bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 30 gennaio 2017

in uno stato di ferocissima superbia e furibonda audacia ti sto davanti

Mi hai strappato fuori da ogni gioia,
ma io ne soffrirò soltanto,
solo e unicamente, finché
ne avrò voglia, Signore.
In uno stato di ferocissima superbia
e furibonda audacia ti sto davanti.
Solleva la tua mano e fustigami,
vedrai che salterò sempre più in alto
e tu mi avrai davanti agli occhi in eterno,
una piccola sfera rossa e rabbiosa.
Ogni punto mi scaglia indietro verso di te
perché tu mi hai strappato via da quell’unico punto
in cui io ero cuore, gioiosa e tenera come un uccello,
per poi appallottolarmi
e scagliarmi nel dolore eterno.

Christine Lavant

e si può essere furibondi nella vita.
disperati e ostili.
vivere la morte in vita, come Christine Lavant, ribelle e blasfema.

A lungo ho vissuto come pietra 
sul fondo delle cose

domenica 29 gennaio 2017

quando una cosa felice cade

Che un giorno, uscendo dalla terribile visione,
io canti gloria con gioia ad angeli accoglienti.
Che nessuno dei netti, martellanti battiti del cuore
cada su corde deboli, incerte o sul punto di spezzarsi.
Che il mio viso inondato
mi renda più splendente; che la banalità del pianto
fiorisca. Come mi sarete care, allora,
notti angosciose. Vi avessi sopportato più in ginocchio,
sorelle
sconsolate, mi fossi abbandonato di più
nei vostri capelli disciolti. Noi, scialacquatori di sofferenze.
Impegnati come siamo a indovinarne, nella triste durata,
la possibile fine. Eppure
sono il nostro fogliame invernale, il nostro sempreverde
più buio,
uno dei tempi del nostro anno segreto –, non solo
tempo –, ma luogo, sede, rifugio, terreno, dimora.
...
Ma dovessero risvegliare per noi, i morti senza fine,
un’immagine,
vedi, indicherebbero forse gli amenti
dei nocciòli spogli, che pendono, o forse
anche la pioggia che cade a primavera sulla terra nera –.

E noi, che pensiamo alla felicità
come a qualcosa che sale, sentiremmo
l’emozione, che quasi ci sgomenta,
di quando una cosa felice cade.

La decima Elegia
Rainer Maria Rilke

ascoltavo Baricco, ieri sera.
iperboliche ossessioni mettono insieme cose diverse, parole e note.
ma qualcosa mi coglie, in questa poesia,
mi inchioda la parola, come sempre.
la caduta, il cedere, come forma di struggente felicità.
è un movimento che imita la morte, però.

venerdì 27 gennaio 2017

una scrittura sconcertante

la materia di Arnaldo Pomodoro è incandescente.
brilla, è lucida e splendente. in superficie
ma nasconde un mistero.
è magmatica e lavica. dentro
l'effetto per me è magnetico, qui nella sala delle Cariatidi di Palazzo reale di questa città che amo immensamente (quanti regali mi ha fatto questa città?).
la sfera inganna con la sua perfezione, un'altra sfera all'interno è rotta, corrotta, infida.
la materia mostra una faccia, ma ne contiene un'altra
così io leggo, guardando questi capolavori di scultura e ingegno e pensiero.
una parete mostra una battaglia, si ispira a quell'altro genio di Paolo Uccello, che ho tanto amato nei miei studi liceali, e ora mi appare diversa, meccanica e dura, materica e spigolosa, tagliente, ma che forza.
che schianto.
sono ipnotizzata da questo artista, la scultura mi riserva sorprese impensate, emozionanti.



Ecco ciò che mi muove a fare le sfere: rompere queste forme perfette e magiche per scoprirne (cercarne, trovarne) le fermentazioni interne, misteriose e viventi, mostruose e pure; così provoco col lucido levigato un contrasto una tensione discordante, una completezza fatta di incompletezze. Nello stesso atto, mi libero di una forma assoluta. La distruggo. Ma insieme la moltiplico.
Arnaldo Pomodoro

giovedì 26 gennaio 2017

Shirin Neshat


Women of Allah

lunedì 23 gennaio 2017

giù tu, giù noi.

mi ricordo che la domanda era la stessa.
ero insistente.
non capivo.
e la risposta non mi risultava soddisfacente. né mio padre né mio fratello mi dicevano qualcosa che mi spiegasse il perchè. mia madre stava zitta, mi guardava con un sorriso quieto, forse un filo preoccupato.
domanda offerta?
leggi del mercato?
consuetudine italiana/mondiale insostituibile?
Rossa, non c'è nulla di comparabile al calcio.
e io insistevo: disuguaglianza sociale, tempi barbari, lotta di classe, società malata, sistema sbagliato.
ci facevo solo la parte della ragazzina che votava lotta comunista senza capire.
di nuovo, mi sorridevano, stai calma, non ti agitare, ti passerà. capirai.
probabilmente non capivo, certamente ero ignorante, fanatica, ma ero genuina.
certamente autentica.
non capivo.
il problema è che, sebbene i tempi siano molto cambiati e la parola lotta di classe faccia venire i brividi per la sua obsolescenza, io continuo a non capire.
vedo un mondo di volontariato e di dedizione che pesa molto, che vale molto, che rende molto.
rende vite umane.
c'è forse consuetudine italiana/mondiale più radicata di questa? della vita umana?
io un vigile del fuoco lo pagherei anche più di un calciatore, dovrebbe esserci un mercato incandescente, cifre esorbitanti, squadre di altissimo livello, competizioni internazionali.
trofei nazionali.
coppe.
premi.
no dai, mi sbaglio, mi sbaglio perché chi fa questa scelta, chi veste questo onore, che si dedica, chi lotta e non per un pallone dentro a una rete bucata ha già raggiunto il suo goal, e un mercato di denaro intorno a quel valore lo tradirebbe nella sua vocazione.
avanti così, nonostante la rabbia di un mondo sbagliato, calciatori idioti e vigili del fuoco stellari.
giù tu, giù noi.

venerdì 20 gennaio 2017

pinocchio

buongiorno,
vi scrivo per esprimere il mio rammarico per lo spettacolo Pinocchio.
vado molto a teatro, da molti anni e molto al Piccolo teatro (per quanto per quest'anno la programmazione sia piuttosto deludente, fatta eccezione per Elvira e i soliti Lehman Trilogy e Sanghenapule, già visti).
penso di non aver mai visto uno spettacolo più brutto, imbarazzante, volgare, povero di contenuti (il siparietto di Mangiafuoco sui monologhi teatrali? le battute di Arlecchino volgari e immensamente banali? la scopiazzata dell'Arlecchino di Soleri di Geppetto che mangia la mosca? che trovate originali!), urlato, sguaiato e piagnucoloso, noioso, scomposto. uno spettacolo inguardabile, fastidioso.
mi dispiace per Pinocchio, capolavoro della creatività e della lingua italiana, trasformata in una farsa indigeribile.
alla fine del primo tempo molta gente, davvero molta gente, come me, ha preso cappotti e bambini e se ne è andata a casa, sconcertata di tanta bruttezza. ci si guardava increduli e sono stati scambiati commenti molto pesanti. il bambino dietro di me, oltre a essere molto annoiato, non faceva che dire: che schifo, ma che schifo. tutti a casa.
mi domando cosa sia successo alla direzione del Piccolo Teatro: non siete più in grado di riconoscere la spazzatura?

cordiali saluti
Rossa

martedì 17 gennaio 2017

Agnus Dei


capolavoro al femminile.
l'unico uomo in campo, sarà stato voluto o no, risulta quasi ridicolo.
ma mostra bene quel che emerge forte e chiaro: il mistero della femminilità.
interroga, banale ed elementare, la protagonista del film, fa domande e non capisce niente: tu e i tuoi misteri, dice. e affoga nella semplicità delle sue interrogazioni, ignaro di tutto.
così è, il femminile è mistero, la donna è mistero, la maternità è mistero.
le donne, medici o suore, mostrano la potenza del femminino.
incredibilmente le suore che diventano madri mostrano con un'espressività inaspettata il senso della maternità, il suo potere rivoluzionario, l'intensità del corpo che cambia e genera la vita con immensi stupore e paura, la violenza del parto, l'accettazione della nascita, la mistica della devozione materna o la dannazione del rifiuto materno.
su tutte la madre superiora protegge fino alla crudeltà il valore del mistero. il mistero che lei cela è quello della vergogna e del disonore, ma la metafora di cui ci parla il film è il mistero inviolabile della femminilità. mistero, di altro non si tratta che mistero, di quell'essere donna che nessuno può afferrare, nemmeno e tanto meno con la violenza.
straordinaria la complicità tra Mathilde e Maria, il medico e la suora, oltre le convenzioni, oltre le divise, oltre la religione. si consegnano l'una all'altra creando un coro a due voci altissimo, momenti di confidenza tra loro che fanno venire i brividi. emergono la sorellanza, la condivisione, la vicinanza, la fede e la disillusione, l'orrore e la speranza che si confondono di continuo, una lotta  sincera per fare qualcosa della vita che abbiamo, ognuna a suo modo.
le riprese sulla comunità e sulle due donne sono bellissime, semplicemente bellissime, cupe a volte ma anche illuminate dal contrasto e dal profilo chiaro scuro.
un film così è una rarità. un gioiello prezioso da custodire nella memoria.
almeno, io, farò così.

Agnus Dei 
Un film di Anne Fontaine. Con Lou de Laâge, Agata Buzek, Agata Kulesza, Vincent Macaigne, Joanna Kulig.  Titolo originale Les innocentes. Francia, Polonia 2016.

venerdì 13 gennaio 2017

Steichen


Rodin


Mrs Philip Lydig

lunedì 9 gennaio 2017

nulla dies sine linea

c'è uno in Triennale, che ha lasciato aperta la porta del suo inconscio.
e così tutti ci possono entrare.
un grande coraggio, spogliarsi così.
squarciarsi così.
ne sono uscita estraniata, mi sono sentita invadente, siete sicuri che abbia dato il suo consenso?
la stanza armadio
i disegni le donne le bocche le unghie
il dolore
il bianco dei merletti e il sapore del mare
l'incontro con il femminino
l'esperienza masturbatoria
la pulsione erotica
le impronte dei denti decorative su tavoli
lingue in pronto soccorso
la maestra e gli studenti pupazzo
la VOCE
pupazzi, piccoli animaleschi, lunghi giganteschi
luci basse
quaderni museo
parole ricamate
onde vento uccelli e musica
culle  termiche
diari come reliquie
giacche camicie e suoni di Sardegna, divise da scolari e vestiti da bambole
gonna torre, altare della donna.
sottovesti come lampade, camicie come sculture.

memorie ricordi oggetti e stracci vestigia e illusioni altari e orrori cassetti e armadi, i fantasmi di Antonio Marras, stilista artista contemporaneo di origine sarde, sono in scena, senza pudore.
finchè non cambia idea, andateci, è un'apertura, una beanza, un'oscillazione inconscia di rara consuetudine.

domenica 8 gennaio 2017

infine, le città invisibili

era BookCity.
sempre il 19. quasi il 20 novembre.
era l'ex Ansaldo.
era notte, c'era anche una tromba che suonava illuminata da luce livida blu.

era tardi e ascoltavo di Moriana, Clarice, Eusapia e Bersabea da gente che non conosco. e che ho invidiato in quel ruolo.
una maratona notturna dedicata alle Città Invisibili (ma anche altro).
mi sono ritrovata in questa narrazione fantastica e ho pensato: Calvino è immenso.
immenso immenso, una mente lucida penetrante acuta colta visionaria.
forse una mente che ha visto, per un attimo, qualcosa della verità.
le avevo già lette, le sue città, ma certe cose non si leggono la prima volta. non si vedono. quel che posso capire ora non ha niente a che vedere con quel che ho letto e capito allora.
la mia mente è cresciuta e le città invisibili sono rimaste tutte lì ad aspettarmi.
pazienti
magiche
esaltanti
orribili
vitali o mortifere
presenti o passate
reali o immaginarie
ricche o povere
lo sforzo di Calvino è, da una parte, squisitamente intellettuale, un esercizio di stile letterario, dall'altra è una costruzione fantastica di un profilo umano, di un carattere irripetibile dell'umanità.
da una città all'altra si rimbalzano immagini architettoniche e destini storici ma si parla di uomini e di desiderio. la costruzione del desiderio (come lo era dell'amore per Fossati che lo vedeva crescere con un grattacielo di cento piani) passa attraverso l'immaginare mille e infinite città fino alla scultura di un volto, quello dell'uomo, e delle sue infinite possibilità espressive.
non c'è un desiderio, non c'è una città, non c'è una via e un suo abitante, non c'è uno stile, non c'è una verità, ce ne sono molti, tanti quanti sono gli uomini che abitano il mondo.
le donne città di Calvino sono invisibili agli occhi, si leggono con la mente, e sono potenzialmente infinite. le donne città di Calvino sono desiderabili e fanno paura, sono una visione impossibile, archeologica e futurista, dell'architettura umana, eppure qualcosa ci tocca. in ognuna di loro, come ogni donna ci tocca, come ogni passione, come ogni talento, come ogni paura, come ogni fantasia.
desiderabile e paurosa, questa è la città donna di Calvino.
su tutto domina il registro di Maro Polo e di Kublai Kan, che insieme inseguono una costruzione fantastica di un impero immenso, commentano atti e evoluzioni, costruzioni e dissolvimenti, vita e morte all'interno di un perimetro possibile, quello delle città e dell'atlante che le contiene.
città di un immenso impero, che ora si allarga e prospera, ora si disintegra e frana, ora promette meraviglie e accessi paradisiaci, poco dopo prefigura futuri infernali e apocalittici,
città senza tempo, quelle di Calvino, si legge e ci si anima di un tempo arcaico, archeologico, decaduto oppure futuribile, inimmaginabile, avveniristico, oppure presente, attuale, inesorabile.
e allora, mi parli di Valdrada e di Despina, poi mi citi Nuova York, Los Angeles, Kyoto?
ma come mi inventi Zoe e Anastasia e poi mi citi Cartagine, Costantinopoli e Gerusalemme?
certo parli di Urbino, un palazzo che anziché sorgere dentro le mura d'una città contiene una città tra le sue mura, e sembri raccontare una tua città invisibile, e così per una Cuzco a pianta raggiata e multipartita che riflette l'ordine perfetto degli scambi, una Messico verdeggiante sul lago dominato dalla reggia di Moctezuma, una Novgorod con le cupole a bulbo, una Lhassa che solleva bianchi tetti sopra il tetto nuvoloso del mondo.
in che luogo siamo?
in che mondo siamo?
in che tempo siamo?
quello dell'uomo? quello del sogno? quello della storia? quello della letteratura?
quello del desiderio: farlo durare e dargli spazio.

Il Gran Kan possiede un atlante i cui disegni figurano l'orbe terracqueo tutt'insieme e continente per continente, i confini dei regni più lontani, le rotte delle navi, i contorni delle coste, le mappe delle metropoli più illustri e dei porti più opulenti. Ne sfoglia le carte sotto gli occhi di Marco Polo per mettere alla prova il suo sapere. Il viaggiatore riconosce Costantinopoli nella città che incorona da tre rive un lungo stretto, un golfo sottile e un mare chiuso; ricorda che Gerusalem sovra duo colli è posta, d'impari altezza, e volti fronte a fronte; non esita nell'indicare Samarcanda e i suoi giardini. Per altre città fa ricorso a descrizioni tramandate di bocca in bocca, o tira a indovinare basandosi su scarsi indizi: così Granada, iridata perla dei Califfi, Lubecca, lindo porto boreale, Timbuctù che nereggia d'ebano e biancheggia d'avorio, Parigi dove milioni d'uomini rincasano ogni giorno impugnando un filone di pane. In miniature colorate l'atlante raffigura luoghi abitati di forma insolita: un'oasi nascosta in una piega del deserto da cui spuntano solo le cime delle palme è di sicuro Nefta; un castello tra le sabbie mobili e le mucche che brucano prati salati dalle maree non può non ricordare il Monte San Michele; e non può essere che Urbino un palazzo che anziché sorgere dentro le mura d'una città contiene una città tra le sue mura. L'atlante raffigura anche città di cui né Marco né i geografi sanno se ci sono e dove sono. Ma che non potevano mancare tra le forme di città possibili: una Cuzco a pianta raggiata e multipartita che riflette l'ordine perfetto degli scambi, una Messico verdeggiante sul lago dominato dalla reggia di Moctezuma, una Novgorod con le cupole a bulbo, una Lhassa che solleva bianchi tetti sopra il tetto nuvoloso del mondo. Anche per queste Marco dice un nome, non importa quale , e accenna a un itinerario per andarci. SI sa che i nomi dei luoghi cambiano tante volte quante sono le lingue forestiere; e che ogni luogo può essere raggiunto da altri luoghi, per le strade e le rotte più diverse, da chi cavalca carreggia remavola. - Mi sembra che tu riconosci meglio le città sull'atlante che a visitarle di persona, - dice a Marco l'imperatore richiudendo il libro di scatto. E Polo: - Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti. Il tuo atlante custodisce intatte le differenze: quell'assortimento di qualità che sono come le lettere del nome. Il Gran Kan possiede un atlante in cui sono raccolte le mappe di tutte le città: quelle che elevano le loro mura su salde fondamenta, quelle che caddero in rovina e furono inghiottite dalla sabbia, quelle che esisteranno un giorno e al cui posto ancora non s'aprono che le tane delle lepri. Marco Polo sfoglia le carte, riconosce Gerico, Ur, Cartagine, indica gli approdi alla foce dello Scamandro, dove le navi achee per dieci anni attesero il reimbarco degli assedianti, fino a che il cavallo inchiavardato da Ulisse non fu trainato a forza d'argani per le Porte Scee. Ma parlando di Troia, gli veniva d'attribuirle la forma di Costantinopoli e prevedere l'assedio con cui per lunghi mesi la stringerebbe Maometto, che astuto come Ulisse avrebbe fatto trainare le navi nottetempo su per i torrenti, dal Bosforo al Corno d'Oro, aggirando Pera e Galata. E dalla mescolanza di quelle due città ne risultava una terza che potrebbe chiamarsi San Francisco e protendere ponti lunghissimi e leggeri sul Cancello d'Oro e sulla baia, e arrampicare tramvai a cremagliera per vie tutte in salita, e fiorire come capitale del Pacifico di lì a un millennio, dopo il lungo assedio di trecento anni che porterebbe le razze dei gialli e dei nei e dei rossi a fondersi insieme alla superstite progenie dei bianchi in un impero più vasto di quello del Gran Kan. L'atlante ha questa qualità: rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome. C'è la città a forma di Amsterdam , semicerchio rivolto a settentrione, coi canali concentrici: dei Principi dell'Imperatore , dei Signori; c'è la città a forma di York, incassata tra le alte brughiere, murata, irta di torri; c'è la città a forma di Nuova Amsterdam detta anche Nuova York, stimata di torri di vetro e acciaio su un'isola oblunga tra due fiumi, con le vie come profondi canali tutti diritti tranne Broadway. Il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere. Dove le forme esauriscono le loro variazioni e si disfano, comincia la fine delle città. Nelle ultime carte dell'atlante si diluivano reticoli senza principio né fine, città a forma di Los Angeles, a forma di Kyoto-Osaka, senza forma.
... 
Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butwa, Brave New World. 
Dice:- Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. E Polo:- L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Eufemia

A ottanta miglia incontro al vento di maestro l'uomo raggiunge la città di Eufemia, dove i mercanti di sette nazioni convengono a ogni solstizio ed equinozio. La barca che vi approda con un carico di zenzero e bambagia tornerà a salpare con la stiva colma di pistacchi e semi di papavero, e la carovana che ha appena scaricato sacchi di noce moscata e di zibibbo già affastella i suoi basti per il ritorno con rotoli di mussola dorata. Ma ciò che spinge a risalire fiumi e attraversare deserti per venire fin qui non è solo lo scambio di mercanzie che ritrovi sempre le stesse in tutti i bazar dentro e fuori l'impero del Gran Kan, sparpagliate ai tuoi piedi sulle stesse stuoie gialle, all'ombra delle stesse tende scacciamosche, offerte con gli stessi ribassi di prezzo menzogneri. Non solo a vendere e a comprare si viene a Eufemia, ma anche perché la notte accanto ai fuochi tutt'intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili, o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice - come "lupo", "sorella", "tesoro nascosto", "battaglia", "scabbia", "amanti" - gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio.

martedì 3 gennaio 2017

Zobeide

Di la', dopo sei giorni e sette notti, l'uomo arriva a Zobeide città bianca, ben esposta alla luna, con vie che girano su sé stesse come in un gomitolo. Questo si racconta della sua fondazione: uomini di nazioni diverse ebbero un sogno uguale, videro una donna correre di notte per una città sconosciuta, da dietro, coi capelli lunghi, ed era nuda. Sognarono d'inseguirla. Gira gira ognuno la perdette. Dopo il sogno andarono cercando quella città; non la trovarono ma si trovarono tra loro; decisero di costruire una città come nel sogno. Nella disposizione delle strade ognuno rifece il percorso del suo inseguimento; nel punto in cui aveva perso le tracce della fuggitiva ordinò diversamente che nel sogno gli spazi e le mura in modo che non gli potesse più scappare. Questa fu la città di Zobeide in cui si stabilirono aspettando che una notte si ripetesse quella scena. Nessuno di loro, né nel sonno né da sveglio, vide mai più la donna. Le vie della città erano quelle in cui essi andavano al lavoro tutti i giorni, senza più nessun rapporto con l'inseguimento sognato. Che del resto era già dimenticato da tempo. Nuovi uomini arrivarono da altri paesi, avendo avuto un sogno come il loro, e nella città di Zobeide riconoscevano qualcosa delle vie del sogno, e cambiavano di posto a porticati e a scale perché somigliassero di più al cammino della donna inseguita e perché nel punto in cui era sparita non le restasse via di scampo. I primi arrivati non capivano che cosa attraesse questa gente a Zobeide, in questa brutta città, in questa trappola.

Tecla

Chi arriva a Tecla, poco vede della città, dietro gli steccati di tavole, i ripari di tela di sacco, le impalcature, le armature metalliche, i ponti di legno sospesi a funi o sostenuti da cavalletti, le scale a pioli, i tralicci. Alla domanda: - Perché la costruzione di Tecla continua così a lungo? - gli abitanti senza smettere d'issare secchi, di calare fili a piombo, di muovere in su e in giù lunghi pennelli. - Perché non cominci la distruzione, - rispondono. E richiesti se temono che appena tolte le impalcature la città cominci a sgretolarsi e a andare in pezzi, soggiungono in fretta, sottovoce: - Non soltanto la città. Se, insoddisfatto delle risposte, qualcuno applica l'occhio alla fessura d'una staccionata, vede gru che tirano altre gru, incastellature che rivestono altre incastellature, travi che puntellano altre travi. - Che senso ha il vostro costruire? - domanda. - Qual è il fine d'una città in costruzione se non una città? Dov'è il piano che seguite, il progetto? - Te lo mostreremo appena termina la giornata; ora non possiamo interrompere, - rispondono. Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere. 
È una notte stellata. - Ecco il progetto, - dicono.

lunedì 2 gennaio 2017

Olinda

A Olinda, chi ci va con una lente e cerca con attenzione può trovare da qualche parte un punto non più grande d'una capocchia di spillo che a guardarlo un po' ingrandito ci si vede dentro i tetti le antenne i lucernari i giardini le vasche, gli striscioni attraverso le vie, i chioschi nelle piazze, il campo per le corse dei cavalli. Quel punto non resta lì: dopo un anno lo si trova grande come un mezzo limone, poi come un fungo porcino, poi come un piatto da minestra. Ed ecco che diventa una città a grandezza naturale, racchiusa dentro la città di prima: una nuova città che si fa largo in mezzo alla città di prima e la spinge verso il fuori. Olinda non è certo la sola città a crescere in cerchi concentrici, come i tronchi degli alberi che ogni anno aumentano d'un giro. Ma alle altre città resta nel mezzo la vecchia cerchia delle mura stretta stretta, da cui spuntano rinsecchiti i campanili le torri i tetti d'embrici le cupole, mentre i quartieri nuovi si spanciano intorno come da una cintura che si slaccia. A Olinda no: le vecchie mura si dilatano portandosi con sé i quartieri antichi, ingranditi mantenendo le proporzioni su un più largo orizzonte ai confini della città; essi circondano i quartieri un po' meno vecchi, pure cresciuti di perimetro e assottigliati per far posto a quelli più recenti che premono da dentro; e così via fino al cuore della città: un'Olinda tutta nuova che nelle sue dimensioni ridotte conserva i tratti e il flusso di linfa della prima Olinda e di tutte le Olinde che sono spuntate una dall'altra; e dentro a questo cerchio più interno già spuntano - ma è difficile distinguerle - l'Olinda ventura e quelle che cresceranno in seguito.

domenica 1 gennaio 2017

la grande paura

La storia della mia persona 
è la storia di una grande paura 
di essere me stessa, 
contrapposta alla paura di perdere me stessa, 
contrapposta alla paura della paura. 
Non poteva essere diversamente: 
nell’apprensione si perde la memoria, 
nella sottomissione tutto. 
Non poteva 
la mia infanzia, 
saccheggiata dalla famiglia, 
consentirmi una maturità stabile, concreta. 
Né la mia vita isolata 
consentirmi qualcosa di meno fragile 
di questo dibattermi tra ansie e incertezze. 
All’infanzia sono sopravvissuta, 
all’età adulta sono sopravvissuta. 
Quasi niente rispetto alla vita. 
Sono sopravvissuta, però. 
E adesso, tra le rovine del mio essere, 
qualcosa, una ferma utopia, sta per fiorire. 

Piera Oppezzo

è la giornata giusta per mettere a posto riprendere in mano le ultime La lettura e rivederne articoli già letti leggere di immortalità Piera Oppezzo David Maria Turoldo nuova Feltrinelli capitali dell'umanità populismo a due facce Oliver Roy e islamizzazione del radicalismo
punto
oggi è anche la giornata giusta per avere paura
Ho paura.