni sono sbalorditivi e sconvolgenti. la parte del libro dedicata alla fuga attraverso la foresta vergine è un trattato di botanica e zoologia.
La luce dell’alba cominciava a filtrare fra le foglie giganti degli alberi, diradando rapidamente le tenebre e svegliando gli abitanti della foresta. I tucani dal becco enorme, grosso quanto il loro intero corpo e cosí fragile che costringe quei poveri volatili a gettare il cibo in alto aspettando che cada per ingollarlo, cominciavano a svolazzare sulle piú alte cime degli alberi, mandando le loro grida sgradevoli che somigliano al cigolare di una ruota male unta; gli onorati, nascosti nel piú fitto delle piante, lanciavano a piena gola le loro note baritonali do... mi... sol... do..., i cassichi bisbigliavano dondolandosi sui loro strani nidi in forma di borse, sospesi ai flessibili rami dei mangli o all’estremità delle foglie immense dei maot mentre i graziosi uccelli mosca volavano di fiore in fiore, come gioielli alati, facendo scintillare ai primi raggi del sole le loro piume verdi, turchine o nere a riflessi d’oro e di rame. Qualche coppia di scimmie, uscita dal nascondiglio, cominciava ad apparire, stiracchiandosi le membra e sbadigliando col muso rivolto al sole. Erano per lo piú dei barrigudo, quadrumani alti sessanta od ottanta centimetri, con una coda lunga piú dell’intero corpo, con pelame morbido, nero cupo sul dorso e grigiastro sul ventre ed una specie di criniera sulle spalle. Alcuni si dondolavano appesi per la coda, mandando le loro grida che sembravano volessero dire eske, eske, altri invece, vedendo passare il piccolo drappello, s’affrettavano a salutarlo con boccacce, scagliando frutta e foglie, essendo maligni e impudenti. In mezzo alle foglie delle palme si scorgeva anche qualche banda di minuscoli quadrumani, di mico, i piú graziosi di tutti, essendo cosí piccini da poter star comodamente nella tasca di una giacca. Salivano e scendevano con vivacità i rami, cercando gli insetti che costituiscono il loro cibo, appena però scorgevano gli uomini si mettevano premurosamente in salvo, sulle fronde piú alte, e di lassú stavano a guardarli coi loro occhi intelligenti ed espressivi. Di passo in passo che i filibustieri s’inoltravano, gli alberi e le macchie si diradavano, come se non trovassero di loro gradimento quel terreno saturo d’acqua e di natura probabilmente argillosa. Le splendide palme erano già scomparse e non si vedevano che gruppi di imbauda, specie di piccoli salici, che muoiono durante la stagione piovosa, per ricomparire nella stagione secca; delle iriartree pinciute, strani alberi che hanno il tronco assai rigonfio nella parte inferiore, sostenuto, per un’altezza di due o tre metri, da sette od otto robuste radici e che a venticinque metri d’altezza portano delle grandi foglie dentellate, ricadenti all’ingiro come un enorme ombrello. Ben presto però anche quegli ultimi alberi scomparvero per dar luogo ad ammassi di calupo, piante dalle cui frutta tagliate a pezzi e lasciate un po’ a fermentare si ricava una bevanda rinfrescante, ed i giganteschi bambú alti quindici e perfino venti metri e cosí grossi da non potersi abbracciare.
il linguaggio di Salgari è epico, eroico, non lascia trasparire paure, nè incertezza, rivela un mondo assoluto senza sbavature, senza sfumature. potrebbe correre il rischio della retorica, ma siamo sulla Folgore, siamo tra i filibustieri della Tortue, tra gli uragani delle Antille alla caccia del governatore di Maracaibo...non scherziamo, queste sono cose serie.
Un uomo era sceso allora dal ponte di comando e si dirigeva verso di loro, con una mano appoggiata al calcio d’una pistola che pendevagli dalla cintola.
Era vestito completamente di nero e con una eleganza che non era abituale fra i filibustieri del grande Golfo del Messico, uomini che si accontentavano di un paio di calzoni e d’una camicia, e che curavano piú le loro armi che gli indumenti.
Portava una ricca casacca di seta nera, adorna di pizzi di eguale colore, coi risvolti di pelle egualmente nera; calzoni pure di seta nera, stretti da una larga fascia frangiata; alti stivali alla scudiera e sul capo un grande cappello di feltro, adorno d’una lunga piuma nera che gli scendeva fino alle spalle.
Anche l’aspetto di quell’uomo aveva, come il vestito, qualche cosa di funebre, con quel volto pallido, quasi marmoreo, che spiccava stranamente fra le nere trine del colletto e le larghe tese del cappello, adorno d’una barba corta, nera, tagliata alla nazzarena e un pò arricciata.
Aveva però i lineamenti bellissimi: un naso regolare, due labbra piccole e rosse come il corallo, una fronte ampia solcata da una leggera ruga che dava a quel volto un non so che di malinconico, due occhi poi neri come carbonchi, d’un taglio perfetto, dalle ciglia lunghe, vivide e animate da un lampo tale che in certi momenti doveva sgomentare anche i piú intrepidi filibustieri di tutto il golfo.
La sua statura alta, slanciata, il suo portamento elegante, le sue mani aristocratiche, lo faceva conoscere, anche a prima vista, per un uomo d’alta condizione sociale e soprattutto per un uomo abituato al comando.
I due uomini del canotto, vedendolo avvicinarsi, si erano guardati in viso con una certa inquietudine, mormorando:
- Il Corsaro Nero!
- Chi siete voi e da dove venite? - chiese il Corsaro, fermandosi dinanzi a loro e tenendo sempre la destra sul calcio della pistola.
- Noi siamo due filibustieri della Tortue, due Fratelli della Costa, - rispose Carmaux.
- E venite?
- Da Maracaybo.
- Siete fuggiti dalle mani degli spagnuoli?
- Sí, comandante.
- A qual legno appartenevate?
- A quello del Corsaro Rosso. -
Il Corsaro Nero udendo quelle parole trasalí, poi stette un istante silenzioso, guardando i due filibustieri con due occhi che pareva mandassero fiamme.
- Al legno di mio fratello, - disse poi, con un tremito nella voce.
Afferrò bruscamente Carmaux per un braccio e lo condusse verso poppa, traendolo quasi a forza.
Giunto sotto il ponte di comando, alzò il capo verso un uomo che stava ritto lassú, come se attendesse qualche ordine, e disse:
- Incrocierete sempre al largo, signor Morgan; gli uomini rimangano sotto le armi e gli artiglieri con le micce accese; mi avvertirete di tutto ciò che può succedere.
- Sí, comandante, - rispose l’altro. - Nessuna nave o scialuppa si avvicinerà, senza che ne siate avvertito.
Il Corsaro Nero scese nel quadro, tenendo sempre Carmaux per il braccio, entrò in una piccola cabina ammobiliata con molta eleganza ed illuminata da una lampada dorata, quantunque a bordo delle navi filibustiere fosse proibito, dopo le nove di sera, di tenere acceso qualsiasi lume, quindi indicando una sedia disse brevemente:
- Ora parlerai.
- Sono ai vostri ordini, comandante. -
Invece d’interrogarlo, il Corsaro si era messo a guardarlo fisso, tenendo le braccia incrociate sul petto. Era diventato piú pallido del solito, quasi livido, mentre il petto gli si sollevava sotto frequenti sospiri.
Due volte aveva aperto le labbra come per parlare, e poi le aveva richiuse come se avesse paura di fare una domanda, la cui risposta doveva forse essere terribile.
Finalmente, facendo uno sforzo, chiese con voce sorda:
- Me l’hanno ucciso, è vero?
- Chi?
- Mio fratello, colui che chiamavano il Corsaro Rosso.
- Sí, comandante, - rispose Carmaux, con un sospiro. - Lo hanno ucciso come vi hanno spento l’altro fratello, il Corsaro Verde. -
Un grido rauco che aveva qualche cosa di selvaggio, ma nello stesso tempo straziante, uscí dalle labbra del comandante.
Carmaux lo vide impallidire orribilmente e portarsi una mano sul cuore, e poi lasciarsi cadere su di una sedia, nascondendosi il viso colla larga tesa del cappello.
Il Corsaro rimase in quella posa alcuni minuti, durante i quali il marinaio del canotto lo udí singhiozzare, poi balzò in piedi come se si fosse vergognato di quell’atto di debolezza. La tremenda emozione che lo aveva preso era completamente scomparsa; il viso era tranquillo, la fronte serena, il colorito non piú marmoreo di prima, ma lo sguardo era animato da un lampo cosí tetro che metteva paura.
Fece due volte il giro della cabina come se avesse voluto tranquillarsi interamente prima di continuare il dialogo, poi tornò a sedersi, dicendo:
- Io temevo di giungere troppo tardi, ma mi resta la vendetta. L’hanno fucilato?
- Appiccato, signore.
- Sei certo di questo?
- L’ho veduto coi miei occhi pendere dalla forca eretta sulla Plaza de Granada.
- Quando l’hanno ucciso?
- Quest’oggi, dopo il mezzodí.
- È morto?...
- Da prode, signore. Il Corsaro Rosso non poteva morire diversamente, anzi...
- Continua.
- Quando il laccio stringeva, ebbe ancora la forza d’animo di sputare in faccia al governatore.
- A quel cane di Wan Guld?
- Sí, al duca fiammingo.
- Ancora lui! Sempre lui!... Ha giurato adunque un odio feroce contro di me? Un fratello ucciso a tradimento e due appiccati da lui!
- Erano i due piú audaci corsari del golfo, signore, è quindi naturale che li odiasse.
- Ma mi rimane la vendetta!... - gridò il filibustiere con voce terribile. - No, non morrò se prima non avrò sterminato quel Wan Guld e tutta la sua famiglia e dato alle fiamme la città ch’egli governa. Maracaybo, tu mi sei stata fatale; ma io pure sarò fatale a te!... Dovessi fare appello a tutti i filibustieri della Tortue ed a tutti i bucanieri di San Domingo e di Cuba, non lascerò pietra su pietra di te! Ora parla, amico: narrami ogni cosa. Come vi hanno presi?.
- Non ci hanno presi colla forza delle armi bensí sorpresi a tradimento quando eravamo inermi, comandante.
Come voi sapevate, vostro fratello si era diretto su Maracaybo per vendicare la morte del Corsaro Verde, avendo giurato, al pari di voi, di appiccare il duca fiammingo.Eravamo in ottanta, tutti risoluti e decisi ad ogni evento, anche ad affrontare una squadra, ma avevamo fatto i conti senza il cattivo tempo.All’imboccatura del Golfo di Maracaybo, un uragano tremendo ci sorprende, ci caccia sui bassi fondi e le onde furiose frantumano la nostra nave. Ventisei soli, dopo infinite fatiche, riescono a raggiungere la costa: eravamo tutti in condizioni cosí deplorevoli da non opporre la minima resistenza e sprovvisti di qualsiasi arma.Vostro fratello ci incoraggia e ci guida lentamente attraverso le paludi, per tema che gli spagnuoli ci avessero scorti, e che avessero incominciato ad inseguirci.Credevamo di poter trovare un rifugio sicuro nelle folte foreste, quando cademmo in una imboscata. Trecento spagnuoli, guidati da Wan Guld in persona, ci piombano addosso, ci chiudono in un cerchio di ferro, uccidono quelli che oppongono resistenza e ci conducono prigionieri a Maracaybo.
- E mio fratello era del numero?
- Sí, comandante. Quantunque fosse armato d’un pugnale, si era difeso come un leone, preferendo morire sul campo piuttosto che sulla forca, ma il fiammingo l’aveva riconosciuto ed invece di farlo uccidere con un colpo di fucile o di spada, l’aveva fatto risparmiare. Trascinati a Maracaybo, dopo di essere stati maltrattati da tutti i soldati ed ingiuriati dalla popolazione, fummo condannati alla forca. Ieri mattina però, io ed il mio amico Wan Stiller, piú fortunati dei nostri compagni, siamo riusciti a fuggire strangolando la nostra sentinella. Dalla capanna di un indiano presso il quale ci siamo rifugiati, abbiamo assistito alla morte di vostro fratello e dei suoi coraggiosi filibustieri, poi alla sera aiutati da un negro ci siamo imbarcati su di un canotto, decisi di attraversare il golfo del Messico e giungere alla Tortue. Ecco tutto, comandante.
- E mio fratello è morto!... - disse il Corsaro con una calma terribile.
- L’ho veduto come vedo ora voi.
- E sarà ancora appeso alla forca infame?
- Vi rimarrà tre giorni.
- E poi verrà gettato in qualche fogna.
- Certo comandante.-
Il Corsaro si era bruscamente alzato e si era avvicinato al filibustiere.
- Hai paura tu?... - gli chiese con strano accento.
- Nemmeno di Belzebú, comandante.
- Dunque tu non temi la morte?
- No.
- Mi seguiresti?
- Dove?
- A Maracaybo.
- Quando?
- Questa notte.
- Si va ad assalire la città?
- No, non siamo in numero sufficiente ora, ma piú tardi Wan Guld riceverà mie nuove. Ci andremo noi due ed il tuo compagno.
- Soli? - chiese Carmaux, con stupore.
- Noi soli.
- Ma che volete fare?
- Prendere la salma di mio fratello.
- Badate comandante! Correte il pericolo di farvi prendere.
- Tu sai chi è il Corsaro Nero?
- Lampi e folgori! È il filibustiere piú audace della Tortue.
- Va’ adunque ad aspettarmi sul ponte e fa preparare una scialuppa.
- È inutile, capitano, abbiamo il nostro canotto, una vera barca da corsa.
- Va’!
buona lettura a tutti.

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