bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

martedì 23 maggio 2017

attenti a non smarrire il pudore del LEI

Usare il Lei significa non privare il linguaggio del senso del pudore.
Così avviene quando questo modo di esprimersi (peraltro non presente in tutte lingue) è fedele a se stesso. Mario Rigoni Stern ripensò più volte a un episodio da lui raccontato nel suo famoso libro sulla campagna di Russia, Il sergente nella neve. Era in fuga, spaesato, la fame e il freddo non gli davano tregua. Ecco un’isba; entra, c’erano soldati sovietici e cibo caldo. Lo condivisero. «Perché non mi hanno sparato?», si chiese anni dopo. Si rispose: «Perché ho bussato». Se non l’avesse fatto, una raffica l’avrebbe colpito.
Nella comunicazione linguistica il Lei equivale a quel bussare. Un’irruzione troppo frettolosa uccide le potenzialità contenute nel Tu. Anche nel linguaggio il pudore è una tutela dell’intimità, una relazione, quest’ultima, che diviene autentica solo se protetta. Il precipitarsi dentro la casa altrui è una mancanza di rispetto che nella vita e nella lingua ostacola l’ospitalità.
Bussate e vi sarà aperto? Non sempre ciò avviene; a volte la porta resta sprangata. In questo caso il Lei è— o era — una forma per tenere le distanze. Sono state molte le nuore costrette a dare sempre del Lei alle proprie suocere, situazione asimmetrica specie quando la suocera dava del Tu alla propria nuora, spesso qualificata solo come moglie di suo figlio, vale a dire come un Ella. In questo caso il Lei era sigillo di distanza e non già di rispetto. Ricorrere alla terza persona per parlare con chi ci sta di fronte a volte significa essere costretti a stare sine die in anticamera.
Sul piano del comportamento un procedimento analogo lo si ha quando si è di fronte ad un’altra persona: può restare per sempre «altra», oppure può diventare prossimo. L’evangelica parabola del «buon samaritano» ( Luca 10, 29-37) mette in campo le due alternative. Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, incappò nei briganti e cadde mezzo morto sul ciglio della strada. Passò un sacerdote, lo seguì un levita; per entrambi lo sventurato rimase un Egli, un «altro»; lo guardarono allo stesso modo di come si getta un occhio a un cespuglio. Il samaritano si fermò e gli prestò soccorso, per lui l’«altro» divenne prossimo, un termine identificato sempre dall’aggettivo «tuo» e non con «suo».
Tuttavia, a ben guardare, l’autentica vicinanza non fu raggiunta neppure allora. La parabola ci dice che il samaritano parlò con un albergatore, ma non riporta alcun dialogo avvenuto tra lui e il malcapitato. Per certi versi l’uomo ferito rimane ancora un Egli. Visto sotto questa luce, forse un po’ troppo sospettosa, il buon samaritano sembra anticipare comportamenti presenti in non pochi degli odierni operatori sanitari. Troppo spesso in quegli ambiti si oscilla tra modalità di intervento su pazienti considerati come puri Egli o Ella e un rapporto diretto che usa il nome proprio e ricorre immediatamente a un Tu ignaro del pudore tipico del Lei.


Di PIERO STEFANI
La Lettura

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