bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 28 luglio 2016

sir

ma è singolare.
come Lavish Reynolds che assiste alla morte del suo uomo e chiama SIR il suo assassino, bisognerà essere altrettanto polite.
dopo aver letto con qualche smottamento interno i compensi dei dirigenti RAI, ora leggo che Carmen Lasorella, che percepisce 200.000 euro all'anno, non lavora in RAI da due anni. 
quindi ha percepito 400.000 euro in due anni per non fare nulla.
nell'intervista la lady si dice stupefatta, lei ha molto bisogno di lavorare, così dice. 
per lei il lavoro è vitale e per questo è stupefatta: non per la simpatica retribuzione pari a nessuna prestazione di lavoro, cui non accenna minimamente, ma per il fatto che, a fronte della sua assunzione in RAI, lei non lavora.
ha ben donde la lady di rimanere stupefatta, a chi vorremmo mai togliere il diritto vitale del lavoro?
quindi, io che lavoro per la struttura sanitaria nazionale e sono pagata dalla Regione Lombardia, sono laureata e spacializzata, e che prendo 27 euro lordi all'ora, devo essere ben contenta, a fronte di tale incommentabile pagamento, di ammazzarmi di lavoro e di responsabilità.
secondo la logica della lady, che condivide con me la dedizione al servizio pubblico, i miei diritti sono stati rispettati.
i suoi no.

se sono stata polite fuori, sono da kalashnikov dentro.




mercoledì 27 luglio 2016

mi sovvien l'eterno

sono pregevoli le mostre della triennale, la XXI.
le ultime due che ho visitato, New Craft alla Fabrica del Vapore e Neo Preistoria al Palazzo della Triennale, mi sono piaciute moltissimo.
ancora una volta l'allestimento della mostra è già una mostra in sé, si mette mirabilmente in mostra.
la prima si avvale di altissimi pannelli in un ambiente post moderno, neo archeologico, molto suggestivo. diversi video presentano le manifatture esposte, il valore del lavoro artigiano è visibile, tangibile, l'esposizione stessa ne conferma la competenza. si possono vedere oggetti di artigianato  -nuovi, recenti- pregevoli, dai tessuti alle biciclette, da oggetti in legno alle ceste, da stampanti in 3D a lavorazioni in denim.



la seconda si avvale di un ambiente scuro, ma via via sempre meno, poco illuminato e intimista, seppure moltiplicato attraverso molteplici specchi. lo spazio non è quindi percepito in modo netto e delimitato, ma solo intuito, anche immaginato come superiore, più ampio. credo che l'obiettivo sia quello di annullare le limitazioni spaziali per espandere quelle temporali, in modo che gli eventi del 2000 AC non siano necessariamente collocati lì, ma in una progressione logica evolutiva, come fossero accadute ieri, fino ai "successi" odierni. vengono presentati 100 verbi, ognuno coniugato a un oggetto archeologico o moderno, a segnare una scala evolutiva dell'uomo.
in entrambe le mostre l'uomo emerge come essere complesso ed evoluto, dominante sulla materia, capace di trasformarla, di adattarla al proprio benessere così come alla propria distruttività, al lusso, all'inutile.
ma, nel percorso della seconda, emerge bellissima, in quello strano buio avvolgente, una pagina, luminosa, quella su cui Leopardi ha scritto l'Infinito.
c'è la sua scrittura, ci sono le sue correzioni.
non ricordo il verbo, forse era creare.
certo che batteva forte il cuore, il punto progressivo massimo, lo sviluppo in crescita estrema esponenziale, lo avevo lì, davanti. oltre gli i-phone, oltre i missili, oltre le sonde e gli arti artificiali.
poesia, mi sovvien l'eterno.

lunedì 25 luglio 2016

klein



dice, il mondo a modo suo.
si certo, è ovvio.
il suo mondo non ha regola, ma moltissima verità.
certo, fotografa con il grandagolo, qualcosina si sgrana, si deforma: come lui stesso dice, quel che per altri fotografi -di certo amanti della perfezione assoluta come Herb Ritts non avrebbero esitato- erano scarti, per lui erano foto riuscite. la sua Leica, con due obiettivi, l'ha presa di seconda mano ma dalla mano di Cartier Bresson. un bel passaggio di testimone, a pensarci.
la sua street photography, ben diversa dalla realtà più intimista di Vivian Maier, è fulminante, viva, piena, ricchissima, milionaria.
sono interessanti alcune interpretazioni molto puntuali di alcune foto raccontate dall'audioguida della mostra. anche la foto, come un quadro, si può interpretare nelle sue componenti.
credo però che non fosse nelle intenzioni, piuttosto nell'intuizione, lo sguardo di Klein sul mondo.
quel che mi piace è che scompagina le carte, fuoca e sfuoca, si ferma e si muove, così come lo sguardo si muove. se qualcosa della fissità della fotografia non corrisponde alla realtà, quel suo movimento erratico, impreciso, matto, restituisce, invece, molto, moltissimo, del maltolto. 
a conti fatti, come spesso accade, lo scarto contiene il vero.




giovedì 21 luglio 2016

sottomissione

il fatto è che si presenta in sala con una giacca le cui maniche toccano la punta delle dita. lunghe.
lunghe anche mentre suona, meno lunghe, ma lunghe.
il fatto è che suona il piano come un genio e io sono affascinata da un genio che suona il piano.
il fatto è anche che dopo una serata deludente, e anche carica di iniziale paura, mi si presenta come un dio salvifico.
il teatro, il Parenti, è assediato dalla polizia, fuori una camionetta lampeggiante mi folgora, all'entrata dei poliziotti perquisiscono gli zaini dei ragazzi. non la mia borsa che, però, potrebbe contenere tranquillamente armi da fuoco, mi dico.
entro e mi siedo ma dopo poco mi assale la paura. è lunedì 18, il 14 il mondo è nuovamente impazzito e non sarà stata l'ultima volta e io mi sono messa a sedere in un teatro assediato dalla polizia, succedesse qualcosa non avrei via di scampo.
così si ragiona, oggi, adesso, così mi siedo a teatro, così vivo. 
sento calore alla faccia, sento pulsare, sento che sono ansiosa.
poi passa, mi dico che non posso fare diversamente, cioè vivere anche se in quel momento ho paura.
poi passa anche perchè progressivamente vengo delusa e la mia attenzione deviata.
introduce la serata certo Ranieri Polese che mi sembra non abbia molte idee in testa. si tocca di continuo, come un tic e forse per verificarne la tenuta, la testa e i capelli, la sua presentazione di Michel Houellebecq -motivo della polizia in assetto di guerra- è francamente ridicola. del suo libro, Sottomissione, cita la parte finale in cui il cinico protagonista si adatta alla supremazia islamica pensando che avrà nuove studentesse, con il velo, cui ispirarsi per le prossime avances.
d'altronde il libro, Sottomissione, non mi ha ispirato nessun pensiero, se non la riflessione di un 50enne sul viale del tramonto, cinico e triste, solo e disperato, prossimo al suicidio ma forse no, ancora aggrappato all'arrapamento sessuale come ancora di salvezza.
il testo che Houellebecq legge ripropone un personaggio in odore della stessa modalità, un vecchio solo, vicino alla morte, e ancora qualche riferimento sessuale non può mancare.
e di nuovo, per non smentirsi, a una domanda sull'attualità, così si dice, che Polese gli propone, risponde, o meglio non risponde, sostenendo, fuori tema, che le ragazze italiane gli sono sembrate infinitamente più sexy di quelle francesi. credo si riferisse alla modalità milanese, della milanese, di girare in città come fosse in spiaggia. e forse anche alla suprema elenganza delle francesi che a questa legge insana non si sottopongono. ma vai a capire che specie di bava scenda dalla bocca del signor Houellebecq, ah no, dice con convinzione che le francesi sono condizionate dall'islam, hanno paura e quindi si coprono.
questo è il livello della conversazione sostenuto al Franco Parenti in occasione di una delle ultime serate della Milansiana.
non mi soffermo sul tono della conversazione tra detto Houellebecq e certa Teresa Cremisi, che a sua volta presenta un testo semplicemente risibile sull'irritazione procuratole dell'inesattezza della ricostruzione mnemonica (qualcuno le regali un libro di Proust), la quale civetta con lo scrittore come fosse nel suo salotto di casa, con squittii e risatine, rea confessa e anche un po' oscena del godimento che le procura esercitare apertamente sulla scena il suo perfetto francese.
sto per svenire quando compare lui a salvarmi, con il suo look improbabile ma assolutamente amabile, Ramin Bahrami, Bach Mozart Bach (variazioni Goldberg) e ancora Mozart e Sibelius, nel finale.
avrei voluto baciarlo, colma di riconoscenza, ma sono inciampata nelle sue maniche.





venerdì 15 luglio 2016

Maudit soit à jamais le réveur inutile

Domandai perché le sembrasse tanto impossibile.
Per infinite ragioni - rispose - ma soprattutto perché il pensiero di far l'amore con me la sconcertava, l'imbarazzava: tale e quale come se avesse immaginato di farlo con un fratello, toh, con Alberto. Era vero, da bambina lei aveva avuto per me un piccolo «striscio»: e chissà, forse era proprio questo che adesso la bloccava talmente nei miei riguardi. Io... io le stavo «di fianco», capivo?, non già «di fronte», mentre l'amore (così almeno se lo figurava lei) era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele, feroce, ben più crudele e feroce del tennis!, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d'animo e onestà di propositi.
Maudit soit à jamais le réveur inutile
qui voulut le premier, dans sa stupidité,
s'éprenant d'un problème insoluble et stérile
aux choses de l'amour méler l'honnéteté!
aveva ammonito Baudelaire, che se ne intendeva. E noi? Stupidamente onesti entrambi, uguali in tutto e per tutto come due gocce d'acqua («e gli uguali non si combattono, credi a me!»), avremmo mai potuto sopraffarci l'un l'altro, noi, desiderare davvero di «sbranarci»? No, per carità. Visto come il buon Dio ci aveva fabbricati, la faccenda non sarebbe stata né augurabile né possibile. 
...
«Hai detto che noi due siamo uguali» dissi. «In che senso?» Ma sì, ma sì - esclamò - e nel senso che anch'io, come lei, non disponevo di quel gusto istintivo delle cose che caratterizza la gente normale. Lo intuiva benissimo: per me, non meno che per lei, più del presente contava il passato, più del possesso il ricordarsene. Di fronte alla memoria, ogni possesso non può apparire che delusivo, banale, insufficiente... Come mi capiva! La mia ansia che il presente diventasse subito passato perché potessi amarlo e vagheggiarlo a mio agio era anche sua, tale e quale. Era il nostro vizio, questo: d'andare avanti con le teste sempre voltate all'indietro. Non era così? 

siamo nel giardino dei Finzi Contini, di Giorgio Bassani.
il protagonista, narratore, non ha nome. per certi aspetti non ha nemmeno un corpo, se non quando prova un ardore fisico incontenibile, un'eccitazione sessuale.
Micol, invece, ha nome e un corpo, seppure mai descritto, desiderabile.
la scena principale del libro avviene nell'infanzia (da bambina lei aveva avuto per me un piccolo «striscio») dei due ragazzi, quando entrano in un antro buio a depositare una bicicletta e il protagonista avverte potentissimo un senso di disagio e smarrimento, è il presagio del desiderio sessuale, il mistero, l'enigma che incombe su tutti noi, anche quando pensiamo di averlo svelato.

All'infantile paura del buio e dell'ignoto che avevo provato nell'istante in cui mi ero separato da Micòl, si era venuto sostituendo, in me, a mano a mano che mi inoltravo nel budello sotterraneo, un senso non meno infantile di sollievo: come se, essendomi sottratto in tempo alla compagnia di Micòl, fossi scampato a un gran pericolo, al pericolo maggiore al quale un ragazzo della mia età («Un ragazzo della ma età» era una delle espressioni favorite di mio padre) potesse andare incontro. Eh, sì, pensavo: stasera, rincasando, il papà mi avrebbe magari picchiato. Però io le sue botte potevo ormai affrontarle tranquillamente. Una materia a ottobre: aveva ragione, Micòl, di riderci su. Che cos'era una materia a ottobre a paragone del resto - e tremavo - che laggiù, nel buio, sarebbe potuto succedere tra noi? Forse avrei trovato il coraggio di darle un bacio, a Micòl: un bacio sulle labbra. Ma poi? Che cosa sarebbe accaduto, poi? Nei film che avevo visto, e nei romanzi, i baci avevano voglia a essere lunghi e appassionati! In realtà, a confronto del resto, i baci non rappresentavano che un attimo in fondo trascurabile, se dopo che le labbra si erano congiunte, e le bocche quasi compenetrate una dentro l'altra, il filo del racconto non poteva il più delle volte essere ripreso prima del mattino successivo, o addirittura prima che fossero trascorsi vari giorni. Se io e Micòl fossimo arrivati a baciarci in quella maniera - e l'oscurità avrebbe certo favorito la cosa - dopo il bacio il tempo sarebbe continuato a scorrere tranquillo, senza che nessun intervento estraneo e provvidenziale potesse aiutarci a raggiungere la mattina seguente. Che cosa avrei dovuto fare, in tal caso, per riempire i minuti e le ore? Oh, ma questo non era accaduto, fortunatamente. Meno male che mi ero salvato. 
 
ora che sono adulti, Micol si nega, definitivamente, e quel che non era accaduto allora viene invece desiderato, ora, come salvifico.
ora che sono adulti Micol si oppone duramente all'amore, a quel sopraffarci l'un l'altro che le sembra crudele, feroce.
Micol sembra parlare in nome di una verità, che forse non riguarda l'amore, ma la morte.
lei sa, gli altri no, lei comprende che il futuro è carico di morte e di perdita, che solo il passato, il ricordo, rende possibile, fin che si può, questa vita.
il valore di questa previsione non è in sé, è per me dubitabile, è discutibile, sebbene citi Baudelaire!, ma è vero nella prospettiva di una storia destinata a finire, male, per lei e per molti ebrei come lei.
un bellissimo libro, indimenticabile.

giovedì 14 luglio 2016

Verba vana aut risui apta non loqui

ho visto Escher a Palazzo Reale.
un visionario ossessivo, se mai si può.
mirabile e geniale, talentuoso.
certamente anche freddo, lucido, matematico.
e ieri, al Franco Parenti, Milanesiana 2016, caspita se era tardi, me lo sono ritrovato, come riferimento visivo e immaginario, nel labirinto di un un monastero benedettino di regola cluniacense sperduto sui monti dell'Italia settentrionale. ero lì, in compagnia di Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, sulle scale e tra gli scaffali di una tortuosa e spaventevole biblioteca, ricca di meraviglie e di misteri, di manoscritti e incisioni, e, risalendo scendendo perdendosi, il riferimento alle prodezze escheriane era inevitabile.
il medioevo lo penso violento e senza legge e lo colloco, letterariamente, ne il Nome della Rosa, che è un bellissimo libro di Umberto Eco, e, anche, un notevole film di J.J.Annaud. avevo freddo guardando quei complessi architettonici mastodontici e svettanti, monasteri austeri e paurosi, provavo orrore davanti ai roghi dell'inquisizione ma anche molta ammirazione per chi, come Eco, ha saputo tessere una narrazione bella e intrigante intrisa di sapere e di storia, e per chi, come Annaud, ha saputo farne un film, autorevole e, appunto, escheriano.




alla fine era l'una e mezza, la città era vuota, le strade sgombre, faceva quasi freddo e, oggi, ho sonno ma sono in allerta, Verba vana aut risui apta non loqui.

lunedì 11 luglio 2016

al giardino ancora non l’ho detto

su un inserto del corriere ho trovato questa poesia di Emily Dickinson, che proprio non delude mai.

Al giardino ancora non l’ho detto –
non ce la farei.
Nemmeno ho la forza adesso
di confessarlo all’ape.
Non ne farò parola per strada –
le vetrine mi guarderebbero fisso –
che una tanto timida – tanto ignara
abbia l’audacia di morire.
Non devono saperlo le colline –
dove ho tanto vagabondato –
né va detto alle foreste amanti
il giorno che me ne andrò –
e non lo si sussurri a tavola –
né si accenni sbadati, en passant,
che qualcuno oggi
penetrerà dentro l’Ignoto.

la prospettiva della morte, forse che la Dickinson parli mai di qualcosa d'altro?, viene ribaltata.
la morte non riguarda noi, ma chi ci guarda, chi ci aspetta, chi pretende qualcosa da noi, forse pensandoci eterni.
l'ignoto ci ingloba e ignoti saremo, la nostra morte è una questione solo per chi rimane.
leave or remain.
e così è.

venerdì 8 luglio 2016

il tempo perduto per la tua rosa

se un primogenito sta facendo, ora, l'esame di maturità e intende fare medicina, le domande che mi pongo sono molte.
ieri sera ho sentito alla Milanesiana ospitata al teatro Franco Parenti -sono sempre lì, per un motivo o per un altro, perfino per i convegni su Lacan- le belle parole, e ed i bei modi -quanto hanno presa su di me, ormai- , di Alberto Mantovani e Gianvito Martino. Chi sono? Immunologo eccellentissimno il primo, neuroscienziato pregiatissimo, il secondo. Due medici, due persone eccelse, uno ti porta per mano nel mondo dell'immunologia mostrando quadri di Caravaggio e di Bruegel, l'altro ti incanta sulle straordinarie prestazioni del nostro cervello, macchina straordinaria ancora inimitabile. Mi sono ricordata, ma in linea di massima non me lo scordo, perché fare medicina è stata una gran scelta, perché mi piace, perché è immensa. 
perché è cultura e saper fare, perché non si impara mai, mai del tutto.
si interrogavano, i due sapienti, sul vanto di essere medico, sulla vanità del saper fare. non hanno dato risposte, consci del pregio del loro mestiere, ma quantomeno il loro atteggiamento, pubblico, sapeva virare su una consapevolezza moderata che non ostenta falsa modestia. 
un po' di ironia ha saputo condire al meglio l'indubitabile prestigio che li avvolge. 
poi leggo che un pediatra del San Matteo di Pavia che importuna con molestie una sua paziente di 13 anni e mi ricordo che quei medici sono uomini, penso che tutte le persone che lavorano in sanità dovrebbero andare in analisi (anche quelle che lavorano agli sportelli...si), ma questa è un'opinione molto personale. diciamo almeno tutti e proprio tutti quelli che lavorano in psichiatria. non c'è nulla di più nauseabondo di una figura, medica sanitaria psicoanalitica, che usa il proprio potere per soggiogare l'altro, per abusarlo, per plagiarlo, per farne un oggetto del proprio godimento, per fargli, alla fine, molto male.
poi le eccellenze italiane virano su Lapo Elkann e lì qualcosa si attorciglia in me, gli occhiali tartarugati e il completo rosso e la scarpina giusta sul pantalone corto che rigorosamente mostra la calza, mi gettano infastidita in un mondo spregevole per me, non vorremo certo paragonare il lusso inutile per pochi e stranoti arricchiti (con dubbio uso della costruzione della frase in italiano) con la possibilità di far muovere il braccio a un tetraplegico.
allora mi ricordo di nuovo dell'esame di maturità e della tesina sulla storia della chirurgia e mi auguro che qualcosa di buono si sia depositato per far germogliare la rosa del Piccolo Principe.

giovedì 7 luglio 2016

vanità, cosa vana

vanità.
cosa fatua o cosa vana?
in termini narcisistici o in termini di perdita?
Milanesiana 2016, sulla Vanità.
vi è una certa incongruità tra la mia disponibilità e quella delle sale e serate della Milanesiana, al momento sono andata a pochi incontri, avrei voluto fare di più e mi sono già persa una paio di personaggi molto interessanti.
per cominciare mi sono imbattutta nelle Frecce Tricolori, invitate al Dal Verme nella serata inagurale.
mi sono trovata a cantare l'inno d'Italia, in piedi nella sala, tra aitanti ragazzi in divisa da aviatore, la banda dell'ereonautica, generali ingessati e Dario Franceschini, ministro dei Beni Cuturali.
il paradosso vuole che me li sono guardati nei video sensazionali proiettati nel corso della serata e poi me li sono persi sul lago Maggiore, dal vivo, il sabato dopo. ho inseguito, in grave ritardo, qualche coda di verde ma il più me lo sono perso facendo la spesa: idiota.
sono rimasta contenta nel sentirli parlare, quei 10 bravi ragazzi, pony 1 o 3 o 4 o 7 o altro. sensati, posati, un buon uso dell'italiano. la domanda è : come fanno? ma è anche abbastanza ovvia. in ogni caso: che spettacolo.
dopo una serata al Teatro Grassi un lunedì, con un eccelso immenso Paolo Fresu accompagnato da Paolino Dalla Porta, mi sono poi ritrovata alla Galleria Jannone un martedì. 
niente di che, non da strapparsi i capelli. 
qualcosa si è spento, o in me o nella Milanesiana, o semplicemente nelle serate che ho scelto.
quel che noto è un certo pubblico, bene, molto bene, le sciure abbronzatissime già ai primi di luglio, i soldi che traboccano dalla tasche delle vacanze e manco l'ombra di un giovane. magari la Sgarbi dovrà ripensarci un attimo, ma credo che nemmeno se ne accorga, si guarda in giro per vedere se è arrivato suo fratello, cita spesso la madre e poi il padre, una questione di famiglia.
ho avuto modo di vedere, quel martedì, gli acquerelli di Patrice Moireau, ispirati alla Basilicata.
sono tenui, delicati, non rispondono all'immagine di quella terra che mi sono fatta leggendo Cristo si è fermato a Eboli, anche se il testo viene, a sproposito, spesso citato.
durezza asprezza povertà miseria desolazione aridità.
non ci siamo, è un'altra cosa quell'immagine assolata di Grassano, magari oggi anche veritiera rispetto ad allora, propone una bellezza fragile, ripetitiva, che non corrisponde a quel mondo antico, no.
una nota di merito: una signora anziana, molto anziana, elegantissima, nelle vesti e nei modi, attentissima, una presenza vera, accanto a me, seduta sulle scale.

la vanità è un pretesto per dare un nome a questa rassegna, per ora non ne ho colto il senso, ma la mia presenza è stata modesta.
vedremo nei giorni a venire.



venerdì 1 luglio 2016

D'ò

solo alla fine, quando ha rotto con una specie di martello da cucina, una palla di cioccolato ricoperta di una granola di lamponi, ho capito.
quel godimento di bambino nel mostrare i suoi giochi era una confessione della sua arte.
siamo al parco giochi, i suoi piatti sono la rivisitazione dei suoi giochi d'infanzia.
è come se avessi rivisto la cena inserita in un quadro di Savinio.
colori, palle, ruote, sorprese, sfere contenenti liquidi magici, scacchiere.
balocchi.
naturalmente odori, densissimi aromi mai prima gustati così fortemente in una cena.
ovviamente sapori, alcuni nettissimi, il dolce e l'acido/aspro soprattutto.
incredibilmente il calore, dosato in modo sapiente, sia dei piatti sia del cibo, capace di esaltare gli aromi.
grassi: nessuno. solo l'olio, in quantità minime sufficienti, ma non a vista, mai galleggiante.
ma forse nemmeno quello.
ho dormito benissimo, digerito magnificamente, anche questo la dice lunga.
quando ho messo in bocca il risotto, un capolavoro, ho avuto un sussulto. una strepitosa armonia mi ha trafitto, c'era qualcosa....buccia di limone. 
spesso irrompono piccole sorprese da bambino giocoso, una mandorla croccante, dei pistacchi, un aglio nero che sa di aglio, ma dolce e cremoso, e, soprattutto, vera spia dell'atmosfera infantile del gioco della cucina, piccole palline cariche di magia e sorprese di sapori. ecco una pallina di burro di cacao contente una piccola bomba di aceto, esplosione di stupore e gusto.
e voilà, siamo tutti a terra a giocare con  i trenini.
dall'altra parte tradisce un rigore ossessivo a tratti preoccupante, pulisce il tavolo con un dito per eliminare briciole infinitesimali rimaste sulla superficie, sposta cose e i piatti secondo un rigore mentale incrollabile, è magrissimo, non urla, quasi non parla ai suoi cuochi in cucina. siamo in un tavolo, speciale, adiacente alla cucina, aperta allo sguardo anche da fuori, grandi vetrate aprono lo spazio interno del ristorante allo spazio esterno della piazza. quindi vediamo tutto, sentiamo tutto, osserviamo tutto. ormai va così, il ristorante dei nuovi dei dell'epoca moderna apre la cucina, orgogliosamente, allo sguardo e giudizio del cliente.
piccola parentesi relativa alla domanda: come mai le cucine domestiche pullulano di femmine indaffarate con la pasta al pomodoro, il pollo arrosto, le zucchine trifolate e qui, come altrove ci sono solo e unicamente e rigorosamente e incredibilmente solo maschi? solo maschi, almeno nove cuochi che, con tutta calma, sfoderano tutto il loro elegante savoir faire. perché la cucina domestica è affare delle donne e quella dell'alta ristorazione è affare degli uomini? nemmeno una cameriera. qui.
anche le sedie, scomode, assolutamente scomode, io non tocco terra nemmeno con i tacchi e a tratti mi si intorpida la gamba destra, sono create in modo apposito per favorire l'appoggio di borse e cellulari (una debolezza, a parer mio, quella di aprire alla nuove dipendenze dell'uomo moderno), e, soprattutto, dice, per favorire la digestione da subito. guai accasciarsi, rimaniamo eretti, digeriremo prima, digeriremo meglio: anche questo accorgimento mi ha fatto pensare a un rigore infantile imposto da genitori vecchio stampo. "stai su, mangia bello dritto, giù i gomiti, dai Davide".
la percezione è che io non sia andata a cena, ma a una specie di rituale imposto dalla mente giocosa creativa geniale e ossessiva di un uomo che fa del cucinare la cura della sua nostalgia. 
non è apparso il pane per tutta la cena se non una fatta profumatissima a testa con l'arrivo del piatto di carne d'agnello. non siamo a tavola come di solito, sprofondati in comode poltrone, con il piattino del pane a fianco del piatto a gustare allegramente, ma siamo irrigimentati a tavola, seduti come soldatini,e al contempo chiamati a rispondere di una domanda: vi siete divertiti, tornate alla mia festa? erano belli i colori e i palloncini?
al D'ò, Davide Oldani.