bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

mercoledì 31 maggio 2017

un po' di rosso nella voce

Quelle volte in cui la punta del cuore
ti sale in gola,
ti mette un po' di rosso
nella voce

Franco Arminio
Cedi la strada agli alberi

viva l’individuo. e il duale scomparve

Il Duale è il numero grammaticale, intermedio tra il singolare e il plurale, che indica due sole persone o cose o il fatto che l’azione è compiuta o subita da due sole persone; tipico delle lingue indeuropee antiche (sanscrito, greco antico, paleoslavo), è superstite in latino e in alcune lingue moderne solo in alcune forme atrofizzate o fossili, di solito indicanti numerali o «paia naturali» come occhi, mani, narici. Il duale si trova in greco antico nei poemi omerici come l’Iliade e l’Odissea, ma il suo uso è sporadico, e dettato soprattutto da ragioni poetiche o metriche. Nel greco classico sopravvive in alcune espressioni arcaizzanti dell’attico, il dialetto di Atene, fino al V secolo a.C., mentre altri dialetti greci lo perdono già dal VII secolo a.C. Il latino non ha il duale, tranne sopravvivenze nelle parole ambo (entrambi) e duo (due). Relitti del duale sono presenti anche in ebraico biblico e in arabo, e in molte lingue moderne, di solito per indicare le parti doppie del corpo, oppure, in inglese, per distinguere l’uno fra due dall’uno fra molti, come nelle espressioni both (entrambi), neither (nessuno dei due), former/latter (primo/ultimo dei due), between (fra due). È interessante che nelle lingue slave sia esistito più a lungo, fino al Medioevo, e in alcune lingue sami o lapponi sopravviva tuttora per indicare pronomi personali duali, che esprimono il concetto di Noi Due in contrasto con Noi.
L’atrofizzazione del duale caratterizza le lingue indoeuropee occidentali fin dalla preistoria, ma le sue ragioni non sono del tutto chiare. Di solito si ritiene il prodotto di un processo di sincretismo o assimilazione, che porta a una progressiva semplificazione (si pensi alla riduzione dei casi dagli otto del sanscrito ai cinque del greco antico, e all’ulteriore semplificazione del greco moderno, oppure alla scomparsa del genere neutro in molte lingue). Alcuni studi sul rapporto del sanscrito con le lingue indiane che ne sono derivate hanno identificato un rapporto fra la scomparsa del duale e il cambiamento del pensiero in direzione di una più marcata consapevolezza o enfatizzazione del concetto di unità. Secondo questa teoria, nella forma mentis arcaica, due cose connesse intimamente non erano considerate come separate e venivano espresse come un tutto.
A tal proposito alcuni linguisti usano il termine tedesco Gestalt, «forma» nel senso di «configurazione di un tutto significativo», il principio per cui in alcune lingue, fra cui il latino, per esprimere numerali come «diciotto» si dice «venti meno due», mettendo a fuoco prima il gruppo più ampio, poi i dettagli. Quando, però, l’idea di unità divenne preminente, parve sufficiente distinguere fra singolare e plurale. Soltanto una semplificazione o l’affermazione dell’individuo a scapito del pensiero universalistico degli antichi? Come la sopravvivenza di forme del duale ha una sua utilità in molte lingue odierne, tornare a pensare e agire anteponendo la collettività al singolo è oggi più che mai auspicabile.

di Livia Capponi
La Lettura
7 maggio 2017

venerdì 26 maggio 2017

Frecciarossa 9726

lasciamo dietro le macchine come fossero bambini piccoli che arrancano dietro a un adulto di fretta.
il braccio teso, strattonato.
vado a Torino per il convegno e sono su questo alligatore dal muso allungato. misterioso e seducente.

quanto va veloce?
e' pazzesco.
sembra di mangiarsi il futuro.

quadri da un'esposizione

promenade
lo gnomo (crudele)

promenade
il castello italiano (nenia)

promenade
i bambini ai giardini delle Tuileries (delizioso)
Bydlo (carro nel fango, fatica)
promenade
balletto dei pulcini (armonie moderne)

i due ebrei, ricco e povero (aggressivo e lagnoso)

promenade (quasi uguale alla prima, ma non del tutto)
il mercato di Limoges (frenetico, disordine, mucca perduta e ritrovata)
catacombe (con mortuis) (omino con la lanterna, tetro, nebbioso)

Baba Jaga, la capanna con le zampe di gallina (paura, panico)

la grande porta di Kiev (inno battesimale ortodosso. (grandioso, trionfale)

Piano City 2017
Quadri da un'esposizione, Ricordo di Viktor Hartmann (in russo: Картинки с выставки – Воспоминание о Викторе Гартмане? Kartinki s vystavki – Vospominanie o Viktore Gartmane, 1874), suite per pianoforte a soggetto di Modest Petrovič Musorgskij.
Triennale, piano lesson di Michele Campanella.
mi spiega la storia, i quadri di Hartmann, la musica, i passaggi, la modernità.
mi esalta.

un'esplosione.
al teatro dell'Arte, domenica 21 maggio, si è verificato un botto.
il mio.
sono rimasta folgorata, da tutto, dalla bellezza dalla bravura, dalla sorpresa.

Piano City mi ha entusiasmata ho visto, sentito bellissimi concerti, ho vissuto indimenticabili momenti.
intanto questo, il vertice di tutto.


giovedì 25 maggio 2017

world press photo

Galleria Sozzani.
world press photo 2017.
non sono molte le foto che mi sono piaciute.
ritrarre l'orrore, offrirlo al pubblico, è buon giornalismo, forse, ma non sempre buona fotografia.
la foto vincitrice è una buona foto o solo una foto fortunata, per tempi e per luogo?
è una foto opportunista, io direi. 


















altri reportage sono anonimi, inutili, non mi toccano, come l'omosessualità tra i rugbisti. 
girando tra le foto mi sono detta che se devo leggere la didascalia per capire allora non è una buona foto quella che sto guardando: se una foto va spiegata, presentata, allora non ha centrato il suo obiettivo. 
letteralmente parlando.
o forse mi sbaglio, non so. 

















la mia favorita:


daily-life 
Wang Tiejun

martedì 23 maggio 2017

attenti a non smarrire il pudore del LEI

Usare il Lei significa non privare il linguaggio del senso del pudore.
Così avviene quando questo modo di esprimersi (peraltro non presente in tutte lingue) è fedele a se stesso. Mario Rigoni Stern ripensò più volte a un episodio da lui raccontato nel suo famoso libro sulla campagna di Russia, Il sergente nella neve. Era in fuga, spaesato, la fame e il freddo non gli davano tregua. Ecco un’isba; entra, c’erano soldati sovietici e cibo caldo. Lo condivisero. «Perché non mi hanno sparato?», si chiese anni dopo. Si rispose: «Perché ho bussato». Se non l’avesse fatto, una raffica l’avrebbe colpito.
Nella comunicazione linguistica il Lei equivale a quel bussare. Un’irruzione troppo frettolosa uccide le potenzialità contenute nel Tu. Anche nel linguaggio il pudore è una tutela dell’intimità, una relazione, quest’ultima, che diviene autentica solo se protetta. Il precipitarsi dentro la casa altrui è una mancanza di rispetto che nella vita e nella lingua ostacola l’ospitalità.
Bussate e vi sarà aperto? Non sempre ciò avviene; a volte la porta resta sprangata. In questo caso il Lei è— o era — una forma per tenere le distanze. Sono state molte le nuore costrette a dare sempre del Lei alle proprie suocere, situazione asimmetrica specie quando la suocera dava del Tu alla propria nuora, spesso qualificata solo come moglie di suo figlio, vale a dire come un Ella. In questo caso il Lei era sigillo di distanza e non già di rispetto. Ricorrere alla terza persona per parlare con chi ci sta di fronte a volte significa essere costretti a stare sine die in anticamera.
Sul piano del comportamento un procedimento analogo lo si ha quando si è di fronte ad un’altra persona: può restare per sempre «altra», oppure può diventare prossimo. L’evangelica parabola del «buon samaritano» ( Luca 10, 29-37) mette in campo le due alternative. Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, incappò nei briganti e cadde mezzo morto sul ciglio della strada. Passò un sacerdote, lo seguì un levita; per entrambi lo sventurato rimase un Egli, un «altro»; lo guardarono allo stesso modo di come si getta un occhio a un cespuglio. Il samaritano si fermò e gli prestò soccorso, per lui l’«altro» divenne prossimo, un termine identificato sempre dall’aggettivo «tuo» e non con «suo».
Tuttavia, a ben guardare, l’autentica vicinanza non fu raggiunta neppure allora. La parabola ci dice che il samaritano parlò con un albergatore, ma non riporta alcun dialogo avvenuto tra lui e il malcapitato. Per certi versi l’uomo ferito rimane ancora un Egli. Visto sotto questa luce, forse un po’ troppo sospettosa, il buon samaritano sembra anticipare comportamenti presenti in non pochi degli odierni operatori sanitari. Troppo spesso in quegli ambiti si oscilla tra modalità di intervento su pazienti considerati come puri Egli o Ella e un rapporto diretto che usa il nome proprio e ricorre immediatamente a un Tu ignaro del pudore tipico del Lei.


Di PIERO STEFANI
La Lettura

leggere

Nel nostro tempo si deve disporre della calma della salamandra se si vuole raggiungere i propri obiettivi.
Ciò vale soprattutto per la lettura, e la sua prosecuzione nelle fasi positive e negative;
se ogni giorno si mette un mattone, in sessanta o ottanta anni si abiterà dentro a un palazzo.

Ernst Junger




Il tempo per leggere è sempre tempo rubato (come il tempo per scrivere, d'altronde, o il tempo per amare).
Rubato a cosa?
Diciamo, al dovere di vivere.

Daniel Pennac






Si scrive soltanto una metà del libro, dell'altra metà si deve occupare il lettore.

Joseph Conrad


tutte le foto sono di Steve McCurry
alla mostra
LEGGERE
Museo di Santa Giulia- Brescia
7 marzo – 3 settembre 2017

lunedì 22 maggio 2017

la madre di Cecilia

Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori.
Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.


I promessi sposi, di Alessandro Manzoni.
La madre di Cecilia.
un quadro, o forse, meglio, una scultura: una pietà michelangiolesca.



venerdì 19 maggio 2017

crossover/s

















qui è l'Hangar Bicocca.
attenzione si va nel grande mondo della piccole cose.
una fune
uno zerbino
una saponetta
un filo giallo
una griglia
una pedana
una luce fioca, in lontananza.
questo signore, Miroslaw Balka, polacco, fa un'indagine curiosa sul confine, il dentro e il fuori, in between.
memoria e oblio.
plurale e singolo.
collettivo e individuale.
passato e futuro.
si tratta di intrecci, di traiettorie che passano attraverso, che attraversano il soggetto, la singola sensibilità, lasciando tracce. il passaggio attraverso il confine comporta un sentimento universale, la paura, lasciando traccia di sè.
sono installazioni semplici, comprensibili, fruibili.
si respira il senso dell'indagine, è facile farsi domande.
l'uomo è assente, assente il suo corpo, ma è intensamente presente, è di lui, di noi, che si parla attraverso le cose.
l'installazione più bella: una casetta di legno e una luce fioca che la illumina.
è come un rifugio nel bosco, un approdo nel nulla. affida un senso di salvezza, di rifugio.
ti avvicini e la luce si spegne.
è buio.
fa paura l'inganno dell'apparenza. lascia soli.

Miroslaw Balka
CROSSOVER/S Hangar Bicocca, Milano
A cura di Vicente Todolí / 16 marzo - 30 luglio 2017





giovedì 18 maggio 2017

leggere




Puoi leggere, leggere, leggere, che è la cosa più bella che si possa fare in gioventù: e piano piano ti sentirai arricchire dentro, sentirai formarsi dentro di te quell’esperienza speciale che è la cultura.

Pier Paolo Pasolini

mai scordare come ci assomiglia il VOI

«Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono/ di quei sospiri ond’io nudriva ’l core». 
Così comincia il sonetto che apre il Canzoniere di Francesco Petrarca. Il pronome che indica la seconda persona plurale è posto in posizione enfatica, all’inizio della lirica. Mediante il Voi, l’autore interloquisce col suo pubblico, lo convoca all’ascolto, lo coinvolge nel sentimento di vergogna per un «vaneggiar» che lo ha fatto diventare una «favola» per il «popol tutto», chiede infine perdono per il suo «primo giovenil errore». 
Già in questi versi, carichi di suggestione, affiora il paradosso che è alla base del pronome personale Voi. Da un lato, infatti, usandolo, distinguiamo nettamente il campo fra Noi e coloro ai quali ci rivolgiamo, accomunati dall’essere appunto Voi, e cioè comunque altro rispetto a Noi. Dall’altro lato, nell’atto stesso in cui pronunciamo il pronome, istituiamo una relazione, perché il Voi, per sussistere, ha bisogno del rapporto con una prima persona (singolare o plurale) che ponga appunto l’alterità, e la nomini col Voi. Ne risulta che ciò che potrebbe a prima vista apparire come un mero dettaglio grammaticale, rilevante solo per gli studiosi di linguistica, si rivela invece denso di importanti implicazioni filosofiche. 
Sia pure implicitamente, l’uso della seconda persona lascia emergere l’impossibilità di scindere le due «persone» che sono nominate attraverso i pronomi. Senza la connessione — tacita o dichiarata — col Voi, l’Io semplicemente non potrebbe costituirsi come soggettività e sfumerebbe nell’indeterminato. Mentre a loro volta le persone a cui ci rivolgiamo attribuendo ad esse il Voi non potrebbero essere riconosciute come «persone» (seconde), se mancasse la relazione con un Io/Noi che tale relazione ponga in essere con la nominazione. 
Usando il Voi, effettuiamo insomma una duplice operazione di allontanamento e avvicinamento: coloro ai quali riferiamo il pronome, per il fatto stesso di essere chiamati Voi, sono riconosciuti come «altri», e dunque lontani da ciò che Io sono, dalla mia identità. Dall’altro lato, quell’alterità non è solo diversità, perché proprio attraverso l’uso del pronome, proprio perché «chiamati» col Voi, gli altri entrano in relazione con me, e dunque in un certa misura mi «assomigliano». 
Sempre più frequentemente la relazione fra il Noi e il Voi ha assunto il carattere del rapporto con quell’altro da noi, col quale entriamo in contatto tramite il fenomeno dell’immigrazione. Con un’importante precisazione. Mentre, già a partire dal Cinquecento (si pensi ad esempio al Proemio dell’Orlando furioso), e poi fino ai nostri giorni, il voi è usato anche in riferimento a una sola persona, come forma di rispetto, il Voi rivolto ai migranti è caricato di una forte enfasi sull’alterità radicale delle persone indicate. Col rischio concreto che il rifiuto dell’alterità del Voi porti con sé anche la cancellazione dell’identità del Noi.

Umberto Curi
La lettura 7 maggio 2017.

venerdì 12 maggio 2017

scrivere è annusare la rosa che non c’è

molte albe, molte gentilezze,
festeggiare molto spesso la luce,
poco avere, scarsi indugi, minare
il rancore, farlo saltare,
meglio lo sperma, la carezza, il fiore.















bene, carissimo Franco Erminio, seguo le tue orme.
nell'unico venerdì di primavera di questo maggio infelice mi sono inoltrata ad Orticola.
giardini pubblici di Porta Venezia.
penso alle tue parole, semplici, fondamentali.
mi godo i fiori, celebro i colori, annuso la poesia, calpesto il mondo, contemplo le radici.
spero di essere sulla strada giusta.

...una piccola catasta di legna davanti alla porta, un cane zoppo. 
Quando guardiamo con clemenza facciamo piccole feste silenziose, 
come se fosse il compleanno di un balcone, l’onomastico di una rosa.

(poesie di Franco Erminio)